La Fioritura dell’Ombra
Da pietrose profondità porto fuori
massi di parole, con le braccia nude
le porto, ansimando
verso la cima dei significati
e appena vicino alla meta mi vince
la stanchezza e le lascio rotolare giù
per il pendio
cadere
e io insieme ad esse sconfitte
infinitamente cadere…
eppure, non risuona in me
richiamo di cime
ma faccio il Sisifo di mestiere
perché ho bisogno d’impenitenti oasi
con cui vestire il deserto
e ho bisogno che non siano massi
le parole ma brezze leggere
che portano semi
che facciano spuntare come per magia
prati fioriti tra chiacchiericcio
di ruscelli.
Senza Sisifo spossato e felice
chiuso nel suo gesto eterno
non si sciolgono le manette
degli inverni siderali
non esplodono di assurda bellezza
le primavere.
***
Una combinazione di pixel di sangue
la nostra immagine si codifica
nel cuore altrui. L’amore la fa
cominciare da capo ogni volta
tornare a riversarsi in forma nuova,
altrimenti è una clessidra non
rovesciabile – misura di tempo già
morto – il sedimento di fondo
non conoscerà la propria portata.
***
Cancellarsi
far sparire il viso tra le mani
sentire la trama delle rughe coincidere
con le linee della mappa
sul palmo, spegnersi allo sguardo
del mondo di cui non ti fidasti perché
ti tradiva quanto più lo amavi
e più lo cercavi tanto più
si allontanava.
È un gioco a perdere
pezzo per pezzo ti stai smantellando
sulla scacchiera eppure
c’è sempre stato il mondo fuori
e dentro e mentre tu svanisci
lui ha su di sé la tua impronta
che la sussurra a ogni orecchio e anche
al tuo saprebbe dire ciò che tu stesso
di te diresti, in tua assenza.
***
Io e il mio cadavere andiamo insieme,
di pari passo procediamo: lui
si decompone decorosamente
puzzando di malinconia ai piedi
delle coltivazioni che nascono
e crescono fidandosi dell’humus
di tale condiscendere.
***
Ci sono di più, molto di più
dove non ci sono – in quel preciso
istante nel posto in cui voglio essere
io ci sono.
Le coordinate spazio-temporali
mi delimitano e ciò che in me c’è
d’illimitato si rivolta contro il corpo
che indebitamente lo contiene
e a quel punto mi fa male
l’aria che mi mantiene in vita e
mi fa male l’acqua che mi costituisce
e la terra che mi regge e che
mi dà il pane mi fa male…
Salvo la luce.
E mi salva Montale che del suo
“male di vivere” ne aveva fatto
la tesi del poeticamente stare.
***
Si è già postumi dentro uno scorcio
di rallentato tempo a osservare
il vissuto con uno sguardo nuovo.
Guardarle capovolte le cose
e desiderarle ugualmente,
apprezzarle più di prima come se
la testa e le gambe si fossero
scambiati i compiti: le gambe – solite
a precipitarsi all’azione prima
del condensarsi del pensiero – ora
ferme ne confermano la ragione.
È una splendida visione, come
dopo una partita a scacchi
i pezzi caduti rimettersi di nuovo
sulla scacchiera, al loro posto.
***
Ho memoria di tutto ciò che
non è stato. Ricordo con precisione
ciò che non ha potuto essere, ciò che
non era stato programmato
di succedere, ciò che non si era mai
sognato che potesse accadere, ciò
su cui non si era messo alcun
impegno e non riposto nessuna
attesa, io lo ricordo.
Lo conosco nei minimi dettagli.
Mi attanaglia la nostalgia
del non vissuto e scendono
sbagliando strada
le lacrime negli scavi del cuore.
Sono utero di feti in formalina,
travaglio di gabbie di vetro che
si rompono, respiro
di liquido amniotico sprecato
che nutre diversa vita.
***
La solitudine non è connaturata
al femminile, è prismatico affollamento
un corpo di donna
è irrequieto nido: dentro le sue vie liquide
c’è un incessante viavai
di uova – folla di potenziali consanguinei
che chiamano, pretendono
scombussolano
e la gioia e il dolore, le lacrime e le risate
il furore e la dolcezza, il sesso e l’amore
dalla stessa fonte sgorgano e insieme
scorrono nel flusso creatore
prima c’era lo sguardo dell’infanzia
affollato di immensi sogni,
dopo – la rugosa memoria affollata
di lievi morti
la solitudine non è affare di donne.
***
Sto come tegola mal messa
che a lungo andare ha preso gusto
del bilico tra il ciglio del tetto
e il vuoto – senza più tremare
sognando il volo
un solo volo.
Mi chiudo nel bozzolo della sera
lasciando fuori accesa
l’insegna “in riparazione”
tutta la notte a filare il vestito
prismatico del giorno: me lo sussurra
la farfalla in sogno.
***
[continua]