Ai VVF del Distaccamento di Imola
per la gentile e calorosa accoglienza
Antefatto
Marta e Maria erano due gemelle identiche che solo la madre riusciva a distinguere perché Marta, la prima a nascere, aveva una leggera soprammettitura delle ossa parietali del cranio, provocato dal forcipe usato dall’ostetrica durante il parto.
Fin da piccole, come si resero conto della loro somiglianza, esse giocavano spesso a scambiarsi per confondere gli altri e si identificavano tanto l’una nell’altra che non riuscivano più esse stesse talvolta a capire chi erano, ricorrevano allora alla mamma che metteva loro le mani sulla testa e sentenziava il responso.
Durante il periodo scolastico non si scambiarono mai dividendosi le discipline da studiare per ingannare gli insegnanti come hanno fatto a volte altri gemelli. Erano brave e diligenti entrambe, molto affezionate l’una all’altra, uscivano sempre assieme, in casa studiavano aiutandosi con profonda dedizione e affetto sincero. Andavano molto d’accordo, avevano gli stessi gusti, si intendevano con uno sguardo, si bastavano.
Questo idillio visto con amore e non senza qualche preoccupazione da parte dei genitori ma soprattutto dei nonni che vedevano oltre le apparenze cominciò a incrinarsi quando entrambe si innamorarono dello stesso uomo, Giulio, un operaio gruista che col tempo, lavorando sodo, era diventato un imprenditore con alle dipendenze una decina di operai manovratori di macchine utensili di sua proprietà: gru, caterpillar, escavatrici, pale meccaniche ecc. In tal modo aveva accumulato una discreta fortuna.
Marta e Maria discendevano da un’antica famiglia di proprietari terrieri ormai decaduti, un tempo avevano una fattoria con numerosi poderi che permettevano loro una vita agiata, con la fine della mezzadria però le rendite della famiglia diminuirono, ma lo stile di vita rimase immutato per cui fu necessaria la vendita di molte proprietà.
Le ragazze erano state educate da vere signorine, avevano studiato quel tanto che consentiva loro di avere una cultura bastante a diventare vere signore, a ben figurare in società, ad essere perfette padrone di casa. Sapevano ricamare, cucire, apparecchiare con gusto, gli altri lavori domestici pesanti erano affidati alle donne di servizio. Sapevano vestirsi con stile ed eleganza, erano insomma delle signorine di classe.
Quale fu lo sconcerto dei genitori quando entrambe si incapricciarono di un semplice operaio! All’inizio gioirono pensando che se entrambe ne erano innamorate egli non ne avrebbe sposata neanche una, invece…
Le sorelle fecero di tutto per far innamorare Giulio e allora, pur mantenendo lo stesso educato e pacato comportamento, si osservarono con occhi diversi, si scrutarono vicendevolmente per capire e prevenire le future mosse l’una dell’altra. Talvolta non si fecero alcun scrupolo di sostituirsi l’una all’altra ad un appuntamento con Giulio che non sempre capiva con chi stava amoreggiando e d’altronde era alquanto lusingato da questi maneggi.
Quando una di esse si accorgeva di essere stata prevenuta dalla sorella, faceva buon viso a cattivo gioco proponendosi di renderle la pariglia alla prossima occasione favorevole.
“Ogni cosa è lecita in amore e in guerra” si dice.
Fu Maria ad avere la meglio sulla sorella e quando si accorse di essere incinta Giulio la sposò contento perché il destino aveva scelto per lui che non sapeva scegliere.
Le nozze furono celebrate in fretta e furia prima che la gravidanza fosse evidente. Maria andò all’altare vestita con un abito bianco lungo con il capo e le spalle coperte da un velo verginale, la sorella le fu testimone e nel momento in cui firmò il registro si sentì anch’essa legata a Giulio e promise a se stessa che non avrebbe sposato nessun altro uomo.
La gravidanza di Maria fu molto difficile a causa di forti nausee che le rendevano impossibile non solo l’alimentazione ma anche l’assunzione di liquidi, ella vomitava in continuazione e più di una volta fu ricoverata in ospedale per essere reidratata durante tutto il periodo della gravidanza. Inoltre aveva pesanti sensi di colpa perché non riusciva a compiere il suo “dovere coniugale”, ogni volta che il marito le si avvicinava il suo corpo si chiudeva a riccio e sentiva di rifiutare il rapporto sessuale che viveva con dolore fisico e avvertiva come una violenza, uno stupro.
Giulio ovviamente non riusciva a capire il comportamento della sua sposa e nonostante l’amore che nutriva per lei si offendeva per i continui rifiuti.
Fuori quando incontrava Marta riemergevano in lui sensazioni mai sopite e parlando parlando delle condizioni di salute di Maria, i cognati si incontrarono spesso e consumarono talvolta rapporti sessuali nella macchina di lui, un suv grande e potente con i sedili che si ribaltavano completamente fino a formare una comoda alcova protetta da vetri completamente abbuiati dagli sguardi esterni curiosi.
La gravidanza di Maria procedeva con grandi difficoltà, metteva in serio pericolo la sua salute tanto che le fu proposto un aborto terapeutico. Ella rifiutò con fermezza e decise con forza di portare a termine la gravidanza a rischio della propria vita.
Al momento del parto ci si accòrse che oltre alla neonata a cui fu imposto il nome Giulia erano presenti in utero altri due feti maschili in diversi stadi di sviluppo, uno di essi fu estratto morto, l’altro prematuro tenuto in vita artificialmente sopravvisse solo pochi giorni. Era accaduto che nonostante la gravidanza Maria avesse delle normali ovulazioni mensili ad alcune delle quali era seguita la fecondazione, perciò il suo corpo rifiutava i rapporti sessuali, ma questo si poté capire solo a posteriori. Giulio avrebbe preferito un figlio maschio, ma quando quella bambola di sua figlia gli saliva sui ginocchi e si alzava sui piedini per tirargli i capelli non ci pensava più e anzi la adorava, anche se la figlia talvolta si sentì colpevole di essere nata femmina.
La salute di Maria non migliorò molto dopo il parto e fu la sorella Marta ad accudirne la figlia così che Giulio si trovò per casa le due sorelle.
Giulia passava così da mamma a zia e talvolta le sbagliava anche se diceva che la mamma sapeva di buono e con lei il gioco delle sostituzioni talvolta architettato da Marta non funzionava sempre.
La partita a tre, ovvero a quattro perché vi era coinvolta anche la bambina, continuò negli anni finché Marta si accorse di avere un male incurabile che le avrebbe lasciato inesorabilmente pochi mesi di vita. Anche Maria, in quel periodo si ammalò per empatia e la madre la portò in una clinica svizzera per poter salvare almeno una figlia.
Marta approfittò del momento, complice la madre, per sostituirsi alla sorella e poter provare almeno nell’ultima fase della sua vita la gioia di vivere accanto all’uomo amato. Giulio con affetto e tenerezza cercava di aiutare la compagna ad alleviare le sofferenze della malattia, ma la figlia volle sostituirsi a lui nel letto matrimoniale, voleva vivere gli ultimi momenti della vita della mamma anche se non sapeva più di buono, le avevano spiegato che dipendeva dalla malattia. Dal momento del funerale Giulia pianse disperatamente la mamma che per lei era effettivamente morta e spesso la ragazzina ormai dodicenne andava al cimitero nella cappella gentilizia dove era sepolta e dopo un pianto dirotto cominciava a parlarle come se fosse stata viva, a raccontarle le sue paure, i suoi pensieri, i suoi dubbi e più di una volta il padre e la zia disperati dopo lunghe ricerche la trovavano anche a sera inoltrata mentre poneva domande o raccontava qualche episodio della sua vita a quella fotografia impressa sul marmo tombale. Quando cercavano di portarla via ella li prendeva a calci urlando:
“Andate via, voglio stare con la mia mamma” e alla zia:
“Tu non sei la mia mamma, tu non sai cosa vuol dire perdere la mamma!”
Talvolta si mobilitava tutto il paese e con insistente pazienza e affetto riuscivano a portarla via solo don Gino il parroco, il maresciallo dei carabinieri e il medico condotto, amico di famiglia, che aveva assistito alla sua nascita, ma seguiva subito senza indugio la signora Gina che talvolta si prostituiva in quanto era una povera ragazza, madre di un ragazzo di nome Attilio, e Giulia talvolta la chiamava mamma Gina perché diceva:
“Una ragazza madre è mamma due volte e da grande mi piacerebbe essere come te!”
Passarono gli anni e quando Giulia diventò maggiorenne il padre sposò quella che, in paese, si pensava fosse Marta anche se egli l’aveva capito quasi subito, dopo il suo ritorno, di chi si trattava, mentre alla figlia fu rivelato dalla madre dopo alcuni mesi il sotterfugio maledetto sperando di riconquistarne l’amore. Giulia reagì con freddezza quasi odiosa rifiutandola e chiudendo il discorso una volta per tutte con una frase lapidaria:
“La mia mamma mi veglia dal cielo, il suo corpo è in una tomba al cimitero e tu l’hai uccisa.” L’inganno si trascinò nel tempo.
L’arrivo in caserma
In un venerdì pomeriggio di fine agosto, dopo aver girovagato a lungo in quella zona della periferia della città con l’aiuto di una carta stradale, perché l’uso del navigatore non le era tanto congeniale, Giulia, quando vide sventolare la manica a vento, segno che era arrivata, fermò la macchina lungo una strada di grande scorrimento in prossimità di un grande cancello automatico che cominciò magicamente ad aprirsi con lentezza.
La ragazza scese, chiuse la macchina, alzò gli occhi ad osservare un grande caseggiato grigio e le chiavi nel tentativo di metterle in borsa continuando a guardare in alto, le caddero di mano, si chinò a raccoglierle e la borsa le scivolò dalla spalla, si chinò di nuovo e avvertì su di sé uno sguardo leggermente beffardo che la osservava compiaciuto. Si riprese, irrigidì il busto, drizzò la testa e con passo deciso si mosse a oltrepassare il cancello e rischiò di fare un bel ruzzolone in avanti inciampando nella guida di scorrimento. Rise e fu una liberazione quando vide davanti a sé un viso maschile abbronzato su cui spiccavano gli occhi scuri profondi che la accolsero con un sorriso benevolo:
“Benvenuta, finalmente una donna in caserma!”
“Grazie – rispose Giulia e tendendo la mano si presentò – Giulia Càrdini, da lunedì prossimo, comandante, in reggenza, in questa caserma.”
“Piacere, Marco Magni, si accomodi.”
Egli le fece strada verso l’interno mentre la ragazza guardava intorno incuriosita e un po’ smarrita il luogo sconosciuto dove era stata destinata e doveva passare alcuni anni della sua vita. Le prese un attimo di smarrimento, avrebbe voluto fuggire e tornare fra la sua gente, nella sua terra d’Abruzzo dove si sarebbe sentita protetta, qui le sembrò di entrare in un mondo sconosciuto e ostile. Fu solo un attimo, rialzò la testa e rispose con uno sguardo riconoscente al sorriso incoraggiante dell’uomo che si era voltato a guardarla e fu colpita da un ricordo lontano: dove e quando aveva già visto quel viso sorridente che la guardava sorpreso? Lo seguì all’interno fiduciosa.
Si sapeva da giorni che in quella caserma di pompieri sarebbe arrivato un comandante donna e naturalmente ciò aveva messo in fermento tutto il personale. In quel fine settimana erano rimaste in caserma le squadre di turno e uno dei vicecomandanti: Marco Magni e si pensava che il nuovo comandante sarebbe arrivato il lunedì successivo, giorno della presa di servizio, invece…
In precedenza egli, in quel pomeriggio assolato di fine agosto, in attesa di chiamate di emergenza, stava in sala mensa con gli uomini del turno a parlare tutti eccitati di questa donna comandante che era stata destinata alla loro caserma, qualcuno era arrabbiato perché non sopportava di farsi comandare da una donna, qualcun altro era eccitato pregustando futuri momenti goderecci. Egli li richiamò con fare vissuto:
“Bòni, col comandante semmai ci provo io” ritenendosi il più adatto per diversi motivi. Gli altri assentirono silenziosamente.
Al vice squillò il cellulare di servizio su cui il centralinista aveva deviato la chiamata che giungeva da un uomo preoccupato che, accoratamente chiedeva se la propria figlia fosse giunta, egli sapeva che doveva arrivare in quella caserma a fare il comandante. Il pompiere sorpreso cercò di tranquillizzare quel padre preoccupato e cominciò egli stesso a preoccuparsi per l’arrivo imminente e imprevisto. Corse fuori per non farsi sentire dagli altri e chiamò l’altro vice che si era preso un fine settimana di libertà. Il colloquio fu alquanto concitato:
“Oh, oh, Marcello arriva!”
“Arriva chi?” chiese l’altro serafico.
“Lei, il comandante” continuò Magni.
“Sì, lo so, arriva lunedì.”
“No, arriva ora, tra poco”
“Tu hai preso un colpo di sole.”
“No, no, arriva ora, mi ha già telefonato il padre, tre volte, in pensiero perché sono ore che non ha notizie della figlia.”
“E allora ricevila tu, è una donna, mi pare anche giovane, sei più adatto di me che ho superato abbondantemente gli anta, pensaci tu, scapolaccio che non sei altro, forse arriverà chi ti farà finalmente capitolare.”
Marco Magni aveva superato i trent’anni e si sentiva più vecchio della sua età, era uno scapolo impenitente convinto, dopo alcune esperienze con donne che se lo erano portato a letto senza remore e lo avevano lasciato nauseato, i suoi appetiti sessuali si erano acquietati, non era mai andato con prostitute a differenza dei suoi amici che spesso lo invitavano a certe escursioni di gruppo, egli si schermiva sempre adducendo scuse più o meno plausibili o tacendo senza farsi problemi per le loro frecciatine allusive. Era un bel ragazzo e più di una donna ci aveva provato con scarsi risultati, al massimo erano riuscite a scoparselo per una botta e via. Da tempo ormai resisteva agli attacchi femminili, non pensava di essere omosessuale, ma non se ne preoccupava, d’altronde non lo interessavano i maschi e ne aveva la prova stando continuamente a contatto con loro in caserma.
Egli viveva in città con i genitori, ma era spesso in caserma anche fuori turno, la caserma era la sua vita, aveva desiderato fare il pompiere fin da piccolo, come il padre che egli ammirava. Il padre invece lo aveva dissuaso, voleva per il figlio una carriera più brillante, meno pericolosa e aveva fatto di tutto per non fargli intraprendere la stessa strada, ma il figlio cocciuto, aveva insistito tanto che fu proprio il padre a formare quel ragazzino irrequieto che lo seguiva sempre in caserma. Appena possibile egli entrò come volontario nei vigili del fuoco e con concorso riservato, effettivo e alla svelta fece carriera interna. Il padre aveva preteso da lui il massimo sperando che egli desistesse.
In quel pomeriggio assolato di fine agosto, Magni si appostò dietro il cancello d’ingresso in attesa continuando il colloquio telefonico con il vice:
“E che cosa faccio?”
“La fai accomodare in caserma, Marco.”
“Grazie, fin qui ci arrivo anche da solo e poi?”
“La porti in ufficio, cazzeggi un po’ con il computer, fai finta che s’inceppi, il computer che s’impianta è una bella risorsa quando c’è da prendere tempo.”
“E che ci faccio col computer, il solitario?”
“Accidenti Marco, sei davanti a una donna e non sai cosa fare!”
“E non posso mica trattarla da donna, è il comandante!”
“Ma sarà sempre una donna e speriamo senza baffi, tu fai finta di leggere il suo curriculum che ci siamo già imparati a memoria, ma guarda un po’ se due mezzi ingegneri come noi dovevano farsi comandare da un architetto e donna per giunta! Uhm, l’architetto, nelle emergenze disporrà i mezzi d’intervento in uno schema coreografico! Bah! Sarà utile per lo spettacolo di Santa Barbara! Ti informi se ha fatto buon viaggio, viene dall’Abruzzo mi pare…”
“Sì fin qui ci so arrivare, dai Marcello, dammi qualche dritta in più.”
“Poi la porti in camera…”
“Magari!”
“Non fare il bischero, Marco, volevo dire nella sua stanza, rimane accasermata mi pare…”
“Sì, la stanza è stata pulita.”
“Sì, quella che dà sulla strada, ma falle vedere anche quella che dà sul piazzale che è chiusa da mesi e speriamo che non la scelga se no ci controllerà anche dal letto!”
“Devo farle firmare qualcosa, far la fotocopia del documento, farle fare il giro della caserma?”
“No, faremo tutto lunedì quando prenderà servizio, se è una donna sarà lei, poi se è una che si è intrufolata meglio no?”
“Grazie Marcello, e doveva capitare a me questa gatta da pelare!”
“Non è una gatta Marco, è una donna! Evvai! Ma è il comandante non te lo scordare!”
“E chi se lo scorda con questo babbo che continua a chiamare in continuazione?” disse fra sé Magni dopo che, chiusa la comunicazione con il vice, immediatamente gli apparve l’ennesima chiamata del padre inquieto a cui rispose tranquillizzandolo:
“Non si preoccupi, la richiamerò io appena sua figlia sarà arrivata, ma vedrà che non è successo niente, avrà sbagliato strada.”
“E chissà dove si sarà perduta, in qualche posto poco sicuro!
“Tranquillo, siam pompieri, addetti anche alla ricerca di persone scomparse, la troveremo!”
Egli lo disse a battuta per rasserenare il padre, ma ottenne l’effetto contrario.
“Mia figlia nei pompieri!” esclamò il padre angosciato.
In quel momento la macchina di Giulia si era fermata davanti la caserma e Magni si apprestò a chiudere la conversazione dato che il padre si era raccomandato di non dire niente alla figlia che altrimenti si sarebbe arrabbiata moltissimo.
Giulia non era una ragazza da potersi dire bella, aveva labbra sottili in un viso paffutello su cui spiccavano gli occhi di un colore cangiante dal giallo al verde, da gatto, che spesso lanciavano occhiate come dardi infuocati diretti al bersaglio e a tratti apparivano velati da un’ombra fugace di tristezza. Aveva capelli neri corvini tagliati alla maschietta e un fisico esuberante, era alta poco più di un metro e sessanta, ma era un tipo interessante. Indossava un paio di pantaloni di tela beige un po’ sformati per le tante ore seduta alla guida e una camicetta di cotone in tinta leggermente avvitata che non nascondeva del tutto le sue grazie femminili.
[continua]