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Il Canonico racconta ancora
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Maria Chiara Firinu - Il Canonico racconta ancora
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 180 - EUro 14,50
ISBN 979-1259510013
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In copertina: fotografia dell’autrice
All’interno illustrazioni di Febe Antoniutti
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2020
Prefazione
Maria Chiara Firinu propone un romanzo che riporta alla luce la commovente storia del canonico Adalberto, nella Contea di San Severino, in un’epoca in cui erano ancora in funzione le famose miniere di calcare.
Il romanzo diventa un cammino nella memoria intrapreso per illuminare la personale storia del canonico Adalberto, ma anche le vicende di tutti coloro che avevano vissuto in quel difficile periodo storico, lavorando alacremente nelle miniere e condividendo con il canonico le sofferenze, le paure ed il travaglio quotidiano.
La Parola di Maria Chiara Firinu fluisce con un’intensa tessitura narrativa, dove le varie fonti della sua ispirazione e creazione si uniscono e si miscelano in un universo emozionale, costantemente sostenuto da una scrittura che modula e fa vibrare il mondo interiore dei protagonisti.
La narrazione prende avvio dalle vicende legate alla sofferta vita dei minatori e delle loro famiglie che vivevano in condizioni di lavoro insopportabili, tra sofferenze e tribolazioni: il buon canonico Adalberto era sempre pronto ad ascoltare ed aiutare i minatori, perché era una persona nobile e caritatevole, capace di trovare una soluzione a qualsiasi problema, come quando, per creare nuovi posti di lavoro, aveva concesso alla miniera lo sfruttamento di una parte della montagna connessa alla proprietà della sua casa, e, ancora, quando s’era messo a produrre olio, coltivando gli ulivi e riportando in vita il suo orto per offrire un aiuto alle famiglie bisognose.
Il canonico amava fissare sui quaderni tutte le vicende umane che lo circondavano, scriveva ogni cosa che gli capitasse, perché scrivere “gli faceva compagnia”: ecco allora tornare in vita la miscela di riflessioni e pensieri che si agitavano nella sua mente; gli avvenimenti della Contea; la difficile vita e le condizioni disumane dei minatori assediati dalla miseria: ma, il filo conduttore delle sue memorie, era il costante e profondo sentimento per Rachele, “un’amica speciale”, che era stata sua compagna di scuola, e si percepisce che li univa un amore tenero e puro.
Maria Chiara Firinu riesce ad illuminare tale sentimento puro con parole che nascono sempre da uno sguardo pervaso di dolcezza e tenerezza, quasi a voler stemperare le percezioni della sofferenza che assalivano Adalberto, riportando con limpidezza la loro storia ed il ricordo struggente di quel sentimento puro che li univa in eterno: lui aveva amato Rachele durante il periodo della scuola, prima che diventasse prete, ma non aveva mai smesso di amarla, d’altronde le aveva scritto anche durante il periodo del seminario, e, persino quando lei si era sposata, aveva continuato a scriverle per placare quel desiderio, e anche se Rachele non avrebbe mai letto quelle parole, a lui bastava rileggerle per illudersi di aver parlato con lei, era un modo per sentirla vicino, per allontanare la solitudine che diventava sempre più opprimente.
Durante il processo narrativo si susseguono alterne vicende, fino a quando le miniere vengono definitivamente chiuse ed il canonico, dopo un incendio doloso che distrugge la sua casa, non potendo più aiutare le persone povere della Contea, era entrato in convento: lo zio Giovanni si era occupato della chiesa ed una delle sue nipoti, chiamata la “Contessa”, che, fin da piccola, aveva il desiderio di conoscere quelle storie, quando trovò alcuni quaderni del canonico nascosti in una cassapanca della casa, cominciò a scrivere la sua storia.
Ecco allora che i pensieri e le riflessioni del canonico Adalberto riprendevano vita, gli appunti della sua esistenza con le memorie e le “consolanti” emozioni tornavano a risplendere, le preghiere e le richieste di aiuto a Dio illuminavano ancora il cammino di un uomo di chiesa, oltre alle numerose pagine dedicate alla dura vita dei minatori.
I quaderni del canonico Adalberto rappresentavano una sorta di archivio storico che custodiva numerose vicende del passato, e la donna che aveva trovato questi quaderni era ritornata a San Severino per salvare, da un luogo ormai in rovina, ciò che era rimasto avvolto nel silenzio per molto tempo.
Maria Chiara Firinu scandisce armonicamente, in modo perfetto, il lungo cammino nella memoria intrapreso grazie ad un avvolgente processo narrativo che rivive tra le pagine lasciate dal canonico Adalberto, diventando testimone del suo tempo, per poter ascoltare quel mondo interiore di ricordi ed emozioni, per poter rivivere il sentimento e l’affetto profondo per la “sua” Rachele.
Massimo Barile
Il Canonico racconta ancora
Al mio caro zio Giovanni,
antico ispiratore di queste pagine
Il canonico racconta ancora
I
L’insieme di queste pagine nasce per un motivo particolare che ha bisogno di essere spiegato con parole, con altre pagine.
Il titolo invita ad ascoltare un lungo racconto che può essere capito meglio, che da qualche altra parte è atteso, che immagina o forse suppone particolari e novità da scoprire, se si arriva a trovarle.
Qualche tempo fa, prima di questo lungo racconto e con un titolo simile, c’è stato un altro insieme di pagine, l’inserimento nelle stesse di un certo numero di personaggi che hanno avuto il loro ruolo e che, più o meno nello stesso luogo e tempo si sono raccordati tra di loro.
Agli stessi personaggi, anche se non proprio a tutti, anche nelle pagine più attuali, pur con parole e stati d’animo diversi, è stato assegnato lo stesso ruolo. Le azioni e il comportamento della loro entrata in scena sono il risultato della curiosità suscitata dalle “vecchie pagine” nelle quali, forse, manca un certo tipo di osservazione e la scoperta di quanto si sarebbe voluto trovare e più a portata di mano.
Per questo è necessaria una sorta di spiegazione, un richiamo che riesca a inquadrare il contenuto e la presentazione di quanto si è verificato a suo tempo.
Il luogo era ed è una località denominata da sempre contea di San Severino. Il tempo è lontano, il lavoro era riferito anche all’epoca alle miniere; il personaggio principale era un canonico che si occupava del prossimo e della chiesa edificata nella stessa zona in cui abitava, che gli apparteneva insieme a una gran parte della montagna che attorniava la casa e la tenuta.
Anche nella casa, le persone che la tenevano viva erano diverse e speciali ma non tutte appaiono nelle pagine più recenti.
Fra le amicizie più importanti del canonico Adalberto c’era Rachele, che non abitava in quella casa, e che era stata una sua compagna di scuola.
La persona che scriveva era denominata la contessa ed era lei che aveva messo insieme diverse pagine di quel libro che era stato discretamente considerato. La prefazione del critico era ricca di elementi e di descrizioni veramente validi per tutto il contenuto e, accompagnando lo svolgersi della vita di tutti quei personaggi aveva dimostrato di condividere la trama, la memoria, l’animo di chi aveva espresso in parole scritte tutto ciò che era rimasto in silenzio per tanti anni.
Da qualche tempo gli amici chiedono notizie del libro che ha visto la luce qualche tempo fa e sono molto curiosi di conoscere il prosieguo della storia: sì, loro sono convinti che ci sia stato un risvolto e insistono perché chi ha scritto la prima parte provveda anche al seguito.
Lei, chi scriverà, ascolta senza poter dare risposte né alcuna garanzia. Se la prima parte di quelle righe e di tutte quelle pagine ha lasciato il segno, è stato solo un caso, aiutato all’inizio dal desiderio di scoprire e agevolato fortunatamente, poi, dalla scoperta di qualche foglio ritrovato, con confidenze e testimonianze depositate e poi dormienti, in attesa di un risveglio senza data. Infatti la fretta non ha avuto amici né sollecitudine per quel risveglio. La scoperta della prima parte di quegli scritti aveva avuto luogo nello sgabuzzino abitato da ragni e pipistrelli dove giacevano dimenticate antiche anfore in terracotta e bottiglie scompagnate ricoperte di polvere scura.
La contessa aveva riportato sulla carta le numerose notizie della scoperta di quel luogo, le cui dimensioni fisiche ridotte niente avevano a che vedere con la ricchezza della storia e del sapere lì custoditi: assomigliava a un archivio storico, di quelli ricchi davvero di storia. Sì, non tutti gli archivi sono così, nemmeno nella città in cui il grande canonico aveva abitato! Certo, quella scoperta, per quanto veramente utile, non era stata l’avvenimento principale nei giorni del ritrovamento e del susseguirsi degli altri. La contessa stessa, che ancora non sapeva di aver ereditato quel titolo, viveva e aveva vissuto, fin da piccolissima, col desiderio di conoscere quella storia che le sembrava incantevole e magica per quanto difficile da scoprire, ed eventualmente, da comunicare: lei si sentiva parte profonda dell’insieme e di appartenerle, quasi per diritto ereditario.
Di fatto, le cose e gli avvenimenti a volte si verificano spesso così, quando non si aspettano e ci coinvolgono senza permesso, salvo essere poi ratificati dai notai o dalle leggi di usucapione che hanno sempre e comunque bisogno di scrittura.
Chi scriveva, di fatto non s’intendeva di titoli nobiliari né era interessata a occuparsene e a possederli. Tanto tempo dopo aver lasciato l’abitazione bellissima del canonico di San Severino nella quale aveva abitato per tanti anni, le capitò di entrare in un negozio semplicemente per acquistare del pane. Una donna in età, appena l’aveva vista, con un grande atteggiamento di rispetto le disse: “Oh, la contessa!” e spiegò in seguito la sua simpatia per quella persona che emanava un atteggiamento regale un po’ austero ma educato.
Un po’ in imbarazzo, pur non capendo subito l’affermazione appena sentita, sentì arrivare in suo aiuto una veloce riflessione che spiegava in breve quanto detto a voce alta, alla presenza d’altre persone. Era vero, infatti, che chi eredita un luogo o ne diventa proprietario, ne eredita per conseguenza logica anche i titoli nobiliari: gli stessi che senza ombra di errori o incomprensioni erano dichiarati da una scritta in ferro battuto piantata alla base dell’ulivo più antico della contea di San Severino.
Forse proprio da quella scritta, dal ritrovamento della stessa, dalla terra che da qualche parte ancora la contiene e la protegge, arriveranno altre notizie… per chi le vorrà ascoltare.
La contessa infatti era andata lì, a San Severino: per cercare, per trovare ciò che aveva lasciato il canonico Adalberto, a suo tempo; quello che aveva dovuto lasciare lei senza che l’avesse mai desiderato.
Camminava e a ogni passo sapeva che un qualcosa l’avrebbe trovato: niente che fosse visibile al suo sguardo, niente che le sussurrasse di cambiare ambiente o strada. Passava sulle orme di tutti e il suo cuore godeva di tanti sentimenti insieme: tristi forse, lontani di sicuro come data ma attuali e pulsanti come se fossero stati lì ad attenderla e a spiegare. Si accorse con gioia e soddisfazione che niente era dimenticato né tanto meno sepolto. Passo dopo passo, fu conscia del vissuto che le veniva incontro come un libro pieno di verità, un libro che rileggeva senza fatica, senza meditare per forza sul significato delle parole contenute all’interno. Erano sue, le conosceva tutte anche se non le pronunciava a voce alta. Le ripeteva in silenzio, lo stesso nel quale avanzava commossa e convinta. Era tutto lì e tutto vedeva, tanto che non sentì affatto d’aver subito una perdita nel visitare quel posto appartenuto a un amico speciale che le aveva raccontato tante cose; si sentiva viva, in gran compagnia di tutto ciò che lì era stato vita, respiro e, perché no, amore.
Per quanto non le sfuggisse niente, in mano portava un quaderno per annotare qualche appunto, ma si rese conto, lucidamente, che nel luogo suo niente era stato accantonato o ridimensionato dal tempo che, a volte, modifica il valore delle cose. Modificare le sue, quelle che incontrava a ogni passo, sarebbe stato proprio assurdo, quasi un affronto dato che nessuno può sconfiggere o annullare sentimenti che sono stati vivi, presenti.
Non ci furono sorprese nel camminare liberamente sulla terra di San Severino ovvero, se ci furono, non potevano essere paragonate ad aspetti negativi: sapeva che non avrebbe trovato la casa, ma tutto, proprio tutto aleggiava intorno e continuava a inviare una musica trasformata in parole da ascoltare. Lei poteva distinguere, in quanto testimone del tempo, che il presente che le era davanti aveva cominciato a fornire due parti precise della vita, delle vite che lì erano state vissute. Le vite addirittura potrebbero essere considerate tre se si considera l’amore tenero di Adalberto con Rachele.
Tra passi e pensieri, meditazioni e ricordi, lei camminava riconoscendo ogni cosa e anche ciò che sembrava nascosto si manifestava per farla felice.
Non credeva alla psicologia ma aveva fiducia in tutto ciò che incontrava sul suo cammino e lo analizzava con il pensiero e l’accuratezza dei quali si trovava in possesso. Del resto, anche un oggetto qualsiasi, come un martello trovato in un letamaio, le proponeva riflessioni senza esternare parole che la riportavano indietro tanto da riuscire a comporre una storia scaturita dal passato non conosciuto. L’esperienza le aveva insegnato, comunque, che i conti di volta in volta tornavano con ciò che aveva immaginato o supposto. Per questo motivo vagava nei punti già abitati con la certezza che giovassero alla ricerca e quindi al ritrovamento.
Non a caso, San Severino, era l’unico posto giusto.
La casa era lì con le sue rovine che avrebbe rimesso in piedi all’istante se appena ne avesse avuto le capacità pratiche, ma di sepolto non c’era niente: le storie vissute, spontaneamente, le venivano incontro da ogni parte.
Dando le spalle ai due pini secolari piantati in quel largo spazio che aveva ospitato il cavallo e la carrozza del canonico, era facile e logico guardare la montagna del calcare. Quel luogo pieno di minerali, quasi magico per l’aspetto esteriore scuro, ma di fatto luccicante e benevolo, spontaneamente aveva fornito l’acqua alla sua casa, alla famiglia, ai viandanti e a tutti coloro che ne avessero avuto bisogno senza fare la fila per la richiesta. A quei tempi non era cosa logica avere l’acqua in casa. Non c’erano tubature che arrivassero dentro gli ambienti né esistevano all’esterno collegamenti con sorgenti o acquedotti. Nei paesi, nelle borgate, l’acqua da bere veniva fornita con strane autobotti (bidoni alti) ma solo una volta alla settimana. Le famiglie possedevano tante brocche in coccio, per la riserva che sarebbe durata fino al rifornimento successivo e piccoli tegami in alluminio fortemente ammaccati, che messi in fila uno dietro l’altro stabilivano i turni e le precedenze per la consegna di quel liquido vitale. Per gli altri usi bisognava recarsi al fiume, poco più di un rigagnolo che in estate mostrava il suo letto duro e asciutto. Lì, nella montagna calcarea, invece, lo scorrere della pioggia aveva creato una sorta di scanalature verticali che, guidando l’acqua verso il basso, aveva costituito una piccola diga di provvista.
Il primo incontro con i ricordi venne proprio da lì, in quel giorno nel quale niente era stato programmato, né supposto, né immaginato.
[continua]
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