Le mie pietre

di

Maria Chiara Firinu


Maria Chiara Firinu - Le mie pietre
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 80 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-0075

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Prefazione

“Le mie pietre” di Maria Chiara Firinu comprende la raccolta di dieci racconti che rappresentano frammenti esistenziali legati alle esperienze del proprio vissuto, nonché narrazioni che nascono dalla capacità creativa e inventiva con visioni e percezioni collegate alla complessità dell’animo umano e, al contempo, riconducono all’universo emozionale dell’Autrice che riesce a plasmare interessanti gemme narrative, mai dimenticando di tenere ben presente un sottile filo conduttore che fa da legante nell’intera raccolta.
Questo sottile filo unificante è l’estrema sensibilità nel raccontare ciò che ha costituito valore fondante nella vita: episodi, ricordi ed emozioni intense collegate ai diversi stati d’animo. E la sua Parola è sempre pervasa da profonda umanità.
Il flusso di sensazioni ed immagini si alimenta della fervida creatività di Maria Chiara Firinu attraverso un attento scandaglio del mondo interiore, delle manifestazioni del vivere e della meraviglia del mondo naturale.
Nei racconti, intensi e penetranti, ritroviamo, in primo luogo, il richiamo alle proprie radici con il ritorno alla “vecchia casa tanto amata” ed ecco allora che i “capitoli della vita” sfilano davanti agli occhi fino all’estremo impulso di ritrovare le “sue pietre” come a ricercare il proprio vissuto.
Poi, nel racconto “Sognando”, emerge l’inquietudine di una donna che sente vicino a sé una “strana presenza femminile” che produce sensazioni inconsuete ed un profondo travaglio che rendono difficile capire tale condizione e, infine, si accorgerà che è stato solo un sogno, un momento in cui la sua coscienza è “volata lontano”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, la protagonista di un altro racconto, è una donna che posa per un artista e rivede in quel ritratto, il volto di una “donna nuova”, che ha voglia di cambiare la sua vita e, ancor più, che vuole “ancora sognare”. Ecco allora che, in quegli occhi, percepisce i sogni e si rende conto quanto sia importante avere la possibilità di vedersi “con gli occhi di qualcun altro” per riuscire a conoscere meglio se stessi.
Non mancano poi i ricordi sommessi che fanno, ad esempio, tornare alla mente l’incontro con un uomo per “andare a vedere il mare” sul far del tramonto, quando erano bastate poche “parole leggere” perché la vita attingeva a semplici emozioni: l’atmosfera e il silenzio d’un luogo, le metamorfosi della natura davanti a sé, tutto miscelato in una “intesa spirituale”.
Nella sua volontà di fissare i predetti frammenti, dall’amore di una figlia per il padre ad una donna che afferma “il vento è come l’anima mia”, v’è tutta la necessità vitale di innalzare le occasioni dell’umano vivere con un canto poetico, recuperando dal proprio universo emozionale la consapevolezza che la vita è una ricerca continua: tutto ciò che è stato conservato e custodito dalla memoria diventa unico bene prezioso per alimentare la coscienza, per offrire spiragli di luce che irrompano nella quotidiana esistenza.

Massimo Barile


Le mie pietre

A tutti i miei familiari


SOGNANDO

Su quella spiaggia lunghissima, odorosa di alghe e di sale, una figura umana avanzava lentamente come se fosse in compagnia di un’altra presenza. Quel suo incedere lento e sicuro non sembrava essere ritmato da movimento di piedi ma piuttosto da volo di pipistrello, nero per l’aspetto, poco elegante nello spostamento a causa di ali prive d’ossa cave.
Tuttavia in totale silenzio avanzava con prepotenza, per appropriarsi di spazio e di potere verso le persone che si trovavano su quella striscia di terra che il mare lambiva da secoli. Piccole onde arrivavano a destinazione e scomparivano lasciando spazio alle successive che, ingrossate dal vento, indossavano un vestito bianco e schiumoso. Anche in quel momento quel ritmico gioco d’acqua continuava a ripetersi senza che la presenza strana ed indefinita potesse impedire il compimento del normale e scontato ordine delle cose.
Con il suo aspetto terribile e sconosciuto avanzava incurante del disagio che poteva procurare nelle presenze umane, vive, lì esistenti. Il suo sgradevole incedere, da animale notturno, voleva nuocere o insinuare nei presenti paure ed angosce?
Voleva accusare per far scaturire pentimenti e porre la parola fine?

Un vento leggero muoveva la lunga gonna di Matilde che, ferma sulla sabbia, si sentiva in colpa per qualcosa che avrebbe voluto considerare rigorosamente suo ma che, di fatto, non le apparteneva. Combattuta, rifiutava di parlarne anche con se stessa, ma non la sfiorava per nulla la possibilità di una rinuncia. Rifletteva avvertendo ugualmente un certo disagio che la sua sensibilità non poteva eludere e, per quanto non volesse, quel suo tormento era diventato piacevole compagnia.
Quell’apparizione inaspettata, quel confronto improvviso le fecero esplodere dentro sensazioni di dubbio e malessere che avrebbe voluto considerare inesistenti.

Pur solo a guardarla la figura non nascondeva niente: né se stessa né lo scopo dei suoi propositi e senza difficoltà mostrava il viso deturpato e consunto dalla morte dei tessuti e dalla mancanza del sangue vitale.
Quello era il suo aspetto: strano, accusatore, sinonimo di potenza, foriero di paura.
In un turbinio d’inquietudine Matilde capì che il suo campo era stato invaso e cominciò a tremare. La sua voce scomparve e con lei il coraggio di parlare in sua difesa per chiedere, per quanto in torto, di essere compresa. Il rimprovero, percepito ma non udito, sembrò arrivarle diritto al cuore dimostrandole, in un solo istante, che le altre persone presenti in quella spiaggia non potevano né avevano motivo di essere coinvolte in quella storia che riguardava solo lei.
Il suo compagno era lì e, per quanto la sua presenza fosse sicurezza e rifugio, non lo vedeva. Avvertì un brivido ed un senso di smarrimento che si premurò di colmare subito. Raccolse le schegge di coraggio che andava cercando da che le mancava il supporto affettivo di sua madre che, fisicamente non c’era più. La invocò perché l’aiutasse. Era sicura che la vedesse sempre e che la confortasse al momento opportuno. Raccolse anche gli altri ingredienti validi e vitali che il suo compagno cercava di infonderle per ricominciare a vivere. Una vecchia storia, infatti, aveva lasciato solchi profondi che avrebbe voluto ricoprire per sempre.
Lui faceva di tutto per liberare la sua anima viva, prigioniera di un insieme di cose che aveva amato ma che al momento non avevano più nomi precisi. Ed era felice per quel dono che non aveva chiesto e non immaginava di ricevere. Lei non aspettava proprio niente ma, al momento, l’amore che provava le impediva di rinunciare a quell’esistenza che, era vero, non le apparteneva, ma stava cambiando piacevolmente la sua vita.

Il suo volto aveva assunto di nuovo, dopo tempo, le sembianze della gioia che se proprio non poteva essere definita felicità assegnava ai suoi giorni ore di luce e di sole. Il suo corpo si era modificato, snellendosi, per piacersi e per piacere. Coloro che le stavano intorno avevano notato ed apprezzato la sua metamorfosi. Tutti la trovavano bellissima, con gli occhi aperti e sognanti, senza trucchi, senza inganni ed aggiunte inutili e lei aveva cominciato a vivere in un’altra dimensione.

Ne aveva finalmente diritto.

Un temporale l’aveva svegliata da un sonno profondo privo di sogni ed ebbra ed incosciente, si era lasciata travolgere ignorando l’esistenza della ragione per lasciare spazio ad un delirio inaspettato e sconosciuto.
Che cosa voleva distruggere quella presenza sulla spiaggia?
Cercava lei.
Matilde ne era sicura senza avere dubbio alcuno.
Quella figura non la guardava perché gli occhi in quel viso non esistevano più; non le parlava perché la bocca era completamente cancellata da quella faccia. Al posto delle guance appariva nitida una sagoma di mascella scheletrica, marcata con tratti decisi. Ricoperta di tessuto, nel suo insieme quella faccia aveva certo incarnato una bellezza femminile non comune. Le sue belle mani, grandi ed espressive, non si muovevano per indicare, con dei gesti, soluzioni a situazioni e cose.

Eppure erano lì per rimproverarla.

Matilde le guardò con attenzione, ormai era molto vicina a lei.
Notò che la mano sinistra della figura indossava un anello d’oro al centro del quale, il rubino con le perle avevano perso la naturale lucentezza ed apparivano spente. Riconobbe le sue in quelle mani e in quello il suo anello. Lo portava al dito da poco tempo ma il suo brillava e il bagliore dello stesso cambiava, aumentando, secondo le diverse fasi della luce. Muovendo in continuazione le mani lo ammirava godendo di quell’alternanza di splendore che si modificava, in crescendo, come il suo stato d’animo al momento felice.

La figura, a parte l’incedere, non faceva alcun rumore ed appariva fissata in un ruolo rigido, definito come il suo intento. Pur volendo respingere quella sorta di aggressione Matilde capì, senza via di scampo, di essere in quella spiaggia, l’unica depositaria delle attenzioni di quella presenza.
Non lo ritenne un privilegio, ma al contrario, odiò quel tipo di predilezione. Non voleva discutere con nessuno del suo amore. Non era suo ma lo amava e questa volta non avrebbe sopportato intromissioni o sconti ad opera di altri. Questa volta lo avrebbe difeso con tutta l’energia che lo stesso le dava.
Avanzando alla stessa maniera, regolare ed uniforme, ma soprattutto silenziosa, Matilde notò che la figura femminile, totalmente priva di sentimenti, indossava una lunga gonna a fiori, un gilet di pizzo nero ed una collana di perle. Spontaneamente si portò le mani al collo come per accertarsi che la collana che amava da sempre fosse su di lei. Non l’aveva. Si stupì e si preoccupò ancor di più nel vedere addosso alla figura un completo che aveva confezionato per sé e che, data l’eleganza, usava solo di sera.
Di fatto non esistevano stonature in tal senso perché il sole era calato da un pezzo quando si imbatté in quella presenza vestita dei suoi abiti eleganti e dei gioielli che trattava con riguardo.
Sgomenta e perplessa continuò a riflettere e a porsi silenziose domande pervase da malessere, decisa comunque, a difendere il suo amore anche da presenze scomode e sconosciute come quella che aveva di fronte.

Per un attimo pensò che non fosse proprio sconosciuta.
Questa volta la vedeva in faccia, altre volte l’aveva sentita nel suo intimo e, alternativamente, secondo l’umore e le situazioni, l’aveva anche ascoltata.
Doveva ammettere che in maniera più o meno turbolenta si era sempre fatta sentire, talvolta con insistenza fino ad essere vincente, ma non l’aveva mai cercata.
Perché si era presentata ora? Quali i suoi propositi sugli altri, su chi era veramente felice?
In quel momento, sentendo aumentare il senso di disagio e quasi di panico, Matilde pensò che fosse arrivato il momento di chiedere aiuto al suo compagno, almeno con lo sguardo. Lui non era lontano e continuava ad ammirare l’ambiente marino, nuovo e sconosciuto, dove urginee marittime e ginepri nani allungavano le radici per dissetarsi all’acqua salata. Radici nodose, contorte, seppellite qua e là dalla sabbia o dall’acqua, ogni tanto fuoriuscivano mostrando la loro parte levigata dal sale, il dorso sbiancato dal sole, la corteccia grigia screpolata e rinchiusa in se stessa come boccoli di capelli della fine del secolo. Radici che portavano lontano; con la loro forza vitale avevano raggiunto la terra collinosa per affondare in un’acqua più tranquilla e più dolce.
Matilde si sentì come loro… forte.
Fu tentata di voltarsi ma si trattenne persuasa che il suo amore dovesse restare protetto e all’oscuro di tutto.
All’improvviso le tornò in mente Euridice e si sentì Orfeo. Decise di non rischiare e di risolvere da sola. Teneva troppo al suo amore e ormai era convinta che la “figura” volesse punirla per la sua appropriazione indebita, rimproverarla per quella scelta alla quale non era ancora in grado di rinunciare.
La figura si stava appropriando di tutto: del suo corpo, dei suoi abiti, dei suoi gioielli e, ancora non paga, avrebbe voluto derubarla del suo amore pulito. No!

Matilde, come spesso succede, non si sentiva in colpa. Amava e tanto le dava la libertà di perdonarsi.
I suoi piccoli nipoti che aveva portato con sé per giocare all’aria aperta e avere la loro compagnia, urlavano felici. Mentre correvano, si lanciavano gusci di bianche conchiglie morte, consumate dai continui abbracci del mare.
Il mare, in quello stesso momento, ignorando presenze vere o presunte, intrecciava giochi con le vite del suo profondo, forgiando ininterrottamente rami di corallo, sirene di rocce levigate e spettacoli d’alta marea in accordo con la luna.

Nessuno, né i bambini si accorsero di quella presenza che faceva paura e che era apparsa per giudicare e per punire qualcuno.
Matilde, pur felice, sapeva d’essere quel “qualcuno” e, sopportando da sola una prova che le sembrava ingiusta ed esagerata, capì che il suo bisogno d’aiuto diventava immediato.

La figura aveva aumentato il passo.

Matilde cercò il suo compagno.
Lo sapeva a due passi da lei, attratto dalla bellezza di quella spiaggia, dal canneto basso e tremulo e dalla foresta dei ginepri protetti e protettivi, immobili in quel momento ma contorti ed umiliati dalla furia del vento invernale.

E ancora una volta si gridò dentro: “Sarò forte come loro, io amo”.

Le nuvole pallide, padrone di quella parte di cielo, ancora incerte sulla stagione che stava cambiando, guardavano le piccole onde del mare, testimone e teatro di una scena nella quale Matilde si sentiva purtroppo protagonista senza ricevere degli applausi.
Non osò chiamare il suo compagno. Sapeva che pur riuscendo a tranquillizzarla si sarebbe preoccupato per lei.

In una rapida successione di stati d’animo e di sensazioni scomposte, si comportò come se fosse sola, come se quell’amore non esistesse e prese la decisione con se stessa. Resistette all’impulso di coinvolgerlo e fu contenta che la cosa spiacevole non lo riguardasse. Voleva proteggerlo a tutti i costi ma desiderava anche essere protetta, custodita e al riparo da perdite affettive.
Si rese conto in quel momento di quanto fosse grande la sua fragilità e si sentì simile al cristallo, ma del cristallo aveva anche la trasparenza e pertanto non si sentiva né colpevole né ladra. Cercò forza in quel sentimento e rimase aggrappata ai sogni proibiti e felici di quella nuova stagione.
Pur con fatica, decisa a tutto pur di non perdere, stava per proporre la sua rivolta quando un sussulto improvviso la scosse, svegliandola.

L’alba cominciava ad entrare dalla finestra che il caldo estivo aveva tenuto aperta durante tutta la notte.
Stanca e madida di sudore Matilde ansimava. Si guardò le mani dove il suo anello brillava con tutta la sua luce.
La sua bellissima gonna a fiori ed il gilet di pizzo erano poggiati sul baule ai piedi del suo letto.

La coscienza era andata via, molto lontano, a depositare i suoi rimproveri da un’altra parte.

Ma il suo compagno era lì, vicino a lei, tenero e sensibile, per raccontarle ancora tante fiabe d’amore.


Racconto premiato nella XV Edizione del Premio Internazionale M. Yourcenar 2007, Sezione Narrativa in Lingua Italiana, Montedit – Milano 2007.


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