Racconto premiato di Maria Chiara Firinu


Con questo racconto è risultata 12^ classificata nella XX Edizione del Premio Letterario Marguerite Yourcenar 2012 – Sezione narrativa


Questa la motivazione della Giuria: «Racconto struggente nel quale domina l’amore profondo di una figlia per la madre. La protagonista Rachele scrive con il cuore e sente la mancanza della madre che “ascoltava in silenzio” quando lei le leggeva ciò che scriveva. Emerge prepotente il dolore per la perdita della persona amata: il dolore straziante che scava nell’animo, che apre fenditure nel cuore. E’ la funzione liberatoria della scrittura, capace di far diventare leggera la mente e aiutare a riscoprire la serenità». Massimo Barile


Inverno nel cuore

Troppo spesso provava per lei un dolore profondo, trafittivo. La cercava dovunque e aspettava le risposte che avrebbe voluto sentire. La certezza che non sarebbe mai più tornata la riempiva solo di malessere, uno stato d’animo che non riusciva a spiegare con le parole. Il tempo che passava non modificava il dolore né mitigava la sua tristezza. Nemmeno i discorsi che gli altri proponevano avevano effetto. Mai. Il suo ritornare a lei era quasi ininterrotto e talvolta, per pochi secondi, immedesimata o assente, intravedeva il sorriso sereno di sua madre che ricambiava il suo triste e scoraggiato. Un flash di serenità che appariva e scompariva nella realtà in cui stava vivendo.
La mancanza della presenza fisica era un vuoto incolmabile e non sentire la sua voce che consigliava ed approvava erano una privazione obbligata e mal sopportata.
Lei aveva bisogno di sentire il suo pensiero e di comunicarle il proprio.
Però doveva farne a meno e provava un senso d’abbandono.

Intanto ormai senza entusiasmo, come una cosa inutile, aspettava la risposta dal concorso letterario al quale aveva partecipato qualche tempo prima.

Scriveva la verità, scriveva dei racconti, fissava le sue emozioni su quei fogli che la impegnavano senza fatica e si sentiva più libera una volta che aveva operato quel travaso e alleggerito la sua mente da tutti quei pensieri.

Ormai scriveva molto su sua madre perché continuava, come prima, ad aver bisogno di lei. Voleva a tutti i costi che ci fosse e immaginava di poterle leggere, come aveva sempre fatto, tutte quelle righe. Non avrebbe potuto continuare a scrivere senza quella certezza. Doveva essere sicura che dopo aver scritto per lei avrebbe anche riletto.
Era una convinzione personale che l’aiutava a vivere. Pensava all’accoglimento di certe frasi e di ricordi comuni che le sarebbero piaciuti più di altri. Immaginava l’espressione del suo volto e il piacere che avrebbe provato vedendo scritto ciò che aveva vissuto e che ricordava con lucidità giovanile. Le piaceva essere nominata nei racconti di Rachele, le piaceva che sua figlia parlasse di suo padre, che raccontasse anche della bambola che suo fratello aveva cercato di distruggerle. Ascoltava in silenzio quando sua figlia leggeva e le mostrava rispetto e riconoscimento con la certezza che se lo meritasse.
Rachele non aveva pretese, scriveva per la famiglia ma sua madre aveva sempre le braccia aperte e il cuore grande per apprezzare ogni cosa. Amava davvero ritrovarsi in quelle pagine, avvolta da una gioia innocente come di fronte ad un regalo perché tutte quelle parole appartenevano alla sua casa, alla sua vita che aveva dato la vita a tanti figli.

Quando arrivò la risposta dal concorso letterario, sebbene non si aspettasse consensi, fu invece lodata per il contenuto di quelle pagine e per la forma.

Qualche giorno dopo Rachele, seduta di fronte a chi aveva espresso il giudizio, ascoltò il responso diretto e immediato. Si sentì dire: «Lei sembra abituata a scrivere da molto tempo sicché non è stato difficile trarre delle conclusioni positive leggendo il materiale sottoposto alla nostra attenzione».
Un po’ emozionata ma soprattutto in preda al malessere che conosceva bene, trovò difficoltà a far uscire la sua voce e timidamente chiese se ci fossero molti errori. Sapeva di usare tutta la sua attenzione per non commetterne ma la convinzione che gli altri fossero migliori di lei, le imponeva una certa cautela.
«Non abbiamo dovuto correggere proprio niente», fu la risposta, «tutto scorre piacevolmente».

Per scrivere, come si dice abitualmente, aveva usato il cuore. Poteva dire che la testa e la penna fossero stati elementi necessari ma di secondo piano. Aveva scritto pensando agli affetti.
Avrebbe dovuto provare gioia per quanto appena sentito; un po’ di tempo prima sarebbe stata evidente e logica. Sua madre c’era ancora e sperava di vivere con lei quel momento. Invece tutto si tramutò in panico per non poter correre a comunicarle la bella notizia. Lei, più di sua figlia, sarebbe stata felice e orgogliosa. Prima che se ne andasse, aveva letto molte pagine del romanzo familiare che Rachele cercava di scrivere.
Ogni sera, dopo cena, come se fosse stata una preghiera da recitare chiedeva se ci fosse qualche altra pagina da scoprire. Ora ricordava con piacere e con rimpianto quei momenti di lettura con sua madre ma non riusciva a fare suoi i messaggi di complimenti appena ricevuti.
Non ci credeva ed ora, da sola, non le sembravano né reali, né interessanti. Pertanto si rese conto che quella questione non le apparteneva affatto. Di tutto il risvolto le rimase solo l’eco e tornando a casa, dopo quella notizia cominciò ad inseguire altri pensieri.

Immaginò che sua madre fosse a casa.

Decise così, senza discussioni, senza freni, senza dubbio soprattutto. Sua madre era a casa ad aspettare la bella notizia. Era anziana e stanca ma aveva ancora la forza di lodare ed incoraggiare sua figlia per quella nuova fatica appagante.
Il viaggio di ritorno lo fece con quella convinzione: scherzava con i familiari che l’avevano accompagnata e rideva come se fosse felice. Che motivo aveva per non esserlo? Sua madre era a casa pronta per ascoltare ancora un racconto.

Nell’ultimo capitolo del suo “romanzo” aveva scritto: «…Noi siamo tutte al mondo, nostra madre è con noi…». Quella era la realtà che voleva e doveva essere così. Non poteva assolutamente pensare al contrario.

Ma entrando dovette ingoiare le lacrime che aveva trattenuto con difficoltà; non era riuscita ad imbrogliarsi anche se si era sforzata di non essere triste per godere con lei di quel momento felice. Aveva immaginato il suo sorriso e le sue parole come sempre affettuose e garbate e invece aveva sentito solo silenzio.
Sentì addosso e dentro un senso di rabbia dolorosa e d’impotenza che non le permettevano di rassegnarsi.
Sapeva d’essere adulta e di dover continuare da sola la sua vita eppure non poteva dimenticarne neanche un attimo.
Era necessario cercare la serenità e vivere con coraggio quella perdita. Proprio continuando a scrivere, per camuffare il dolore, per modificarlo un po’ perché da solo e del tutto non si allontana mai.

Attendeva Rachele. Attendeva i conti del tempo e d’ogni cosa che potesse sostenerla. Attendeva che gli alberi che sua madre aveva piantato le sussurrassero un messaggio; che i suoi lavori a maglia le rimandassero calore, che le pietre dalle fogge strane che aveva raccolto raccontassero qualche storia. Ma tutte queste cose erano lente, o forse giuste, nei loro tempi.

Continuò nel suo sforzo, voleva riuscirci per stare meglio. La notte però la tenne totalmente sveglia e non le riuscì neanche per un attimo di staccarsi da lei.
Dopo aver aspettato il sonno per parecchie ore, sapendo bene che non avrebbe mai avuto una risposta, si alzò per scriverle una lettera. Il dolore continuava a scavarle nell’anima e non le dava tregua e pur cercando le parole per formare una frase non le riuscì di scrivere nemmeno la più semplice.

Ma non permise a se stessa di tornare a letto senza averle “detto” qualcosa; le sembrava che lei ormai stesse aspettando e non voleva deluderla. Così, con tutto l’amore che sentiva dentro, fissò sul foglio bianco una breve poesia.
E gliela scrisse in sardo pensando che l’avrebbe gradita ulteriormente dato che amava molto quella lingua. Fece uno sforzo in quanto la dimestichezza con quei vocaboli era una cosa lontana ma il suo desiderio di starle vicino le fece superare ogni ostacolo:

«S’abettu tuu est meda dolorosu,
ca de diora non ti biu
e no t’intendu sa boxi.
M’intendu comenti chi fessi su bentu!
S’anima mia est giai bolendi in artu,
lesta, po ti podi attobiai
e po sanai tottu su dolori».

(L’attesa di te è molto dolorosa
perché non ti vedo da molto tempo
e non sento la tua voce.
Mi sembra d’essere il vento!
La mia anima sta già volando in alto,
veloce, per andarti incontro
e per sanare interamente il mio dolore).

Sentiva freddo, Rachele. La sua notte trascorse così: insonne, un po’ agitata, piena di domande senza risposte ma sempre in compagnia di sua madre e del suo silenzio al quale non riusciva proprio ad assoggettarsi.

La giornata successiva cominciò come tutte le altre. Era sicuramente uguale, una delle tante piene delle solite cose.

Il riconoscimento ufficiale dei suoi scritti avrebbe dovuto darle spunti per momenti di gioia, un piacere soddisfatto e, perché no, uno spazio piccolo ma suo. Poteva essere la traccia per una dose di fiducia di cui aveva veramente bisogno.

Ma non fu così.

Lei non sopportava le perdite e quella di sua madre le aveva aperto un crepaccio dentro. Sperava di poterlo riempire col concorso del tempo ma, da “quel” giorno soprattutto la ferita era profonda, difficile da rimarginare.

Intanto si avvicinava il Natale.

Il tempo era cambiato e il vento aveva buttato giù le ultime foglie del melo cotogno e dei melograni. Questi ultimi avevano resistito fino ad allora quasi per scommessa. Per terra giacevano alcune mele che lei non aveva colto perché una pittrice sua amica aveva promesso di dipingerle attaccate ai rami. Il vento però non aveva avuto la pazienza di aspettare quella visita e con un solo soffio le aveva separate dalla pianta. Il freddo diventava pungente e le foglioline tenere dell’acetosella, già sofferenti per la brina della notte, si accasciavano senza opporre la minima resistenza. Sarebbe stata proprio inutile come forse era inutile la loro esistenza di pianta infestante.

La neve sembrava preparare l’ambiente esterno per essere accolta con gli onori riservati ad un ospite di riguardo che si fa attendere e si concede di rado. Era sufficiente che il vento andasse a depositare la sua forza altrove e sarebbe venuta giù silente, gentile ed elegante.

E per la bellezza con cui copriva tutte le cose era anche molto gradita.

Rachele aveva aggiunto legna al camino di casa e sentiva addosso un freddo nuovo. Ogni tanto scostava la tenda dalla finestra per osservare che cosa succedesse fuori. Qualche cristallo di neve si era già depositato sul marmo del davanzale e il cambiamento del tempo, che a volte può essere graduale, lasciava intendere che di lì a poco la situazione sarebbe stata proprio diversa.

Un gatto non suo, ma affezionato alla casa dove trovava spesso da mangiare, saltava inquieto da una parte all’altra del giardino. Forse non era solo alla ricerca della sua ciotola ma avvertiva nell’aria il temporale imminente. I cani dei vicini cominciarono ad abbaiare; la presenza del gatto estraneo li metteva in agitazione ma anche loro avvertivano il freddo e l’aria strana del temporale in arrivo.

Un fulmine potente ed improvviso illuminò il cielo e nel giardino apparve un chiarore metallico come se fosse stato dipinto di un solo colore. Il successivo tuono sembrò squarciare il mondo con un rumore minaccioso e i cani abbaiarono ancora più forte e con gran paura.

Il pendolo della casa continuava a battere il ritmo del tempo. Non c’era niente di più concreto. Quel suono in diretta era la vera immagine di ciò che esiste e che subito dopo se ne va.
Ma era in ogni caso un rumore di vita e lei stessa, in cerca di compagnia, lo aveva messo in funzione da qualche giorno.

Ora lo ascoltava silenziosa.

Silenziosa era anche la neve che cominciava a coprire le rose più alte che infilavano i rami infreddoliti nelle grate della finestra.

Fuori e dentro il suo cuore l’inverno era proprio arrivato.



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