CAPITOLO PRIMO
Il Duemila si affacciava alle porte del mondo, mostrando il suo ghigno amaro ad un’umanità ansiosa, sorpresa, taciturna. L’evento era atteso: non mancavano pronostici favorevoli alla fortuna, alla speranza di un cambiamento o all’arrivo di qualche catastrofe. La magia, la superstizione presero il sopravvento e molte persone ignare caddero nelle mani di fattucchiere e di professionisti immaginari. Le varie sette pseudo religiose alzarono la voce, predicando un’apocalisse senza fine.
Vi erano troppi contrasti nel mondo, troppi punti di divergenza tra Stati e Nazioni. Il progresso aveva cancellato costumi e consuetudini, tradizioni e culture. Il padre non riconosceva il figlio, il figlio disconosceva il padre, il nucleo familiare si era spento per favorire mille altri nuclei disomogenei, improduttivi, dispersivi nel progettare una vita coerente con le finalità spirituali dell’uomo, col suo essere nato per percorrere un sentiero lineare, sul quale spesso non è il volere umano a tracciarne i limiti, i confini.
Nella marea che avanzava travolgendo, estirpando, cancellando, rimase intatto lo stazzo di zia Beppa, una donna magra, minuta, ombrosa, arcigna, in continuo movimento. Non dimostrava di avere un’età: il volto era nato già rugoso, le gote erano infossate, gli occhi emanavano una luce sinistra, indagatrice, penetrante, mentre le labbra, eternamente serrate, non mostravano mai un sorriso, anche se spesso si poteva intravedere un ghigno a testimonianza del suo disprezzo per tutto ciò che non le garbava.
Suo marito Ernesto viveva una situazione di schiavo, completamente soggiogato dalla moglie che ne limitava la libertà, anche di pensiero, ne dominava la mente e il fisico, ne annullava ogni volontà. Il pover’uomo, dopo avere fatto per quarant’anni il mestiere di insegnante in un Comune sperduto di*, avrebbe desiderato una vita diversa da quella che gli veniva imposta: seguiva la moglie in campagna e la aiutava a gestire il ricco patrimonio terriero che non aveva confini. Terre aride, battute dai venti, rinverdite in qualche stagione da piante spinose che rendevano i sentieri impervi, impenetrabili. Ogni sentiero conduceva in altri stazzi abbandonati dove l’acqua scarseggiava e dove, durante l’inverno, si formavano ruscelli che scendendo in piano formavano torrenti e piene pericolose. Il suo fisico minuto, avvezzo a rimanere per ore chino sui libri e a dialogare con bambini bisognosi di un’istruzione, oltre che di una parola amica, di una saggezza che nasce dal contatto con le piccole cose quotidiane, non era adatto ad inerpicarsi sui monti, a seguire il bestiame bovino lungo le scarpate, a urlare richiami ed esortazioni, a trascinare con le proprie forze enormi balle di fieno per il foraggio dello stesso. I suoi occhi minuti, a stento, sopportavano il caldo infernale dell’estate torrida o il freddo pungente dell’inverno che faceva rabbrividire anche il suolo che calpestava. Spesso lacrimavano per le intemperie, ma forse erano anche lacrime amare per una vita che vita non era. Sognava il calore della sua casa in città, accanto ai negozi imbanditi a festa, in un bar con gli amici…
– Vedi, Peppa, le diceva, io non me la sento più di seguirti, non mi piace guidare, non ho i riflessi pronti, mi sento debole e fragile. E poi perché la campagna? In città si sta bene, godiamoci questi pochi anni di vita, seguendo il ritmo cadenzato dei nostri giorni, senza sovraccaricarci di altri pensieri. –
– E già, – rispondeva la moglie, – già, tu non essendo padrone nemmeno delle tue scarpe non capisci cosa vuol dire gestire un’azienda agricola! Perché credi che i miei genitori me l’abbiano lasciata? Forse per darla in pasto ai cani e ai porci? Io condurrò il gioco finché mi resterà respiro e tu mi dovrai seguire, anche contro la tua volontà, se mai ne hai avuta una, e se nostra figlia, l’unica ed ultima e per mia disgrazia femmina non mi seguirà, la diserederò per fare felici altri enti capaci di sostenermi. – E mentre pronunciava questa frase sublime digrignava i denti, mostrava un volto arcigno, stravolto nell’espressione, fortemente alterato. La sua maschera faceva paura e il vecchio tremava spaurito sentendo vane le sue speranze. La figlia non si doveva toccare: era l’unico frutto nato in un momento particolare, che per un attimo aveva allontanato asti e rancori, pregiudizi sociali e odi atavici. Non dovevano cadere su di lei le colpe di una madre resa arida da un’educazione ferrea, da un carattere irremovibile, appartenente ad una persona con gravi problemi affettivi e di relazione che l’allontanavano dalla realtà e soprattutto dalla famiglia, sostenuta solo dalla buona volontà del povero vecchio che nulla poteva modificare nell’interno di un sistema che lo vedeva escluso, incompreso, emarginato.
Spesso nascono individui che, indipendentemente dall’educazione che hanno ricevuto da piccoli, diventano schiavi di se stessi e nell’incomprensibile groviglio dei loro sentimenti vivono una vita grama, con un apparente senso di colpa, con evidenti segni di sofferenza che non scaricano su se stessi, ma sugli altri, causando danni biologici enormi all’intera comunità dentro la quale gravitano altre vite. Zia Peppa non conosceva la fatica, lavorava incessantemente per giorni, per mesi, per anni, senza mai accorgersi che lo sfinimento fisico si ripercuote su quello mentale e che allora subentra l’insensibilità al dolore, alla fatica, agli orrori di una vita che, rifiutando le leggi naturali, trasforma l’individuo in mostro. Diventa ripetitivo ogni gesto, ogni parziale, inutile movimento e la gabbia si materializza, diventando prigione e tortura… Tutto ciò non poteva turbarla, visto che non ne prendeva coscienza, poteva solo aumentarne l’aggressività e la convinzione malata che tutti fossero in torto, in malafede, affetti da pigrizia, inutili nel lavoro, inetti nella vita. Se veniva assunto qualche servo pastore si scatenavano in lei reazioni folli che la inducevano ad indagare sulla persona, a rilevarne i difetti più evidenti, ad inveire con ferocia su di lui fino ad annientarne la personalità. Il poveretto doveva essere simile a lei nel lavoro, nella vita. Se lei afferrava un secchio con la mano sinistra, riempiendolo ad un certo livello, sollevandolo in un certo qual modo, lui doveva essere la sua copia perfetta, eseguendo questo compito nello stesso modo. Purtroppo gli esseri umani e, fortunatamente, nascono con un DNA diverso che da subito determina il carattere, le tendenze, la volontà, la costruzione di un mondo affettivo, creativo e originale. L’individuo affetto da manie e da fobie non coglie mai questo particolare e, fino alla fine condiziona sé e tutti coloro che lo circondano.
[continua]