Aprile di fiori
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia.
(T. Eliot, La terra desolata)
Poesia
M’affascina la natura, – è poesia, –
– un dio vi spira, – dolce e lusingante.
Ma lotta è in me, ché esser non vorrei
d’un inevitabile nevrotico idillio
l’ingenua autrice: spingermi vorrei
al di là dell’idillio…, per attingere
dal drammatico nostro quotidiano
la chiave del vivere insensato.
Cercare l’armonia vorrei, saputa
della realtà sociale nostra franta
in faticosa discontinua prosa.
Morta la musica della poesia,
defunta la lirica della melodia,
pure l’armonia perduta cede il passo
al sogno: come di sirena il canto
fascinoso s’abbatte smemorato
sullo scoglio arido della vita.
Metamorfosi d’aprile
Marzo arido, ventoso, intrigante.
I rami rotti, secchi, spezzati, incerti:
la terra feroce, assetata, riarsa
urla in silenzio il suo dolore.
Il lago livido, chiuso, spento.
Divampano improvvisi verdi germogli,
sbocciano foglie come fiammelle là,
tra il seccume. Petali di melo
volano intorno; si rallegra
la terra risvegliata, giocosa, dimentica.
Un girotondo di candide farfalle.
Nuova vita ricomincia, spumeggiante
stupita e pacificata.
Taraxum officinale
Un fiore giallo a capolini, un globo
piumoso, vago e argenteo, lieve:
bambina, affascinata dalla forma,
“soffione” ti chiamavo, come la nonna
mite, che raccoglieva le tue foglie
giovani, commestibili, che il nonno
chiamava invece del “dente di leone”.
“Soffione” mi pareva nome più vero,
leggero, coi semi vivi nel giro
del vento, in corsa, incatturabili.
Leggeri come le parole alate
che giocano nell’aria, senza ansie,
come i semi che cadono lontano,
senza radici e senza saper dove.
Forse alcune smuovono la dura terra,
forse alcune radicano in terra fonda,
forse altre si lasciano alla fine catturare
per diventare davvero, finalmente
“denti di leone”.
Giacinti
L’intensità del profumo stordisce:
il fiore azzurro dalle bianche vene
è spuntato minuscolo dal bulbo
posato sul vaso di vetro a bocca
stretta, dove l’avevo posato
e distrattamente dimenticato.
La fioritura dei giacinti! Il mio
primo esperimento di botanica,
alla lontana scuola elementare.
Sette anni appena e un maestro che vuole
insegnarci “la botanica”!
Rivedo i vasi multiformi, i bulbi,
pendule radici, foglie carnose,
meravigliose infiorescenze: blu,
rosa intenso, bianco latte e violetti…
Incanto di colori, stordimento
di profumi acuti, densi, oleosi…
Ci racconta la storia di Giacinto,
il maestro, conteso da Febo Apollo
e Zefiro ventoso, e della morte,
dolce consolante metamorfosi.
Da allora mi porto in cuore due amori:
natura e i suoi incanti, cultura
ed il suo inesauribile fascino.
Sette anni, un maestro allegro, un giacinto:
radici lontane, inestricabili
misteriose degli amori infantili.
I bucaneve
Bianchi gli inverni della mia fanciullezza,
la neve s’adagiava silenziosa
sui prati intorno alla vecchia casa
dell’infanzia; acqua gelata in cortile,
nei secchi di stagno; al risveglio vetri
ricamati; calda la colazione,
sollecito il richiamo – caldo – materno.
Gelati i sentieri che portavano
al mulino. Solitario e violento
lo scroscio del ruscello nel silenzio
schiumante dell’invernale paesaggio,
gelata la collina, paradiso degli slittini giocosi.
Abbagliante la luce che candiva il lento pendio.
Inverni lontani, felici nel ricordo.
S’allentava il gelo, la neve fondeva…
Curiosi esploravamo il prato mutante
e incantato: microscopiche fossette
dietro il mulino svelavano timidi
bucaneve. Meraviglia imprevista,
felicità bambina. Terra e odori
di risveglio, forse di primavera.
Bucano il gelo i bucaneve a sfida.
Tutti bianco latte e verde dicono
la speranza: una vera festa,…
una gioia bambina.
La Magnolia
Aprile adolescente spumeggiava.
La strada per il liceo raggiungeva la città
tra ville e giardini risvegliati a sorpresa
dal primo sole allegro di primavera.
Spreco, profusione di colori squillanti,
i gialli soprattutto, i verdi teneri delle fogliette
appena nate, i bianchi dei ciliegi e i rosa
dei peschi che punteggiavano la collina,
i tronchi scuri, feriti dalle prime gemme,
i tepori invitanti all’evasione, al proibito.
I suoni della vita come la scena teatrale…
L’eterno risveglio, l’eterno ritorno,
improvvisamente si fa strada sicuro,
senza suoni di tromba, senza incertezze
e penetra dovunque – fuori e dentro – primavera.
Le magnolie in fiore… lucide, carnose,
bianche e rosate, cremose, rosse, dense,
morbide e levigate come la pelle, debordanti
dalle proprietà cintate e dai cancelli chiusi,
avvisi impliciti, effervescenze di gioia, libertà,
spazio creativo, un invito adolescente alla vita.
Infinite varierà di ibridi. Giardini incantati.
Le guardavo stupita, assetata di bellezza e di sole.
Stava finendo l’anno scolastico. Gli ultimi compiti,
le ultime interrogazioni, poi l’estate adolescente.
Più sognato che realmente e felicemente vissuto.
La felicità era in quel risveglio, in quello stupore,
in quell’attesa di non so che… Non lo sapevo
e il ricordo ingenuo ha un retrogusto amaro,
quello delle giovani occasioni sprecate.
Il ciclamino
Raggio di sole improvviso e violento,
come sovente nelle nostre terre
brumose e umide d’acqua di lago,
quasi incendia il grondante terrazzo
dopo una giornata di pioggia stanca.
Un rosso stonato, quasi impudico
nel verde ancor vivido delle piante
grasse, maliziosamente occhieggia.
È un ciclamino caparbiamente
sbocciato sul solitario balcone
da un bulbo invisibile e dimentico
interrato, solo, nella vaschetta
degli invernali eterni sempreverdi.
Nessun preavviso nei giorni passati:
non ricordo d’averlo mai piantato.
Il sole ottobrino l’ha risvegliato.
È fiorito a sfida: senza superbia,
ma impavidamente cocciuto.
Mi accusa: certo, troppo dimentico…
tempi, luoghi, cose che pure ho amato.
Interro e scordo… senza nostalgia,
senza alcun allarme. Oggi, un avviso:
saputa, penso che non solo i fiori
possono caparbi rifiorire.
Azalee
Rosa squillante e bianco lucido:
azalee fiorite nel giardino a fronte.
Fogliette rinverdite, timide, tenere.
Luce ed armonia, grazia vitale
a sfida, nell’aprile piovoso.
Vince la favola, la vita come festa.
Insiste da ore, notte e giorno, leggera,
la pioggerella impalpabile primaverile:
bruno il cielo, scialbo, uniforme,
vano, invisibile, muto, il lago.
Hanno già perso la loro brillantezza,
le eleganti azalee, ma insistono: forti
sperperano il loro messaggio di moritura
bellezza. S’acquietano i colori.
La favola bella, ahimè, tace.
Come le ortensie
Azzurre, blu, viola: ortensie magnifiche
nell’angolo ombroso, riparato
del giardino della mia vecchia casa…
fiore composto, scompaginato, in fuga,
i colori cangianti determinati
dal terreno, umile, che li alimenta:
sfidano l’armonia festosa, a palla,
sorridente icona, gonfia di primavera,
del giardino giapponese.
– cupole, infiorescenze, costruzioni
barocche, spreco di forme e di colori
sorrette da nere intercapedini,
come inquietanti radiografie –
Nome d’amore, Ortensia, una dedica
di felice botanico innamorato,
Ama-tsia, thè celeste, lavanda sacra,
per la statua del Budda immortale…
Belle siete, eleganti, anche appassite,
perdete un poco di colore solamente.
Anch’io vorrei essere così, bella,
anche se appassita e senza tempo.
Incantevoli cuffie colorate,
estivi ombrelli aperti, suggeritemi
quiete, ciò che basta per ripararsi
dalla vita che fugge.
Compleanno
Nessun palpito in questo vecchio nuovo
compleanno solitario e silente.
Nella casa quietamente amica e luminosa
solo l’azalea sontuosa, colori screziati
– tutta rosa e bianca – trabocca, quasi
impudica nel suo alto fastoso tripudio.
Si esibisce per sé, indifferente.
– Sei sempre bella – ha detto porgendola.
Sorrido all’ultima menzogna dell’età
disillusa, di verde ancora addobbata.
[continua]