Lettere mai spedite

di

Maria Grazia Ferraris


Maria Grazia Ferraris - Lettere mai spedite
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 92 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-9740

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In copertina: «Albero» acrilico su tela cm 120× 80, di Silvia Venuti.


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto opera finalista nel concorso letterario J. Prévert 2009


Prefazione

Nessuna di queste lettere è stata davvero scritta dalla protagonista che parla di sé e tanto meno spedita. Infatti sono – almeno le prime sette – in un qualche modo lettere “storiche” e letterarie che illustrano alcuni momenti di vita, i sentimenti, le scelte di donne esemplari della storia delle donne.
Il genere lettera è stata scelto come artificio letterario per raccontare la vicenda umana di queste donne che non sono del tutto scomparse dalla storia, anche se spesso misconosciute.
Alcune lettere sono rivolte al padre, lontano, morto, inesistente, sconosciuto… altre all’uomo amato, marito o compagno che fosse. Uomini che danno la misura del periodo in cui vivono, dei loro pregi e dei limiti del rapporto che hanno, spesso involontariamente, costruito.
Sono donne che hanno vissuto in epoche e in luoghi diversi, con problemi molto spesso contrapposti, che hanno agito sul loro comportamento e sui loro sentimenti condizionandoli.
I racconti sono frutto di una elaborazione autonoma e in gran parte fantastica di personaggi – donne – che pur storicamente vissute sono state interpretate e raccontate da molti studi di storici e di letterati, che ho letto con somma partecipazione, in un vasto arco di tempo. Non volevo morissero, dimenticate o chiuse in un libro d’autore specialista del genere ben definito di storia-biografia-documento.
Hanno richiesto una impegnativa ricerca e documentazione storica di autori e autrici della nostra letteratura cui ho attinto con grande interesse, che hanno studiato biografie, epistolari, opere di poesia e pittura o lavorato su romanzi ben sorretti dalla storia.
A questi scrittori, cui si devono la maggior parte delle notizie storiche, rimando, ringraziandoli per l’interesse che hanno suscitato in me e spero in chiunque legga i loro scritti storici rigorosi, per una doverosa conoscenza ed attribuzione, nella pur breve bibliografia finale.
Nella seconda parte le lettere si riconducono invece all’io narrante: anche in questo caso non sono lettere scritte per essere spedite, per avere una risposta, sono invenzioni fantastiche, intermittenze del cuore, nate per illustrare un mondo femminile coi suoi tanti problemi, che ben conosco.
Ripensando alle motivazioni che mi hanno indotto a scrivere potrei ripetere quello che in modo molto più incisivo di quanto possa fare io ha risposto U. Eco a chi lo interrogava sui motivi della sua scrittura di romanzi:
“Perché mi sono messo a scrivere? Per voglia. Forse la voglia di fare una cosa che non sapevo di saper fare: un modo di rimanere giovane, di sottoporsi a una nuova prova. Per rimanere giovane non c’è che andare sempre a scuola e sottoporsi a nuovi esami. …Anche chi, per rimanere giovane cerca un nuovo amore, lo fa come per sottoporsi a una nuova prova, così faceva il professor Unrath dell’Angelo Azzurro…” (lettera di U. Eco a Roberto Cotroneo, 4-5-1982, in La diffidenza come sistema, p. 31, Anabasi, 1995 )


I personaggi storici di cui si parla in queste novelle sono:

  • Eloisa (Parigi 1099-Troyes 1164);
  • Isabella di Morra (Favale 1520-1546);
  • Veronica Franco (Venezia 1546-1591);
  • Gaspara Stampa (Padova 1523-1554);
  • Artemisia Gentileschi (Roma 1593-1653);
  • Clara Maffei (Bergamo 1814-1886);
  • Cristina Trivulzio di Belgioioso (Milano 1808-1871)



Lettere mai spedite

Credo che la letteratura detta post
moderna viva sulla costruzione in abîme.
È la perdita dell’innocenza, la coscienza
che non si può più raccontare Cappuccetto
Rosso, ma storie di libri che parlano di Cappuccetto Rosso.

(lettera di U. Eco a R. Cotroneo, 4-5-1982)


Essere donna è terribilmente difficile
perché consiste principalmente
nel trattare con gli uomini.

J. Conrad


1.

Eloisa

Caro padre Fulberto, permettetemi ve ne prego di chiamarvi così, benché il nostro vincolo di parentela sia solo quello meno intimo e coinvolgente di zio-nipote…
Davvero riconosco in voi l’atteggiamento e la cura di un padre che si è tanto preoccupato della mia educazione e della mia crescita, cosa di cui vi sono doppiamente grata, come nipote, ma soprattutto come giovane donna, per la quale i tempi in cui vivo non prevedono autonomia ed educazione intellettuale di sorta.
La mia educazione presso il convento di Notre-Dame di Argenteuil, grazie a voi, è stata invece esemplare e ha suscitato lo stupore del mondo. Mi ha aperto le vie dello spirito e dell’intelligenza, del gusto letterario e cortese. A soli diciassette anni, giovane e graziosa, colta nelle lettere, nella filosofia e nella teologia, non chiedevo che di approfondire i miei studi con esercizi di logica, dialettica e di retorica…e voi avete generosamente acconsentito, dandomi il maestro migliore, quello più stimato nelle accademie parigine.
Nella mia giovane età, naturalmente predisposta all’amore, avevo tanto meditato sui testi di Andrea Cappellano e sui miti dell’antica Grecia come quello di Eros figlio di Penìa e di Poros…
Penìa: la Mancanza, l’assenza di ogni determinazione, che significa anche potenzialità aperta, e Poros, il guado, il ponte, l’espediente, vale a dire il ponte tra cielo e terra, tra materia e spirito, tra maschile e femminile….un mito di grande fascino.
Il senso di mancanza, come voi sapete, sempre presente in noi, spinge le energie potenziali ad investire in altri campi di attività, in altre relazioni… e ciò è naturale, e particolarmente sentito in età adolescenziale. È la preparazione di ogni vero incontro.
Su questo io meditavo, pur non essendone coinvolta personalmente.
Ero affascinata dalle immagini di Andrea Cappellano che nel suo trattato, De amore, ne parla come di un palazzo al centro del mondo, in cui si raccolgono le donne e in cui troneggia maestoso l’Amore: e tutto ciò che c’è di grande al mondo è da lui nobilitato.
L’Amore vero e profondo, avevo capito, è sperpero, lusso, sovrabbondanza di forze, assoluta gratuità, eppure è semplice e giocondo come una canzone.
Intendo dire che avevo e ben all’erta in me tutte le disponibilità all’incontro amoroso, e non solo a quello teorico e vagheggiato nel pensiero.

voglio che l’amor mio canti…
di mio amor vo’ che s’ammanti
e portine ghirlanda.

L’incontro con Abelardo, che aveva percorso la mia stessa strada, e già gran maestro di retorica, di grande fama e fascino, non fu altro che il naturale esprimersi delle rispettive potenzialità d’amore.
Ho cercato con insistenza di vederlo, ascoltarlo, incontrarlo…
Anche lui fu conquistato dalla mia fama, dalla mia giovinezza, e cercò il tuo appoggio, padre, per starmi vicino come maestro, lusingando la tua vanità. La nostra intesa fu subito totale.
Aveva due abilità in particolare che me lo resero subito caro: la grazia dei suoi magnifici versi e il fascino dei suoi canti dolci nelle parole e belli ed armoniosi nel ritmo musicale. Scriveva:

Quest’opere son frali
al lungo andar, ma il nostro
studio è quello
che fa per fama
gli uomini immortali.

Il piacere che ho conosciuto è stato così forte che qualunque cosa ne sia seguita poi, non ha potuto cambiare il mio modo di essere e di ricordare. Nel nostro ardore vivemmo tutte le fasi dell’amore, noi inventavamo l’amore, se in amore è possibile inventare qualcosa di nuovo… Non mi stancavo mai di questo piacere che non avevo mai conosciuto.
Invidia ed ostilità, maldicenze cominciarono a diffondersi intorno a noi, finché anche tu ne fosti consapevole e …decidesti di separarci.
Soffrimmo indicibilmente: nessuno di noi pensava a se stesso, ma ognuno soffriva per quello che era successo all’altro: ciascuno di noi piangeva la sventura dell’altro, non la propria.
Ma questa separazione dei corpi non fece altro che avvicinare ancor più i nostri cuori e l’impossibilità stessa di soddisfare il nostro amore lo infiammava ancor più e perfino la consapevolezza dell’irrimediabilità dello scandalo ci aveva resi insensibili allo scandalo stesso: il senso di colpa, del resto, era tanto minore quanto più dolce era stato il piacere del possesso reciproco.
Quando seppi di aspettare un figlio ne fui felice, mentre tu, padre, quasi impazzito dalla vergogna, eri nella disperazione più totale.
Mosso da compassione e sentendosi colpevole, Abelardo decise di rimediare proponendo di sposarmi in segreto. Io mi opposi, tanto avevo fiducia nell’ideale puro dell’amore, disinteressato, che non ha bisogno di istituzionalizzazione. Ho desiderato solo il mio uomo, non i suoi beni o le sue ricchezze. Non ho chiesto patti nuziali. Il nome di amante e amica mi è parso sempre più dolce di quello di sposa. Ma tu insistevi tanto… che alla fine accettai.
Purtroppo questo matrimonio mi aveva riportato nella tua dipendenza, padre.
E tu volevi dare divulgazione alla nostra nuova situazione per rispetto del mondo; dovetti rifugiarmi ad Argenteuil, dove mi fu consigliato di prendere le vesti di novizia per sfuggire al mondo e a te, padre, così infuriato ed offeso che decidesti di punire Abelardo col massimo delle punizioni: la castrazione. Ah, padre, dove giunge l’ira, l’orgoglio che non conosce misericordia! Quale dolore, pur nella comprensione umana della tua ira per la fiducia tradita, nella mia disperazione!
Stremata, angosciata, desolata, disperata pensai ad Abelardo, così ferito ed irriso, solo ed isolato, decisi di espiare la mia colpa e mi legai per sempre alla vita monastica. Era l’unico modo per non rinunciare al suo amore, pur rinunciando a lui, che era tutto l’universo possibile di affetti e l’ideale.
Rimasi sola senza sapere, a lungo, nulla di lui.
Ma ora ho bisogno di una conferma del mio sacrificio, di dare un senso alla mia vita. Da Dio non mi aspetto nessuna ricompensa, perché so che per amore di lui finora non ho fatto assolutamente nulla. La mia anima da tempo non era più con me, ma con lui. E anche ora, se non è lì con lui, non è da nessuna parte…
Chi è quell’uomo o quella donna che per ostile e nemica che sia, ora non proverebbe un senso di giusta compassione nei miei confronti?
Anche a te, padre, chiedo conforto: se il maligno ha potuto servirsi del mio amore per i suoi tristi fini, non ha potuto tuttavia trascinarmi nella colpa col mio consenso.
Ho deciso di porre un freno al libero sfogo del mio dolore. D’ora in poi tacerò.
Manterrò il silenzio perché il cuore sfugge al nostro controllo e al controllo della parola e purtroppo al cuore non si comanda.
So anche oramai però che la parola è potenza creativa e che pochi uomini sarebbero innamorati se non avessero mai sentito parlare d’amore!
Non chiedo perdono di nulla, padre mio.
Questa è l’ultima mia lettera, amato padre: d’ora in poi per me sarà solo silenzio e desiderio, desiderio del mio grande amore perduto…


2.

Isabella

Caro padre… lontano, oramai solo lo sfogo della poesia mi consola. Canto.

D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.

Caro padre, mi rivolgo a te come sempre confidando nel tuo aiuto, ancorché tardivo, poiché sei a me da troppo tempo tanto lontano. Ti scrivo travagliata dall’ansia e dalla tristezza, cercando nella tua presenza, che mi auguro prossima, il mio sollievo e il mio conforto.
Il monte Dragone che tu ben conosci, alto e solitario, mi vede più volte al giorno salire verso la vetta per scrutare il mare, sperando di vedere una nave, un’imbarcazione, un legno qualsiasi che si diriga verso la riva. Talvolta il desiderio mi inganna dolorosamente, il confine tra verità e speranza si confonde… e mi pare di scorgere davvero il tuo naviglio lontano all’orizzonte, confuso tra cielo ed acqua… Desidero il tuo ritorno come un assetato anela all’acqua fresca…: mi pare di intravedere legni dovunque, fate morgane, specchiate all’orizzonte, doppie, come un viaggiatore perso nel deserto fantastica dolorosamente sui falsi miraggi…
Caro e amato padre, o nobile Giovan Michele di Morra,… ricordo nel dolore e con struggimento la mia infanzia accanto a te, il tuo caro, generoso viso intelligente, il tuo nobile portamento, i tuoi occhi vivaci, la tua leggerezza di carattere, la tua eleganza, il tuo amore per i libri, la tua ironia.
Dove sei? Perché non ascolti il mio disperato richiamo? Piango… so solo piangere.

Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch’alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
ha salda speme in piano fa mutare…

Qui vivo in mezzo a gente rozza e selvatica, fra boschi sempre più cupi e rocce sempre più scoscese. Fanno da lugubre accompagnamento ai miei torbidi pensieri.
Il mare è davanti ai miei occhi, padre mio, coi suoi colori cangianti. Vivo ed indifferente, vive la sua vita immemore di noi che lo guardiamo sospirando. Le onde allegre e ballerine promettono e promettono, ma non mantengono mai, tutte prese dallo loro sorridente vita. Forse per questo suo superficiale dire e disdire, giocare e ballare col vento e col sole il mare mi inquieta. Ma continuo ad interrogarlo e spero che le promesse si avverino e che non mi nasconda il futuro. Di contro la montagna scura, irta e ruinosa diventa il luogo dei miei inutili e sconsolati pianti:

Ecco ch’un’altra volta o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o spirti ignudi di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna

I miei fratelli, Fabio e Cesare, in questo luogo isolato e senza degna compagnia, privi dei tuoi consigli paterni, sono diventati dei bruti a furia di fare la posta ai banditi, sanno solo impiegare il loro tempo cacciando lepri, daini e cinghiali, impugnando armi micidiali.
Nessun interesse brilla nelle loro pupille scure e sotto la loro fronte corrucciata. Credono soltanto nella spada e nelle armi. Si sono completamente scordati dei libri, si sono scordati che tu li avevi tanto amati e rispettati. Essi li odiano e se potessero bruciarli tutti, lo farebbero subito. Li trattiene ancora il pensiero che tu possa tornare e forse la considerazione per la tua memoria, perché certo, noi lo pensiamo tutti, pieni di speranza, tu sei vivo e potresti ancora tornare.
Ma se arrivasse, qualche notizia anche incerta della tua morte, ridurrebbero questo castello ad una stalla o a una taverna.
Come vorrei essere lontana da qui, lontana dal Sinni dalle acque fangose, lontana dal monte Dragone dalle cime puntute!
Invidio gli uccelli marini, invidio quei gabbiani che volano bassi sull’acqua cercando cibo e poi si alzano liberi e dritti verso le nuvole. Invidio il mare che non ha patria né castello arroccato a cui tornare, le onde che girano e corrono sulla riva giocando coi ciottoli levigati. Le onde accarezzano gli scafi delle imbarcazioni dirette verso nord. Vorrei salire su una di esse, correre verso il nord, dove tu soggiorni, o se potessi andare con loro! Non mi mancherebbe il coraggio.
Non posso far altro che piangere sulla mia situazione di infelicità e solitudine, oh, se potessi infine raggiungerti!

Quella che è detta la fiorita etade
secca ed oscura, solitaria ed erma
tutta ho passato qui cieca ed inferma,
senza saper mai pregio di beltade…

Sono rimasta sola nel maniero di Favale, e sono riuscita, nonostante sia solo una donna, a continuare la mia educazione nelle arti letterarie, e pur nell’“isolamento”, a intessere amicizie con vari poeti, artisti e nobili del sud Italia, grazie all’aiuto e alla collaborazione del mio colto confessore, che mi ha messo in comunicazione con Diego Sandoval de Castro, un nobile spagnolo sposato ad una nobildonna italiana, mia amica, che amministra le terre di Bollita, sulla costa jonica.
Uno spagnolo! Un nemico naturale della famiglia!, qualcuno potrebbe osservare malevolo.
È certo un enorme risultato per una donna, se si pensa al tempo e al luogo, ma ben poca cosa per un animo come il mio che anela alla completa libertà intellettuale ed al riconoscimento più alto delle grandi corti europee.
I fratelli mi accusano di aver maturata una infame relazione amorosa, che alimentò l’ira anche dello zio, il quale mi accusò di aver disonorato l’intera famiglia…
Io penso che stiano tramando qualcosa di terribile contro di me, forse, nella loro brutalità pensano di lavare l’affronto nel sangue. Ho tanto pregato, la fede mi aiuta in questa triste circostanza, ….ma non mi resta che sperare in un tuo ritorno, al più presto, padre…

Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fine amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al padre caro,
se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.

I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che ‘n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Ben triste è per me dover pensare che solo la morte, che sento avvicinarsi, oscura e tragica, ingiusta, per mano fraterna, mi darà pace e riposo… Prego e spero, padre mio… e scrivo:

e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l’alma sciolta,
essere in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che ‘n saldi marmi la terrà sepolta…

[continua]


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