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Massimo Maso - Il posto migliore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 102 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-7814
Libro esaurito
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2009
In copertina: «Il posto migliore», china su pergamena di Massimo Maso
Prefazione
“Il posto migliore” di Massimo Maso è un romanzo traboccante di umanità, pervaso da una dolcezza esemplare e costantemente alimentato da una profonda capacità di scandagliare nelle zone più nascoste dell’animo umano.
La forza narrativa trae energia dalla storia di un uomo che ha vissuto l’intera esistenza con una meravigliosa passione, cioè l’arte della tipografia, seguendo con tutta la sua anima, giorno dopo giorno, il desiderio di fare qualcosa di cui fosse veramente orgoglioso.
Le emozioni vengono distillate, poco a poco, grazie ad una scrittura che risulta avvincente e meravigliosamente toccante fin quasi a commuovere.
Il romanzo ha inizio negli anni Sessanta, quando il giovane protagonista, Marco, chiamato Kunstler per il carattere di stampa che più amava, era entrato nella stamperia per il suo primo giorno di lavoro ed aveva trovato davanti a lui, la Mayerling Linotype 510, maestosa macchina da stampa tedesca, un “dinosauro” che però era un gioiello, che aveva un’anima ed andava trattata come tale. Poi, aveva anche rimesso in sesto il lito incisore Looeser, usato dai tedeschi per stampare su carta economica la cartamoneta durante l’occupazione. Gli anni erano passati velocemente, aveva stretto amicizia profonda con il titolare Astolfo e, senza dubbio alcuno, era diventato “parte integrante di quelle macchine da stampa” che scherzosamente e amorevolmente chiamava le “tedesche”.
Ora, dopo quarantasei anni di lavoro nella Premiata Stamperia, per lui era giunto il momento di andare in pensione: e poi, i tempi erano cambiati, ora si utilizzava l’editing computerizzato e si doveva fare i conti con le nuove esigenze di mercato.
Dopo tanti anni, lui sentiva che non era stato soltanto un “lavoro” ma era sempre stata una naturale e miracolosa passione: per la carta, l’inchiostro, i colori, le incisioni, l’Arte della Stampa.
In questa nuova condizione si rendeva necessario costruire un “tempo nuovo”: tornare alla vita di tutti i giorni come un pensionato: per lui non era certo una cosa facile.
Poi, un tragico evento del destino muterà ogni cosa e lo condurrà in una dimensione senza tempo, in un luogo dimenticato, davanti ad una strana locanda in un borgo immerso in una valle fuori dal tempo dove “ognuno segue la sua passione”.
In questo luogo alchemico ritroverà una donna dai capelli rossi e la sua vecchia amata macchina da stampa Looeser: con la giovane donna Emma potrà ritrovare un sogno da condividere perché lei lo aiuterà a rimettere a nuovo la Looeser, a stampare delle nuove incisioni e a “guardare la vita con gli occhi del cuore” e, grazie a lei, riuscirà anche a liberarsi dalle inquietudini di tutta una vita.
“Ci sforziamo di dare retta alla ragione ma finiamo sempre col fare quello che ci dice il cuore”: se desideriamo esistere dobbiamo nutrire la nostra vita di passione dirà ad un certo punto il protagonista e l’Autore fa propria questa affermazione e la esalta al massimo grado per tutte le pagine del suo romanzo.
Quel luogo dimenticato, magico, incantato e dionisiaco sarà il posto migliore per un uomo libero ed onesto, deciso e capace d’amare profondamente.
La storia raccontata da Massimo Maso è prodigiosa nella sua ispirazione, toccante nella sua continua propensione a creare e ricreare atmosfere pervase da un alone magico nonché travolgente quando si proietta nella sfera dei sentimenti più autentici.
Un romanzo che lascia un dolce ed intenso desiderio di vita, che offre la possibilità d’una visione che sia capace di utilizzare “occhi nuovi” per vedere ciò che veramente è degno d’essere vissuto: la necessità di seguire la propria passione, di fare ciò che veramente soddisfa il nostro animo, perché ognuno di noi è nato con una “personale missione”. Niente è precluso ma si deve seguire la strada giusta, la strada del cuore, la via che conduce alla nostra completezza e ci avvicina alla nostra autentica essenza.
Per non rimpiangere mai di aver fatto per tutta la vita qualcosa che non era adatto a noi.
Per essere capaci, sia nel luogo migliore come nel luogo peggiore, di Amare.
Un romanzo che lascia una traccia luminosa in fondo al cuore.
Massimo Barile
Introduzione
Esiste il paradiso? E se esiste, che forma ha? In cuor mio spero che un cielo ci sia davvero, diversamente non saprei dare un senso alle sofferenze indicibili patite da mia madre e da mio padre prima di lasciare questa terra. E se una forma deve avere, questo paradiso, io credo sia quella di un luogo della memoria, una piccola scheggia di luce in fondo alla nostra anima. Sicuramente il momento più vivo e appagante della nostra vita, l’istante perfetto che ha dato un senso alla nostra esistenza. Ecco, io credo che quell’istante luminoso e perfetto, sublimato e dilatato all’infinito, sia il luogo destinato ad ospitarci per l’eternità. Il paradiso che alberga in fondo ai miei ricordi è un cielo di giugno, percorso da candide nubi. Odoroso e giallo di grano e iris selvatici, rosso di papaveri, azzurro di fiordalisi. È l’erba falciata sotto i piedi nudi, il fragore delle cicale e un bacio osato, leggero e timido. Io ed Emma. Dodici anni in due, e fra le mani una gioia più grande dei nostri occhi. Qualcosa di me è restata laggiù per sempre. E anche la mia Emma è rimasta laggiù, con le sue trecce rosse e le braccia pulite, senza buchi. Se quel cielo c’è, la ritroverò.
Il posto migliore
Era il 15 maggio del 1959, quando Marco, poco più che diciannovenne, incatenò la bicicletta di famiglia alla ringhiera di ferro che recintava la stamperia e, col cuore in gola, si apprestò ad affrontare il suo primo giorno di lavoro. Era un venerdì. Quando si trovò sulla pedana sopraelevata, al cospetto della Mayerling Linotype 510, comprese che il suo diploma di Scuola d’Arte gli sarebbe valso ben poco. Il «Dinosauro» – così i dipendenti chiamavano la nera e maestosa macchina da stampa tedesca – reclamava personale altamente specializzato e continue manutenzioni, ma a saperlo trattare sfornava «capolavori». Era un gigante arcigno, dal cuore sofisticato. A prenderlo con le cattive s’impiantava, a prenderlo con le buone faceva miracoli e pareva avesse un’anima. Un’anima che Marco riconobbe come parte del proprio carattere e se ne innamorò.
“Non necessita di manutenzioni questa nobildonna, ma di attenzioni. La bussola di destra, ad esempio, è troppo serrata e non sfiata. Lasciate fare a me.”
Ben presto la cosa arrivò all’orecchio del titolare – il burbero Astolfo Rinaldi – il quale, riconosciute le indubbie capacità del giovane, sancì l’unione indissolubile dei due. Nei mesi che seguirono Marco, approfittando dell’ora destinata alla pausa pranzo, avvicinò un altro “reperto storico” di rara beltà: un barocco, centenario litoincisore Looeser a pressa servoidraulica. Il complesso marchingegno, in disuso da quando era finita la guerra, era stato accantonato fra le cose dismesse e coperto con un polveroso telo. I tedeschi lo usavano per stampare su carta economica il “Funf Reichsmark”, la bruna cartamoneta dell’occupazione. Ricordò d’averla studiata a scuola, la Looeser, e sapeva bene di quali prodigi era capace se affidata a mani sapienti. Era un delitto lasciare arrugginire quella meraviglia. Si fece forza e chiese al titolare il permesso di rimetterla in sesto, ad ore perse, senza remunerazione alcuna.
“Non è impresa da poco. Quell’arnese è fermo dal ’45 e Dio solo sa se ci sono tutti i pezzi.”
“Non si preoccupi. È una passione la mia, di quand’ero piccolo. Smonto e rimonto ogni meccanismo che mi capita fra le mani… e lo faccio andare. Mi creda. E poi sono mancino.”
“Mancino? E questo che mi significa?”
“Beh, è risaputo che i mancini hanno dimestichezza innata con questo genere di cose. Smontare, rimontare, aggiustare… Ci viene facile.”
“Uhm, sarà!”
Il rustico Astolfo l’aveva preso in simpatia e gli concesse di lavorare attorno alla Looeser di sabato pomeriggio, a serrande chiuse. Non riponeva grandi speranze in quel mucchio di ferro unto di grasso, ma nemmeno voleva raffreddare l’entusiasmo del giovane. Di quei tempi non era facile trovare apprendisti volenterosi. Sei mesi dopo, quando Marco gli donò la prova litografica dell’«Annunciazione del Furster», dovette ricredersi.
“L’hai tirata tu?” chiese prendendola fra le mani con la delicatezza che si riserva alle reliquie.
“Sì.” rispose candidamente Marco.
“Con quell’affare lì?” insistette il titolare spulciando i particolari con le bifocali in punta di naso.
“Sì.”
“E dove hai trovato la madre, la lastra intendo?”
“È mia.”
“Hum. E da chi l’hai avuta?”
“È mia. Voglio dire… l’ho fatta io?”
“Tu!” esclamò il vecchio inchiodandolo con gli occhi.
“Sì, io. Ho fatto la Scuola d’Arte e so lavorare il “mastro” e inciderlo di testa.”
“Dici davvero? Anche il cedro?”
“Per le stampe? Sì, certo; anche il cedro. È più facile che sgranare la pietra. E poi so incidere di bulino il frassino e l’olmo e…”
“Basta, me ne avanza! Va’ da Luigi, di’ che ti mando io e fatti dare una palandrana da specializzato. Da domani governerai il «dinosauro» e sarai responsabile della Looeser. Le vecchie signore tedesche sono solo tue, intesi! Passa in segreteria, chiedi di Ginevra e riferisci che da oggi si tirano su anche le commissioni di artistica e grafica. Te la senti di curare le grafiche, vero?”
Bastò un cenno e una stretta di mano per fare del primo impiego di Marco la sola e unica passione della sua vita.
Circa il fatto di incominciare le cose di venerdì, un vecchio adagio toscano dice: “a principiare dalla coda non c’è che da cercar la testa”. Il 15 maggio di quarantasei anni dopo Marco contò i passi che separavano il suo posto macchina dalla porta che dava accesso allo spogliatoio dell’officina tipografica. Era un lunedì.
“Centosei! Avrei detto di meno.” borbottò sapendo di non essere visto da nessuno. Salì rapidamente i tre gradini del rialzo e afferrò la maniglia della porta, ma se ne distaccò quasi subito per indietreggiare di qualche passo. Con la coda dell’occhio aveva colto qualcosa di strano e alzò uno sguardo accigliato all’insegna dell’officina per cercare conferma.
“Premiata Stamperia Rinaldi” di Rinaldi Nicola
Linotipografia – editing computerizzato – fotoincisioni laser
“Editing computerizzato?... Laser?... I tempi sono proprio cambiati! È tempo che me ne vada.” pensò varcando la soglia dell’officina tipografica per l’ultima volta.
Per Marco la pensione era arrivata all’improvviso, quasi inaspettata, annunciata da una calorosa lettera di ringraziamento per l’opera prestata, concretizzata da una pomposa pergamena sintetica che elogiava l’impegno profuso in oltre quarantasei anni di ininterrotta e appassionata attività e sancita da un luccicante pacchetto infiocchettato.
“E dai, coraggio. Scartalo!” suggerì Nicola, titolare ed ultimo erede della «Premiata Stamperia Rinaldi» di Poggiofino al Rusco.
“Volentieri, ma…” balbettò timidamente lui mostrando le mani già impegnate da un calice di spumante e da un piattino di salatini e tramezzini. Prontamente Lietta, segretaria tuttofare del titolare, gli venne in aiuto.
“Lasci, dia a me.” disse sostituendo le stoviglie con il vistoso presente. Lui, per un istante, seguì con gli occhi piatto e bicchiere nella speranza di poterli recuperare più tardi e si decise a sciogliere il nastro arricciato. Fino a quel momento si era sempre chiesto se era veramente possibile riassumere e quantificare l’operato di un uomo e, di conseguenza, valutare il peso e il valore della sua esistenza. Perché nel suo caso non si trattava solo di lavoro, ma di vera passione. Passione per la carta, l’inchiostro, i colori, le lastre, i caratteri e ogni altro materiale che avesse a che fare con la stampa. Una passione che spesso l’aveva distolto dagli impegni familiari e per la quale, specie negli ultimi tempi, aveva trascurato figli e nipoti, rinunciando a ferie, permessi, addirittura convalescenze. Per soddisfare un cliente difficile – e il suo personale orgoglio – arrivò al punto di lavorare di notte, col riscaldamento spento, e finì per buscarsi una polmonite.
“Cosa aspetti Kunstler? Aprilo!” insistette Sironi, il capomastro anziano. Negli anni Marco era stato ribattezzato Kunstler dai colleghi, per via di una sua fissazione riguardo le didascalie che servivano da corredo alle stampe.
“Marco, che ne dici di un bel Book Antiqua Scripta in seppia? O magari un lapidario corsivo, sull’orzavola, direi. Uhm?”
“Macché. La Mayerling la fabbricano a Stoccarda.”
“E con questo?”
“Per dire che ci devi lavorare con la loro lingua per farti capire. È una questione di sintonia. Ce la vedi la Ginevra che con la sua Olivetti 45 batte una lettera in… in… in gotico? Certo che no!”
E non c’era verso di smuoverlo. Per Marco non esisteva miglior carattere didascalico del corsivo Kunstler a mezzo-grassetto. Che si trattasse di una ristampa litografica, di un impianto serigrafico o di un semplice biglietto da visita, poco importava; il Kunstler andava bene dovunque e comunque.
“Se Marco dice Kunstler, Kunstler sia.” decretava il vecchio Astolfo per chiudere la questione. Già, il vecchio Astolfo. Si era spento sette anni prima, alla veneranda età di novantaquattro anni, lucido, sereno e perfettamente consapevole di aver vissuto onestamente, schiettamente, pienamente. Nel ’95, col groppo alla gola, aveva ceduto la conduzione della tipografia al nipote Nicola, senza peraltro rinunciare alla direzione e nel rispetto di una condizione precisa, che valeva da testamento.
“Le vecchie tedesche sono cosa mia e non si toccano. Deciderai della loro sorte quando non ci sarò più… E quando Marco andrà in pensione, intesi!”
E chi avrebbe mai osato mettersi contro la volontà del vecchio? Negli ultimi tempi la sua attività si era ridotta a poche ore di presenza nell’ufficio delle commissioni, dal quale, grazie alla grande vetrata divisoria, poteva osservare l’andamento dell’officina. Ogni giorno, poco prima di ritirarsi, faceva un cenno a Ginevra, la sua fedele e premurosa segretaria, che subito si recava nell’ufficio adiacente per ricomparire qualche minuto dopo con un vassoio e due tazzine di caffé bollente. Il vecchio mollava il bastone, prendeva il vassoio e attraversava tutta l’officina per raggiungere Marco e la sua Looeser. Quando passava fra le macchine un leggero sorriso faceva capolino da sotto i mustacchi. Là, in mezzo al frastuono e all’odore pungente di tinte e solventi, sembrava rinascere e si scrollava di dosso almeno vent’anni.
“Piglia. È ancora bollente. Sei qui dalle sette meno cinque.”
“Uhm, grazie maestro. Come sa che sono qui dalle sette meno cinque?”
“Ginevra. È il mio occhio quando non ci sono. Allora, come si comporta la vecchia signora?”
“E come deve comportarsi? Magnificamente! Guardi qui.” diceva Marco appoggiando la tazzina sopra lo statico di alluminio e mostrando orgoglioso il suo lavoro ancora fresco di stampa e odoroso d’inchiostro.
“Ah, è splendido. È la commissione del Vinciguerra, vero?”
“Sì. Ventisei tavole. Sanguinaccio smorzato a tre toni. Una a chiusura di ogni capitolo. La pregiata di copertina la lascio scegliere a lui, così non ci trova difetti.”
“Per quanto pignolo sia quel tizio, voglio proprio vedere se avrà qualcosa da eccepire. Bravo davvero. Amico mio, presto mi mancherà quest’assordante sferragliare. Mi mancherà tutto questo.”
I due finivano di sorbire il caffé in silenzio e si salutavano con una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Ma Astolfo e Ginevra non c’erano più e per Marco era arrivato il momento di lasciare il lavoro per dedicarsi alla famiglia. Perlomeno quello che ne restava. Pensava queste cose mentre svolgeva l’imballo che imprigionava un prezioso astuccio di pelle rossa.
“Allora Kunstler, ti piace?” chiese una voce isolata.
“È… è un orologio. – disse Marco a voce bassa – Io ho già un orologio, e cammina bene.”
“Sì, certo, lo so. – intervenne Nicola nel tentativo di contenere una reazione non prevista – Ma questo è speciale. È un cronografo e… Vedi? Dietro, sulla cassa, sono incisi i nomi di tutti i tuoi compagni di lavoro.”
“Oh, sì, Grazie. Ma anche il mio è speciale. Me lo regalò il Maestro, nel ’79 credo. Prima ne possedevo uno con la carica manuale, ma dimenticavo di ricaricarlo e si fermava. Col rumore delle macchine non sentivo il segnale di chiusura e continuavo a lavorare alla Looeser finché il Maestro non mi veniva a chiamare. Per questo mi regalò il suo. Un automatico con il cronometro e la data.”
E così dicendo allentò la fibbia, lo sfilò dal polso e lo porse a Nicola, sempre più a disagio e pallido.
“Guardi. – continuò Marco incurante degli sguardi allibiti dei presenti – Anche suo nonno aveva fatto incidere la cassa prima di donarmelo. È greco. Dice: Chi conta il tempo, vive. Chi non lo misura, esiste. Bello, vero? Peccato quel Bodoni BT…”
“Eh?” stuzzicò Nicola sgranando gli occhi.
“Il carattere. Io avrei scelto un Hellas, o un bel Kunstler.”
“Ah, sì, certo. Un bel Kunstler. Che altro?” farfugliò il giovane con l’espressione basita e il sorriso ebete di chi non sa più che pesci pigliare. Solo allora Marco si rese conto del silenzio pesante che lo circondava e dell’imbarazzo che aveva inconsapevolmente creato.
“Oh, scusatemi. Non intendevo recarvi offesa. Grazie dell’orologio. L’ho apprezzato davvero, credetemi, ma capirete che non potrà mai prendere il posto di questo che ho già. Non me ne volete, lo terrò comunque e… Credo sia meglio chiudere qui il discorso. Beh… he-hem… Io… Prima di andarmene vorrei congedarmi dalle vecchie signore. Sapete, ci ho lavorato assieme per così tanto tempo che…”
“La… La Mayerling l’hanno smontata sabato mattina. È imballata nel retro, pronta per… La portano via domattina.” balbettò Nicola con gli occhi al pavimento.
“Oh! Peccato. Non la demoliranno mica, vero?” chiese Marco riallacciando il cinturino dell’orologio.
“No-no… Andrà in… La daranno a… a…”
“Al museo della stampa di Berlino. Proprio laddove è nata.” intervenne Lietta cercando di mascherare la bugia con un sorriso da reclame.
“Ah, bene. Ne sono felice. E la Looeser? Non hanno smontato anche la Looeser, vero?”
“No, la Looeser è ancora…”
E invece di finire la frase Sironi indicò un punto preciso in fondo all’officina.
“Allora vado a vederla ancora una volta. Se mi è permesso…”
Nicola annuì e fece segno di accomodarsi. Marco ringraziò e con fare impacciato guadagnò l’uscita seguito dagli sguardi attoniti di tutti i presenti. Prese fiato e aprì la porta dell’officina.
“Mi dispiace Kunst… hem… signor Marco. – sentì il dovere di aggiungere Lietta in quel mentre – Deve capire che i tempi sono cambiati e quelle macchine non sono in grado di rispondere alle nuove esigenze del mercato. Certi lavori, per quanto pregiati, sono onerosi.”
“Non tema signorina, so benissimo che il mio tempo è finito. È il destino delle cose. Piuttosto, il museo della stampa ha già una Mayerling e non è a Berlino, ma a Stoccarda, dove la Mayerling è nata ed è stata prodotta fino al 1938. Mi raccomando, se davvero la deve spedire, corregga la bolla.”
Trovò la Looeser dove l’aveva lasciata il venerdì precedente, ma era coperta da un telo polveroso, forse lo stesso che l’aveva nascosta quarantasei anni prima. Lo sollevò appena e sfiorò le manovelle d’ottone e i fregi della pressa, poi prese a sussurrare, come si fa con le cose che hanno vita e che si devono lasciare.
“Addio, mia bella signora. Abbiamo fatto cose straordinarie assieme; cose che non si vedranno più. Hai visto? Mi hanno regalato un orologio con incisi i nomi di tutti i dipendenti sul retro della cassa. Tu e la Mayerling, però, non ci siete. Eppure è con voi che ho condiviso il mio tempo migliore. E quando c’era Astolfo questo era anche il posto migliore per uno come me. Buffo, no! Quarantasei anni di un uomo stanno nel palmo di una mano e pesano pochi grammi. Capisci? Così hanno riassunto, quantificato e valutato il mio operato. Che ci dovrei fare con questo? Contare quel che mi rimane della vita? Ho già un orologio, e non misura il tempo.”
Depose il cronografo sul quadrato di ghisa che tratteneva le lastre, svitò lo sfiato oleodinamico, liberò il freno, lasciò cadere la pressa e dopo aver tirato giù il telo tolse il disturbo per sempre.
La tipografia distava da casa sua meno di tre chilometri, ma quella sera ci impiegò due ore per percorrerli. Trovò tutte le scuse possibili ed immaginabili per ritardare il rientro. Una sosta al bar, le sigarette, due chiacchiere con quelli del «giro della piazza». Proprio lui che fumava e beveva solo per «fare onore alla compagnia» e non frequentava quelli del «giro della piazza». Il fatto è che sapeva benissimo cosa l’aspettava a casa. Un’altra festa, probabilmente un altro regalo di raggiunto pensionamento, i complimenti e gli auguri di sorella, figli, nipoti e parenti più o meno graditi. Altre facce, certo, ma la stessa agonia. Alle sette e trenta di sera, dopo aver preso in considerazione una decina di scuse poco plausibili, si decise a varcare la soglia di casa, tanto più che la cena era già in tavola e non gli pareva educato far attendere oltre i commensali. Poco prima di mezzanotte, congedati gli ultimi ospiti, tutto era finito e a conti fatti non era poi andata tanto male. Apprezzò perfino il regalo, una copia della Divina Commedia illustrata dal Dorè e mirabilmente rilegata in «carton cuoio». Dal vecchio Astolfo, che lui chiamava Maestro, aveva imparato ad apprezzare i libri di buon pregio e questo ne aveva tutte le caratteristiche. La passione è passione e non aveva senso aspettare domani; così, nonostante l’ora tarda e la stanchezza, si dette a sfogliarlo, comodamente seduto sul sofà.
“Non ci hai detto nulla della festa al lavoro. Com’è andata?” chiese Luca, il figlio minore, sedendosi accanto.
“Bene.” rispose lui senza staccare gli occhi dal volume.
“Tutto qui? E il regalo? Di solito fanno un regalo a chi va in pensione.” insistette Giulia, la maggiore, affiancandosi al fratello.
“Oh, il regalo, sì. È che… l’ho dimenticato alla festa. Lo recupererò.” rispose Marco dando l’impressione di non voler dare peso alcuno alla faccenda.
“Mi pare di capire che non l’hai gradito più di tanto. Giusto per curiosità, di che si trattava?”
“Di un orologio.”
“Beh, scontato, ma utile. Quello che tieni al polso ha fatto il suo tempo.” commentò Luca.
“Lo metterai?” rimbeccò Giulia.
“Non credo.”
“Perché? Non ti piace?”
“Perché si ferma. Misura quello che non mi serve, e si ferma.”
I due capirono che non era il caso di insistere oltre e lo lasciarono in pace.
***
[continua]
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