Massimo Maso - Separato in casa – Storia di un castellaro pintore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa 15x21 - pp. 216 - Euro 12,00 ISBN 978-88-6587-2291 Clicca qui per acquistare questo libro In copertina: “Scherzo grafico” china a graffio di Massimo Maso Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è Segnalata dalla Giuria nel concorso letterario J. Prévert 2012 Motivazione della Segnalazione della Giuria del Premio Jacques Prévert 2012: «Separato in casa – storia di un castellaro pintore», di Massimo Maso, è un romanzo esistenziale-sognante che si crea e ricrea, sempre in equilibrio su una storia d’amore che condurrà ad un epilogo imprevedibile, autentico colpo di scena spiazzante. La storia di un uomo che vive nella mediocrità ma, un bel giorno, conosce Valentina, una bella “sventolona rossa”, donna effervescente ed intelligente, che lo aiuterà a ritrovare se stesso. Lui lascerà il suo lavoro, si metterà a dipingere le insegne dei negozi, a disegnare ritratti nel locale del paese, a costruire castelli di sabbia sulla spiaggia, sempre seguendo il suo “angelo redentore”: finalmente sarà “sereno e felice”. Massimo Maso plasma, pagina dopo pagina, un romanzo pervaso da profonda umanità, alla ricerca del significato autentico del vivere, tra filosofiche riflessioni e frammenti esistenziali esilaranti. Massimo Barile “Chi vive lascia pietra. Chi esiste lascia memoria.” “Si può amare una donna senza pesare sul suo cuore, senza violarne il destino.” Sono debitore di molto all’onesto e disinteressato affetto di pochi. A loro, se oggi sono quello che sono. Massimo Maso Separato in casa – Storia di un castellaro pintoreQuesta è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono immaginari. Qualsiasi rassomiglianza o riferimento con persone, cose, fatti o località realmente esistenti o esistiti, è puramente casuale. Dedicato
“Ci siamo. Torre Pali.” – confermò il camionista additando un pugno disomogeneo di edifici periferici – “Allora… buona permanenza.” aggiunse poi accostando fin sotto il semaforo e liberando la sicura delle portiere. “Al quindicesimo chilometro della litoranea per Gallipoli trovi le indicazioni per Marina di Salve. Lasci a destra il paese e prosegui per altri cinque chilometri. Arrivi ad un incrocio. Non puoi sbagliare. Come leggi Torre Pali prendi a sinistra, duecento metri e sei arrivato. Chiedi della gelateria “Tempo zero”, entra, gustati l’affogato al caffè, che è la loro specialità, e aspettami. Alle cinque in punto arrivo.” Macché, niente da fare. Non gli riusciva proprio di concretizzare la situazione. Mille interminabili chilometri e diciotto ore di viaggio alle spalle; trentacinque gradi all’ombra del nulla e il frastuono di una campagna brulicante di cicale davanti. Non c’era davvero proporzione. Il cartello c’era, ma Torre Pali dov’era? O per meglio dire: cos’era? Per uno come lui, abituato alla presunta razionalità dell’urbanistica settentrionale, fatta di frazioni e quartieri ben definiti e contestualizzati, risultava estremamente difficile recuperare una visione complessiva e soddisfacente di quel luogo, tanto più che mancavano totalmente quegli elementi di raccordo minimi e indispensabili capaci di suggerirgli l’idea, seppur vaga, di località o abitato. Nel tentativo di orientarsi correttamente rispetto al mare, volse il capo da destra a sinistra, percorrendo con gli occhi la strada che intersecava la statale. Da una parte la strada risaliva la collina e dopo appena cinquanta metri curvava e lasciava in disparte una chiesetta, stretta nella morsa di due vecchie abitazioni cubiche, per poi addossarsi ad un muretto di pietra a secco che delimitava un latifondo coltivato a ulivi. Oltre questi, l’azzurro. Dall’altra, prendendo a sinistra come il messaggio suggeriva, il verde basso e polveroso degli orti che conduceva al mare. Raccolse la borsa e prese quella direzione. Di qua e di là dell’asfalto manciate di case dai tetti piatti. Il marciapiede solo a ridosso delle abitazioni di recente costruzione. Sparse in quel verde, isole di villette coi muri di graffiato colorato, probabilmente destinate a soddisfare le crescenti richieste del turismo residenziale. Dovunque la sensazione dell’incompiuto o, nel caso di vecchi edifici, del rattoppato alla meno peggio. E questo rendeva ancor più difficile trovare un punto di riferimento preciso. La fisiologica mancanza di omogeneità e razionalità costruttiva impediva di fatto l’immediata identificazione delle attività commerciali. Poi l’occhio di Leone cominciò ad abituarsi e giunse a cogliere i dettagli. Come le insegne e i cartelli artigianali, ad esempio, che ritornavano agli edifici la promiscuità della loro funzione nonostante l’unicità dell’ingresso, reso sonoro dal tintinnare delle perline di plastica colorata delle tende antimosca. Abitazione e panificio, o abitazione e salone di parrucchiere acconciatore, piuttosto che abitazione e edicola con smercio di tabacchi e gioco del lotto. Indicazioni piccole comunque, quasi timidi promemoria per i residenti e suggerimenti per i forestieri. Le più semplici, scritte col pennarello o con il nastro adesivo nero, sagomato, segnalavano i frutti dell’attività rurale. “Qui olio e vino di produzione propria”, oppure “caciotte, burrata, peperoncino e ortaggi, vendita diretta”. Quelle più colorate, industriali, richiamavano un recente riordino del locale o lo sviluppo di un’attività fin lì condotta con criteri rudimentali. Uno, molto vistoso e con una foto in rilievo declamava la prossima apertura della “nuova pasticceria da Rosa, in via Colombo. Pane, pasta e specialità dolciarie”. Stando alla foto doveva avere le dimensioni di un autosalone. Quando Leone la superò quasi non la riconobbe tanto era piccola e angusta. L’insegna più frequente? Minimarket. Condivisa, ovviamente, con altre attività. Al minimarket di Olga si accedeva dal bar Specchio, a quello delle sorelle Bonaiuto dopo aver attraversato la pizzeria-rosticceria del fratello Agostino, con alloggi al primo piano. Ferramenta e articoli da mare, invece, non abbisognavano di alcuna indicazione, giacché tappezzavano tutto lo spazio antistante l’entrata di gommoni a forma di coccodrillo, ciambelle col becco da papera, pinne, seggiole, ombrelloni con le frange di paglia finta, sdraio e reticelle zeppe di secchielli e giochi per la sabbia. Dentro, a richiesta, carriole e pale, griglie e carbonella da barbecue, pentole e barattoli per il sugo, intimo maschile, deodoranti e cibo per animali e, ovviamente, sigarette e gratta e vinci. Questa, forse, l’unica caratteristica che accomunava Torre Pali ad una qualsiasi altra località balneare della penisola. Ciò che non contemplava manifesta attività commerciale era comunque fonte di reddito stagionale. Tutto era affittabile; dalle stanze, all’appartamento, al sottotetto o al garage ristrutturati per i meno esigenti. La sistematica presenza di una targhetta col numero di telefono del proprietario e la scritta “affittasi” appiccicata sulle cassette della posta o sotto il numero civico, significavano l’uso quasi esclusivo di procedure di affitto sbrigative e stipule contrattuali prive di intermediario, frutto di un contatto diretto fra locatori e vacanzieri. Ragion per cui Leone, strada facendo, incontrò un’unica agenzia immobiliare, peraltro aperta solo dalle 10,00 alle 12,30, come recitava l’avviso. Alle quindici e trenta, schiacciato dal peso di un calore africano che sembrava bruciargli l’ossigeno attorno, raggiunse una piccola piazza, per buona parte occupata da giostre per bambini e baracchini di ambulanti magrebini e indiani, luccicanti di collanine, braccialetti, orecchini e ninnoli di ogni tipo. [continua] Contatore visite dal 27-11-2012: 2548. |
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