A mamma e papà
“Gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prima ancora che i corpi si vedano”
Paulo Coelho
“Once the stone you’re crawling under is lifted off your shoulders. Once the cloud that’s raining over your head disappears, the noise that you’ll hear is the crashing down of hollow years”
Dream Theater- Hollow years
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Quel pomeriggio di metà maggio sono uscito prima dal lavoro, contratto da un progressivo annuvolamento del mio umore e da un’alternanza di pensieri sconnessi e opprimenti. Mi sono fermato per una rapida sosta al solito bar vicino all’ufficio per ingollare qualche sorsata d’acqua gelata volta a tamponare l’afa improvvisa e anormale di questo anticipo d’estate; ripensavo all’uomo grigio e alla sua perenne insoddisfazione nel conseguimento degli obiettivi lavorativi. Il termine “budget” così come “chiusura immediata” o ancora la sua espressione rabbiosa da animale selvatico per una presunta incapacità collettiva nel vendere contratti diabolici non facevano che amplificare i rivoli di sudore che mi colavano dalle tempie. Mi sono ricordato il discorso di Cecilia di qualche giorno prima in cui mi rimproverava che passività e determinazione non andavano a braccetto nel mondo del lavoro e che, quindi, dovevo optare per quest’ultima senza se e senza ma, senza facili giustificazioni o blande scuse. Mi tornava alla mente il suo arroccarsi nel ruolo di donna con i piedi per terra che si scontrava dietro muri di ragioni con l’uomo idealistico e, a tratti, cavalleresco.
Almeno così mi vedevo io.
Mi sono avviato alla macchina, la mia vecchia Mini blu anni ’80, con un fastidioso vento caldo sulla schiena che sembrava affossarmi più velocemente dentro questo pomeriggio appiccicoso. Il rombo famigliare del motore sembrava un rimprovero per l’assenza di movimento e per l’essere rimasto troppo a lungo spento sotto il sole. Potevo quasi percepire la mancanza, il bisogno frustrato di moto dell’auto che sembrava passarle dentro come corrente. Il volante era caldo, quasi piacevole al tatto, solido e, come tutta la macchina, sembrava cogliere la mia frenesia nel volermi lasciare alle spalle questa giornata colma di tensioni irrisolte. Ho slacciato e gettato la cravatta sul sedile posteriore come se volessi liberarmi anche del concetto di “soldato del padrone”. Subito dopo il traffico mi ha avvolto nel suo lenzuolo velenoso tra strappi improvvisi del cambio, muscoli nervosi, manovre da rally e semafori strafottenti, che si divertivano a diventare rossi in prossimità di ogni incrocio. Non avevo voglia di andare a casa a inebetirmi sul divano, così faticosamente ho guidato lontano da questo girone infernale e mi sono diretto fuori città, verso le colline. Adoravo guidare tra quelle strade poco curate e battute, era una continua sorpresa l’avere un’estesa fetta di terra così incontaminata e poco distante dalla ossessiva devastazione urbana. Sono sceso e risalito tra piccoli tornanti, passando tra vigneti e campi, abbassando progressivamente il finestrino per poter assaporare ogni singola particella di ossigeno pulito; l’erba era già leggermente bruciata dal sole e qualche mucca sfidava il clima brucando nei vasti prati che si tingevano di luci e ombre al passaggio di alcune nuvole. Ho esteso il mio braccio sinistro oltre il vetro lasciando che l’aria filtrasse tra le dita semi aperte, sperando ingenuamente che potesse spazzare via, con foga, anche preoccupazioni e domande; sfortunatamente mentre il panorama continuava a dischiudersi, continuavano a venirne alla mente di nuove. Trovavo giustificazioni ricorrenti, come il guadagnare bene per mantenere un buono stile di vita, l’abitare in una casa che sembrasse una casa e non un camper ben arredato, ogni genere di confort, una buona famiglia, le giuste attenzioni… Mi sono reso conto, però, che era una visione prettamente materialista e che in realtà, mentre il paesaggio scorreva la mia vita era in uno stato di stasi continua: una passività recalcitrante. Non capivo appieno la causa di questa mia fragilità fulminea, ignoravo se fosse a causa del caldo, dell’uomo grigio, dell’auto o del chiaroscuro del cielo. Successivamente sono arrivato ad un bivio nascosto dietro ad una grande curva e ho scelto, cercando un minimo di adrenalina, di percorrere una piccola strada sterrata che non conoscevo. La Mini ha risposto energica e, pur scricchiolando a causa del terreno accidentato, ruspava e ringhiava grintosa come un cane da caccia. La discesa si inaspriva ad ogni metro facendo sobbalzare la piccola macchina, un recinto di legno poco curato costeggiava la via, segno di una probabile villa di qualche riccastro locale. In fin dei conti non era stata una buona idea, arrivare fin lì, rischiare di spaccare l’auto o forare una gomma; così, stupidamente, ho accelerato nella speranza di veder comparire al più presto uno spiazzo dove fare inversione; oltrepassata una brusca curva a sinistra, sono stato accecato improvvisamente dal sole e ho cercato a tastoni l’apertura del cruscotto per prendere gli occhiali. Avevo le mani sudate così ho perso la presa e sono scivolati, incastrandosi in basso tra sedile e portiera. Ho provato a prenderli all’istante stizzito e sul momento non ho capito più niente: solo un attimo prima mi sentivo comunque padrone della situazione e subito dopo ero praticamente impossibilitato a coordinare gambe e braccia. Ho avvertito una botta non appena la Mini ha abbattuto una parte dello steccato fatiscente volando rovinosamente lungo il prato; ho premuto a fondo il pedale del freno tentando contemporaneamente di tenere saldo il volante, ma il panico non mi permetteva lucidità nei movimenti rendendomi scoordinato e insicuro. La Mini saltava come un toro indomabile rendendo inefficace ogni mia contromisura, ogni mio tentativo di limitare la velocità che aumentava ad ogni metro. Ad ogni nuovo avvallamento dell’erba ero sul punto di perdere definitivamente aderenza, stretto com’ero nell’abitacolo colmo di cigolii, braccia indurite, paura e sudore. Non ero certo un pilota di rally e le uniche nozioni che avevo erano quelle ereditate dai videogiochi nei quali, tra l’altro, non ero particolarmente portato. Quando ho visto l’albero era troppo tardi e l’unica cosa che ho sentito è stata una forte spinta sullo sterno e un boato da jet in decollo, prima che il buio coprisse paura, dolore e una serena indifferente rassegnazione.
Mi è saltato alla mente un episodio di quando avevo circa dieci, dodici anni, un’età in cui i primi sogni si affacciavano fortemente al davanzale della mia vita: ero a pesca con mio padre, nel mantovano, in uno degli emissari del Mincio. Dove abitavamo noi in montagna, non era più consentito data la penuria di pesci dovuta al prepotente abuso dell’uomo. Aveva cercato di portare anche mio fratello, ma lui era già in un’età in cui la compagnia era la vera famiglia e le attività con i genitori erano considerate “roba da matusa” o da sfigati. Era la prima volta che pescavo e mi sentivo sotto esame, disperso tra esche, gittata del lancio, correnti e impugnatura della canna. Mi sembrava tutta una perdita di tempo in quanto non sarei mai diventato bravo come papà, che invece era un ottimo pescatore, celebrato anche sui giornale locali per aver vinto alcune gare e manifestazioni. Eppure, mi ascoltava con pazienza pronto e disponibile a spiegarmi ogni postura, ogni tecnica che mi permettesse di avere un angolo tutto mio in cui potessi dimenarmi, tentare e sbagliare senza pressioni. Ammiravo la sicurezza e la forza delle sue mani, la flessibilità con cui eseguiva i movimenti quasi fosse quello il suo habitat naturale e non una spaurita casetta in un paesino dimenticato tra i monti. Siamo andati tante altre volte a pesca ed ogni volta lui sorrideva notando i miei progressi, urlava appena prendevo un pesce, saltava qua e là. Era contento e anche io lo ero di riflesso. Mi aveva confidato che il motivo della sua spensieratezza era l’acqua ed io incuriosito gli avevo chiesto il perché. «Perché si muove»…
Mi sono cucito addosso quella frase afferrandone, però, il significato solamente qualche tempo dopo, la prima volta che ho visto il mare: ho avvertito una grande pace, un profondo benessere nel mio innocente cuore di bambino che veniva cullato nello sciabordare delle onde. Avevo confidato ai miei che da grande avrei voluto vivere lì, in una capanna sulla spiaggia per controllare che l’acqua non si fermasse mai, per essere allegro come papà.
Mi sono ritrovato pressato con la fronte contro il volante, una fitta continua alla testa e le braccia penzoloni che sfioravano il sedile ricoperto di vetri. Gemendo ho aperto a fatica la portiera ed ero quasi in piedi, quando sono caduto schiantandomi sul prato, come se fossi stato abbattuto da un cecchino nascosto. Ero sdraiato per terra e guardavo le nuvole che continuavano a correre sopra di me, tastavo l’erba, osservavo la povera Mini accartocciata contro l’albero. Mi sono alzato di scatto per andare a verificare il danno ma un fulmine di dolore mi ha squarciato il corpo causandomi un attacco di nausea e offuscandomi il paesaggio che aveva iniziato a rotearmi intorno. Mi sono seduto con le mani tra i capelli cercando di fermare questa furiosa trottola sulla quale ero salito e che vorticava a tutta velocità incurante della mia sofferenza. Mi usciva sangue dalla fronte e, dopo aver sbottonato la camicia, ho scoperto di avere alcune escoriazioni sull’avambraccio destro. La cosa buffa è che la mia mente aveva aperto le porte ad ogni tipo di scoria, di pensiero, di spirale dannosa mixandoli in un papocchio caotico: pensavo ad impegni di lavoro che sarebbero saltati, al tempo perso, alla mia imbarazzante incapacità di guida, all’incoscienza di non aver guardato attentamente la strada mentre cercavo gli occhiali, alla pesca con papà, agli uccelli, alla mancanza d’aria. Avevo un male allucinante al torace, un macigno opprimente, così mi sono concentrato sul mio respiro cercando di renderlo regolare per riacquistare un briciolo di lucidità. Ho guardato in lontananza, oltre la strada per vedere se c’era qualcuno ma le uniche forme che scorgevo erano campi, vigneti, ed ettari di prato. Dopo un periodo di tempo indefinito in cui ho capito che stare seduto non era poi questa gran soluzione, sono andato ad appoggiarmi contro lo steccato e sono riuscito a scompattare il dolore sulla testa, sulla spalla e sul fatto di essere totalmente infelice: era bizzarro, ironico pensare a questo, a porlo come priorità quando ero piuttosto malconcio, con la macchina sfasciata, solo in mezzo ad un campo in un posto indefinito. La mia vita non era per niente quella che volevo, quella che sognavo anche se in fin dei conti non sapevo esattamente quale tipo di vita avevo sognato; mi sono stupito nel non essermene accorto prima, nel lavoro, con Cecilia, con la routine, con gli amici, nei gesti standardizzati, nel modus vivendi apatico. Ho provato a pensare a Cecilia, a prima di stare con lei, a scuola, all’adolescenza, a dei punti chiave del mio passato e ho realizzato che non ero mai stato felice; o meglio, più che infelicità la mia era una sorta di “non felicità” in cui avevo accettato passivamente ogni cosa, ogni situazione, ogni singola briciola di vita. La malinconia era sempre stata l’amica migliore.
Ripensando alla frase di mio padre a proposito dello scorrere ho capito che in realtà in mondo non era immobile o ancorato a gesti schematici, ma si muoveva intorno a me: ero io ad essere fermo, trascinato in un tornado senza mai aver voluto venirne fuori, senza il desiderio o, chissà, la forza per combattere. Era come se mi avessero gettato un salvagente ed io, invece che afferrarlo, mi fossi limitato a guardarlo mentre si allontanava sempre di più, onda dopo onda, momento dopo momento, lavoro dopo lavoro, storia dopo storia, felicità dopo felicità. Lucidamente ho pensato a tutte le bugie con cui mi ero auto convinto, con cui mi ero auto appagato, ma si sa, la verità sparecchia il caos delle menzogne. Ero consapevole dell’enormità dello spazio, delle difficoltà che mi circondavano, ma ero come una formica in una prateria, un’ape nel cielo, un salmone controcorrente; la differenza stava nell’abilità degli animali all’adattarsi mentre io non ci ero ancora riuscito. Avevo sempre provato a dare definizioni, a rispondere ad ogni problema, ad ogni casino ma quello che in realtà avevo ottenuto era l’aver posto una cornice senza conoscere appieno quello che c’era al suo interno. Forse ero sempre stato troppo spaventato per pensarci.
Ho sfiorato una portiera della Mini e pur essendoci affezionato, adesso non me ne importava niente, così come non mi interessavano i danni materiali e tutti i dati di fatto; fissavo le colline in lontananza alienato dalla realtà, rinchiuso nel mio guscio di nostalgie e rimpianti, nella sottile indifferenza tra vita vissuta e vita desiderata. Ho controllato l’orologio scheggiato e fuori uso dopo l’incidente e ho preso il cellulare per chiamare qualcuno. Non avevo voglia di chiamare Cecilia e sentirmi obbligato a dare risposte e giustificazioni sul perché mi ero spinto fin qui, così ho telefonato a mio fratello. Mentre squillava ho sperato che, anche questa volta, corresse in mio aiuto, come quando eravamo bambini. Avevamo un legame indissolubile resistente al tempo e alla distanza, ad ogni tipo di difficoltà. Per quanto diversi, eravamo accomunati da un filo invisibile che ci sosteneva ogni qualvolta ne avevamo bisogno. Era tanto che non mi mettevo in contatto con lui e questa era purtroppo un’occasione non piacevole.
«Ma guarda chi si sente!!! Buonasera eh, chi non muore si rivede» ha risposto quasi subito.
«Ciao…» ho mugugnato.
«Che voce! Aspetta non dirmelo chi ti ha fatto incazzare al lavoro questa volta? Il grassone?»
«No ascoltami, ho bis…»
«…Quante volte ti ho detto che te la prendi troppo? Che sei circondato da idioti? Quand’è che te ne vai da quel postaccio?» mi ha interrotto.
«Cristiano ascoltami per favore» non mi sono reso conto di aver alzato il tono della voce. C’è stato un momento di silenzio, attraversato soltanto dalle cicale e dai miei gemiti.
«Ma cos’è successo? Qualcosa di grave?» ha domandato lui preoccupato. Anche se non era vicino a me, capivo dal suo tono che aveva intuito qualcosa.
«No, no tranquillo, tutto okay, ho solo…» ho interrotto la frase a metà colto da un violento attacco di nausea.
«Mi dici cos’è successo cazzo?»
Ho respirato a fondo cercando di non vomitare e una frase per non farlo preoccupare ma non me ne venivano in mente di significative.
«Ho… Ho fatto un casino! Puoi venirmi a prendere?» Il tentativo di rassicurazione era fallito in partenza.
«Ma dove cavolo sei?!»
[continua]