Aswan
Aveva sempre considerato quello il momento migliore della giornata, quando il sole non è ancora tramontato ma è basso all’orizzonte e colora di una luce calda ogni cosa e adesso, dalla cima dell’altura, poteva goderne tutto l’incanto.
Il grande muro della diga rimaneva alle sue spalle, ma i colori di Aswan erano proprio davanti ai suoi occhi, rischiarati dalla luce dell’ultimo sole.
Lasciando scorrere l’occhio lontano poteva seguire il profilo del deserto perdersi all’orizzonte, avvicinando lo sguardo al brulichio sottostante vedeva invece le case della città vecchia, con il quartiere del bazar e un tratto praticamente immobile del Nilo.
Da quelle case, senza tetto, di terra seccata e paglia, con le stanze e gli ingressi coperti da grandi teli colorati, e da ogni vicolo arrivavano delle voci e delle ombre leggere, ma ben definite, di un gran numero di persone in movimento.
Nuvole di polvere erano sollevate dalla strada di terra battuta.
Chi camminava in fretta per raggiungere casa, chi portava ceste sulle spalle cariche di frutta, chi tirava carretti stracolmi di verdura e di grano dorato. Nel souk sostavano i venditori di limoni e poi c’erano quelli di datteri, conservati nei cesti intrecciati con larghe fronde di palma e poi ancora i venditori di anfore e spezie, così ogni alito di vento portava il profumo di cannella, zafferano, incenso, ibisco ed henna.
Lo spettacolo era di una città vivissima che, quando è sbollita la calura del giorno, vede ognuno finalmente intento alle proprie faccende.
I rumori e le voci più forti provenivano da dove si trovavano i mercanti e i viaggiatori, in una piccola piazza, affollata di uomini e di animali. Gli uomini si univano e si allontanavano a piccoli gruppi, mescolandosi in un’onda frenetica, con le loro gallabie dai colori accesi. I cavalli dondolanti masticavano fieno, accanto agli asini fermi sotto il peso delle fascine di papiro, mentre ogni tanto tremava l’aria al risuonare profondo dei rigurgiti dei numerosi dromedari in sosta.
Il sottofondo incessante di quella veduta era la musica di trombe e rababa, di un gruppo di suonatori, seduti all’angolo della piazza, litania rotta soltanto dalla voce, più lontana e acclamante di un muezzin, che ricordava a tutti il tempo della preghiera.
Un richiamo senza fine e lungo, il ritmo di una cantilena eterna.
Ma lo spettacolo che attirava maggiormente il suo sguardo era più vicino, più sotto: era l’ansa del fiume.
Numerosi battelli erano in cerca di un approdo, mentre la linea filante di alcune feluche scivolava silenziosa oltre.
Un intreccio di alberi e remi, un groviglio di vele bianche raccolte e tese dagli uomini stanchi, di ritorno probabilmente da mercati lontani.
Quel posto, quell’altura, quella vista dall’alto della città avevano sempre rappresentato un irresistibile richiamo.
Pur confondendo la sua concentrazione con lo studio attento di tutto quel moto, come guardando l’avanti e indietro delle onde del mare, continuando, infatti, a seguire con lo sguardo le case, il mercato, l’inarrestabile processione dei nubiani, il fiume, le chiatte, poi di nuovo le case, la gente (altre situazioni, altre storie da immaginare), poteva fissare il suo pensiero su qualcosa di molto profondo, come il senso della sua vita, il significato del suo costante viaggiare.
Riuscire a riflettere sulla storia, sul tempo, sullo spazio, persino sull’immortalità.
E forse perché tutto sommato era veloce il suo pensare, l’impressione che derivava da ogni riflessione era di pace infinita. Viveva in uno stato di assoluta serenità, influenzato senza dubbio dal fatto di trovarsi in quel luogo, così antico, dove il vivere è placido e scandito ogni giorno da poche e semplici cose.
Avevano senz’altro modificato il suo animo i sorrisi di tutte le persone che lì aveva incontrato, il loro fatalismo, il non avere paura né della vita, né della morte, ed era dolcissimo contemplare la vita da lassù, a quell’ora preferita del giorno, respirando anche nell’aria quello spirito.
Non c’era altro intorno che l’essenza di tutte le cose.
Tutt’intorno e nello stesso tempo s’incontravano il principio e la fine della civiltà.
Non era ancora tempo di ripartire, stava benissimo lì, stiracchiando verso il cielo le braccia.
Una piccola feluca stava muovendo verso i limiti del deserto.
Certo a qualsiasi altra ora del giorno il sole non avrebbe perdonato, se non gli inarrestabili nomadi, chi si fosse allontanato oltre i palmeti, da entrambe le sponde del fiume.
Là era dove finiva la vita: oltre il fiume e la terra coltivata c’erano soltanto la sabbia e una distesa di pietre.
Guardando in quella direzione poteva scorgere anche una tempesta di sabbia.
Decise allora di alzarsi in piedi per vedere meglio.
L’atmosfera si era fatta più frizzante.
Chi non era in un punto di osservazione così alto poteva soltanto accorgersi che il vento era aumentato, ma in ogni caso la vita continuava il suo corso.
Le nuvole di sabbia e il loro turbinio lontano facevano pensare ad una tromba marina, vista da una spiaggia gialla, profondissima.
Il cielo lontano, alto e cupo.
Fece un profondo respiro da riempire completamente i polmoni. Chiuse gli occhi e sentì sferzare piccolissimi granelli di sabbia sul viso.
Il vento era caldo, ma ugualmente si strinse sulle spalle lo scialle di cotone bianco. Sorrise e pensò a come era importante, in quel momento, rimanere così.
Lo sconosciuto
Tornare a mangiare in quel locale. Era l’unica possibilità per incontrarlo ancora, e tornarci subito il giorno dopo, quando quell’incontro aveva avuto un sapore un tantino sfuggente ma prometteva bene. Chissà, forse era stato un sorriso, uno sguardo, ma qualcosa le aveva detto che avrebbe potuto parlarci, trovare degli argomenti per fare amicizia e conoscersi un pochino di più.
Doveva tornare proprio lì, lui forse aveva l’abitudine di pranzarci ogni giorno e non erano poche le probabilità di vederlo ancora.
Persi da subito nella folla ondeggiante del centro commerciale, appena detto “arrivederci”, come sarebbe stato possibile incontrarsi ancora? Allo stesso tavolo, alla stessa ora: forse ci stava pensando anche lui.
Poteva avere attorno ai quarant’anni, anzi, qualche anno in più. Un bell’uomo, leggermente abbronzato, moro, occhi scuri, impacciato quanto basta quando gli era caduto quasi l’intero cartoccio di patatine fritte sul tavolo, sedendosi maldestramente sullo sgabello del bancone alto. Tutti i tavoli normali erano occupati ed erano rimasti liberi soltanto due posti al tavolone di centro sala, scomodo quanto informale, ma l’ideale per una sosta veloce.
“Cade sempre tutto in questo posto”, aveva detto lei per levarlo dall’impaccio: a lei però non era scivolato nulla fuori dal vassoio.
“Non credevo che fosse così grande questo panino!”, aveva detto lui, raccogliendo le patatine e risistemandole nel cartoccio.
“Beh, direi, credo si chiami Big Mac… ha preso quello più grosso”, le aveva detto lei, sorridendo.
Poi silenzio, un panino per entrambi, lo sguardo distolto apposta per non creare imbarazzo: era pur sempre uno sconosciuto. Ma in un locale pieno di gente e di bambini si poteva guardarlo in faccia senza paura questo sconosciuto, e poi, alla sua età! Mica era una sedicenne. Anzi, poteva proprio permettersi di guardarlo dritto negli occhi, se avesse capito di piacergli almeno un po’.
Ma lui aveva letto il giornale tutto il tempo, le cronache sportive.
“Non si può dire che non riempia abbastanza questo panino! Mi hanno regalato anche questo bicchiere colorato”. Era soddisfatto della scelta, lui, e mangiando le patatine aveva ripreso a leggere il giornale.
Ancora qualche sorriso, ancora qualche sguardo e poi lei aveva finito il suo pranzo, meno abbondante di quello dello sconosciuto.
Devo andarmene, aveva pensato, non posso stare qui ad aspettare che parli con me, sta anche leggendo il giornale e io ho finito di mangiare.
Aveva preso il vassoio e si era alzata: gli ultimi istanti ancora insieme.
“Arrivederci!”
“Arrivederci!”… le aveva risposto lui.
Sì, ma quando?
Doveva proprio tornare a mangiare in quel locale.
Ma no, lui non era tornato. Il giorno seguente lei aveva comunque mangiato guardandosi intorno e ridendo tra sé. Se non era quella l’occasione, di una cosa lei era certa: era pronta.
I treni di Ernestina
“Ernestina! Vieni dentro che sei senza ciabatte”.
La piccola veranda nel giardino davanti alla ferrovia era assolata, ma un vento fresco e leggero smorzava la calura.
La donna, vestita con un abito a fiori, era seduta su una vecchia sedia di legno, di quelle con il tessuto a righe bianche e blu. Era lì già da tanto tempo, ma fino a quel momento non se ne era ancora accorto nessuno, alla casa di riposo.
Ernestina guardava i treni passare: l’unico legame che aveva ancora con il mondo reale, perché da alcuni anni la sua mente aveva rifiutato di capire le cose e di ascoltare i discorsi delle persone.
Ma i treni che passavano davanti al giardino Ernestina li vedeva bene e li riconosceva: i treni con le merci, quelli con tante persone che andavano a lavorare, quelli che andavano tanto forte da scompigliarle i capelli, perché filavano lontano.
I treni di Ernestina non erano tutti uguali e ciascuno le riaccendeva un ricordo.
Quanta dolcezza, quanta bellezza le tornavano alla memoria ogni volta che passava un treno.
Ricordava la sua casa, il cortile con le galline. Il suo cane, l’albero con le ciliegie.
Ricordava la neve, il Natale, le bambole, le risate dei suoi amici più cari.
Ricordava la collina dove c’era la sua casa e la discesa a valle, un prato enorme dove al centro c’era il ciliegio, piantato da chissà chi tanti anni prima.
Scendere dalla collina lungo quel prato era uno dei suoi passatempi preferiti, prendendo una gran rincorsa! Dapprima le si fermava il fiato il gola, poi le gambe si trattenevano per non cadere lungo quella lieve pendenza, ma circa a metà Ernestina si lasciava andare, mollava braccia e ginocchia, non respirava più e correva, spesso chiudendo anche gli occhi, mentre l’accompagnava il fischio di un treno lontano.
Sapeva di doversi fermare solo quando cominciava a sentire il rumore dell’acqua del torrente: a quel punto era arrivata in fondo alla collina.
Risalendo raccoglieva tanti fiori: margherite e soffioni, e campanelline gialle che tutti chiamavano “bottoni d’oro”.
“Vieni dentro Ernestina, è ora di mangiare. Sempre qui fuori, ormai lo so dove ti devo venire a cercare”, la paziente assistente la prese per mano.
“Mio treno, mio treno”.
Ernestina salutava con la mano mandando baci.
Mio treno. Questo è quello che passa di sera ed arriva fino al mare.
[CONTINUA]