Creta
Quante volte era rimasto a respirare l’aria di quel suo mare…
La panchina soleggiata era sempre stato un buon punto di osservazione su Kato Melion, il porto del villaggio di pescatori dove abitava da sempre.
Da quell’angolo affacciato verso l’orizzonte, più ampio e sconfinato, si potevano vedere le case dell’abitato, l’ingresso delle imbarcazioni nella piccola darsena, i colori delle barche in mare, le reti dei pescatori stese ad asciugare sul molo di pietra.
Anche quel giorno c’erano, poco lontane, le giovani donne intente a riparare con lo spago gli squarci che le onde e gli scogli avevano aperto su quelle trame colorate, strumenti sottili di un lavoro antico.
Era mattino ma l’aria non sapeva della solita tipica frenesia, e lui era deciso a prendersi tutto il tempo prima di incontrare Athina.
Avevano deciso di pranzare insieme vicino al mare, in un posticino dove altre volte erano andati per gustare piatti a base di pesce. Avrebbero replicato quella gustosa “avventura culinaria”, conversando e ridendo tra loro come erano soliti fare, soprattutto quando non si vedevano da diverso tempo.
Era così. Erano passati quasi venti giorni dal loro ultimo incontro e valeva la pena essersi alzati e vestiti presto, perché l’occasione era davvero importante.
L’avrebbe attesa su quella panchina, le sarebbe andato incontro, l’avrebbe fatta accomodare di fronte al sole e le avrebbe detto quanto era bella nella luce del mattino.
Poi, mano nella mano, come due ragazzi, si sarebbero incamminati verso la trattoria.
Il locale era poco lontano ed era uno dei pochi rimasto ancora aperto, sul finire della stagione estiva.
Era già settembre inoltrato e molti ristoranti e bar avevano già chiuso i battenti, per riaprire a primavera.
In quella zona dell’isola il turismo si esauriva prima che altrove: là non c’erano grandi attrazioni e la gente era per lo più di passaggio. Amavano quei luoghi le famiglie con i bambini o le coppie in cerca di tranquillità, di un posto silenzioso e pacato dove riposare.
Così per chi abitava da quelle parti era normale, in quelle settimane, vedere svuotarsi le strade e le piazze, i traghetti ripartire carichi di turisti che si scattavano le ultime fotografie, prima di lasciare la spiaggia e il molo di Kato Melion.
Un bar aveva colpito la sua attenzione qualche giorno prima: il proprietario, un greco di Patrasso trasferitosi lì per lavorare in estate, quando decideva che la stagione balneare era finita apriva il suo chiosco soltanto nel tardo pomeriggio, lasciando i tavolini e le sedie tutto il giorno sistemati con cura sotto il pergolato. Il muretto del locale era rosa, rosa “confetto” anche i tavoli e le sedie, su cui l’uomo posava delle introvabili tovaglie gialle. (Lui le aveva trovate!)
Si vedeva da lontano quel bar, non sarebbe servita nemmeno l’insegna a indicarne la presenza, sul muro di cinta lungo il lato della strada.
Accanto alla panchina dove sedeva c’era un vecchio lampione. Sfidava i due fari all’imbocco del porto, con la sua luce calda e confortante quando arrivava la sera.
Ad un tratto sentì la voce della vecchina del formaggio, che era uscita di casa e stando nel suo cortile salutava i passanti. Agitava un fazzoletto e si faceva fotografare.
Era vestita di nero e salutava, un po’ seria, un po’ sorridente, ondeggiando nelle ciabatte padrona di quello spazio chiaro.
Eccola là anche oggi, pensò Costantino, qualcuno crederà che sia pazza!
Decise di alzarsi e di andare incontro alla sua dolce compagna.
Athina era contenta quando lo vedeva sbucare dal vialetto, che lei percorreva in senso opposto per andare da lui: gli ultimi metri tutti con il fiatone, un po’ per l’emozione e forse anche per l’età.
Bella giornata, sì, bella giornata. Ogni cosa al suo posto.
Sistemò meglio il suo cappello e si avviò.
Il fantasma della villa
Lui era lì. Lucia e Giovanni ne erano certi.
Quella presenza, in principio soltanto ipotizzata, si stava riproponendo troppe volte ancora, per essere soltanto frutto della loro fantasia.
Lui era lì. Silenzioso ed invisibile, tra palloncini colorati, burattini, disegni di bambini.
Lui era lì perché aveva sempre abitato in quel luogo, nelle stanze della villa circondata da un grande giardino, quando ancora tutt’intorno non si era formata la città.
L’antico borgo contadino, sarebbe diventato la “città della calzatura” molti anni più tardi, quando vicissitudini, guerre, movimenti di popolazione, naturali e non, avrebbero trasformato ogni cosa.
Tutto tranne la villa e il suo imponente giardino.
Lui era lì perché in quelle sale c’erano state le sue stanze: la camera da letto e la sala da pranzo, lo studio e, oltre le colonne di marmo, il salone delle feste, dove la sua famiglia da sempre organizzava i più sontuosi ricevimenti. Banchetti seguiti da danze memorabili, di cui si andava avanti a parlare per mesi!
Anche gli ospiti venuti da Milano ricordavano a lungo le feste a Villa Giacomini.
Una leggenda narrava che da numerose ville patrizie della zona partissero, dai rispettivi sotterranei, dei cunicoli percorribili a piedi che conducevano fino al grande castello. Forse anche lui, il fantasma della villa, li aveva conosciuti.
Lucia e Giovanni, impegnati in quei giorni nelle sale per via di una mostra d’arte, trovavano tracce ogni mattina del passaggio del fantasma: pannelli caduti, cavalletti resi instabili poiché nella notte qualcuno aveva, di nascosto, allentato le viti di sostegno… Chi poteva averlo fatto se non lui?
Un dispetto, uno scherzo, “una burla”, come avrebbe detto quello spirito allegro, sicuramente in vena di giocare con loro, i protagonisti della mostra, organizzatori e visitatori.
“Insomma, hai visto bene anche tu: quelle tele spostate stamattina, e il vasetto con i colori. Dai, dico sul serio Giovanni: io ho un po’ paura di questa presenza che, nel suo esserci e non esserci, mi inquieta. Cosa vuole da noi?”.
“In casi come questi cosa vuoi fare e cosa vuoi pensare: qui comanda lui perché è da sempre casa sua, Lucia. E poi in questo momento noi dobbiamo lavorare, mica possiamo andare per fantasmi”, aveva chiuso lì Giovanni, con l’amica preoccupata, spostando dei disegni sul tavolo grande.
Le luci erano basse in fondo al salone e cominciavano a disegnare delle ombre sui muri e sul pavimento di legno, unico dettaglio rifatto nei tempi moderni. La gente si era diradata perché a quell’ora del pomeriggio i visitatori erano sempre meno e quei pochi se ne andavano via presto, giusto un’occhiata e via. Rimanevano le sale, il silenzio, e un sacco di roba da riporre: tutto quello che non doveva rimanere esposto, come i colori per i laboratori dei bambini, ma sistemato in uno stipetto.
E poi c’era ancora lei, l’artista nella sala grande, che aveva preso da sola a disegnare una casa.
Tratto deciso e corposo, con una matita qualsiasi che per l’ennesima volta diventava uno strumento magico nelle sue mani, capace di dare forma a qualunque soggetto.
Marilisa una notte si era alzata e di getto aveva disegnato, sulla carta dei biscotti, il suo volto. Un autoritratto perfetto.
L’aveva sognato, visto passare nella sua mente all’improvviso, e aveva dovuto trasferirlo sulla carta, il primo pezzo di carta che le era capitato. (Menomale che la sera non riponeva mai in cucina i pacchetti dei biscotti, mangiati davanti alla tv).
Anche l’anziana pittrice a volte era strana: strana come le cose che raccontava, che ricordava, le passioni che aveva nutrito da giovane, e poi la sua arte immensa, dipinto dopo dipinto… fin da bambina. Ogni racconto dell’anziana pittrice, a ben pensarci, era come uno dei suoi quadri, e sembrava di finirci dentro, nell’assurdo e nello stravagante, in una miscellanea di parole e colori.
“Ragazzi belli, avete visto quanta gente oggi a visitare la mostra? Io sono proprio contenta, sapete. E poi forse non avete capito con chi stavo parlando poco fa: è venuto un giovane, così educato ed elegante. Lui ha detto che viene da quando abbiamo aperto, sempre verso sera… non me ne ero mai accorta, e voi?”
Lucia e Giovanni si guardarono di scatto: era lui, non poteva che essere lui, e che soltanto Marilisa capace di tali stranezze (o facoltà?) aveva visto, e il fantasma le aveva persino parlato.
“Ah, sì? Che bello Marilisa, e cosa ti ha detto questo giovane educato? Vuole acquistare uno dei tuoi quadri?”, chiese Giovanni, mentre Lucia si strinse istintivamente nella sua sciarpa bianca, come percorsa da un brivido freddo. “È lui, è lui… è qui!”, pensò.
“Mah, mi è sembrato incerto, ma di arte ne sa parecchio, anzi, mi ha detto delle cose a proposito di certi artisti della zona, vissuti nei secoli scorsi, che quasi quasi lui sembra aver conosciuto di persona. Si intende di arte e di storia quel ragazzo, ed è stato anche simpatico oltre che gentile nei modi”, spiegò Marilisa ai due, che avevano smesso di fare qualunque cosa, forse anche di respirare.
Giovanni guardò l’orologio alla parete: quasi le venti, era ora di chiudere e, soprattutto, di lasciare la villa e la mostra. Ne aveva avuto abbastanza.
Lucia raccolse le sue cose, la borsa, la giacca, e fu pronta in un attimo per andare a casa.
“Domani ragazzi prepariamo dei dolci perché vengono a farci visita i bambini di una scuola elementare… oh, ma guarda: eccolo là!…”, disse Marilisa all’improvviso, interrompendo il suo discorso.
“Quell’ombra… sul muro laggiù… guardate! Non lo vedete anche voi?”, disse la donna indicando un punto vago nel muro.
Lucia e Giovanni si voltarono ma non videro nulla, si presero per mano guadagnando l’uscita.
“Oh, peccato non c’è più. Un guizzo e mi sembra di aver visto l’immagine di quel giovane che vi dicevo, sul muro… ma adesso non lo vedo più”, spiegò ridendo soddisfatta Marilisa.
Chiuse la porta leggera, per non disturbare.
[continua]