SassieSesso

di

Michele Donadio


Michele Donadio - SassieSesso
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 88 - Euro 10,00
ISBN 9791259513175

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In copertina: «San Feliciano sul Trasimeno» fotografia dell’autore


“…non vi ho detto come si chiama il mio amico e neanche come mi chiamo io. Non ha importanza. Quella che sto raccontando è una storia come mille altre, potreste metterci il vostro di nome…”
È vero. Una storia non originale. Due amici, il primo sposato con figli vita regolare, si ingegna da tempo a far trovare all’altro, burbero ma sognatore, una fidanzata fissa. Uno di questi tentativi potrebbe andare finalmente a buon fine ma qualcosa va storto.
Colui che a volte è stato carnefice nei rapporti con l’altro sesso, inaspettatamente ne diviene vittima. Per raccontare questa esperienza il protagonista usa una lunga metafora tenendo in sospeso l’amico e il lettore.


SassieSesso


Perché amo gli animali?
Perché io sono uno di loro.
Perché io sono
la cifra indecifrabile dell’erba,
il panico del cervo che scappa,
sono il tuo oceano grande
e sono il più piccolo degli insetti.
E conosco tutte le tue creature:
sono perfette in questo amore
che corre sulla terra per arrivare a te.

Alda Merini


METAFORA

“Pensa ad uno stagno…” La sua voce era calma, e il tono riflessivo faceva pensare all’inizio di un discorso affatto breve.
“Scommetto che ti viene da pensare ad uno stagno grazioso, magari seminascosto da un canneto. Con le anatre che pedalano felici in capo alla loro scia e lasciano piccole onde che si rincorrono fino a spegnersi dolcemente. Oppure stai pensando ad uno stagno che quasi volesse sorprenderti, ti si presenta improvviso dopo un boschetto di campagna e lì in mezzo, un gruppo di ragazzi sguazza felice. Oppure un anziano pescatore che si gode più la pace del paesaggio che la speranza di catturare qualcosa. Forse stai pensando ad una coppia di fidanzati che si promettono eterno amore chiamando come testimone quello specchio romantico. Sono queste le immagini che ti vengono in mente, vero? A me, se qualcuno chiedesse di pensarci verrebbero in mente queste fotografie.”
Guardò fuori dalla finestra e prese fiato. “No, non pensare a quel genere di stagno.”
Fece una lunga pausa. Non sapevo se stesse riordinando le idee per proseguire il discorso oppure si aspettasse che dicessi quale diavolo di stagno avessi in mente. Se devo essere sincero non pensavo affatto a nessuna palude, ma piuttosto al fatto che non avevo avuto una buona idea a suonargli il campanello per scambiare due chiacchiere, ma era successo che avevo guadagnato una mezz’ora sul ruolino di marcia. Abito in un paesino di campagna, e poco prima di arrivare in città, il senso unico alternato che faceva impazzire i pendolari da quasi sei mesi, finalmente era stato tolto. I due semafori, quelli bassi con quattro ruote e un cordone ombelicale interminabile, erano stati rimossi e la nuova asfaltatura drenante faceva sfoggio di sé contenuta tra due marciapiedi nuovi, belli e molto alti. I pedoni sembrava che camminassero su una specie di piccolo viadotto sopraelevato e guardavano le auto che finalmente scorrevano fluide con una faccia soddisfatta che sembrava volesse dire ‘tanto qua sopra non mi prendi’. Non trovare più quei trespoli, quelle specie di semafori nati prematuri che regolavano l’ingresso in città, mi fece risparmiare almeno venti minuti. Tanto era il tempo che impiegavo a fare poco più di un chilometro. Odio il traffico e quello era un pessimo inizio di giornata. Alcune mattine mi prendeva proprio male soprattutto quando mi accorgevo di essere in ritardo. Ma se andassimo tutti a cavallo non sarebbe meglio? mi domandavo stupidamente, o forse no. E poi, asfalto drenante… ma cosa vuol dire? Se uno ci butta una secchiata d’acqua, questa passa di sotto come sulla spiaggia? Boh, però i marciapiedi erano belli davvero, devo ammetterlo. Comunque sia, quando vidi dopo la curva che il rettilineo era scorrevole fu una bella sorpresa. “La vita è fatta di piccole gioie…”, mi diceva spesso una specie di amica che ho frequentato per un po’ di tempo. E quella lo era: mi erano stati donati inaspettatamente venti minuti di tempo da impiegare in modo diverso dallo stare seduto a guardare la targa dell’auto davanti a me. Quando feci per parcheggiare l’auto in una piazzetta in cui si trova un Circolo dopolavoro e lo trovai “Chiuso per inventario”, mi rivolsi alla mia amica filosofa che certo non sentiva, “…sì, ma anche di piccole incazzature.”
Era un circolino di pensionati e non gli avresti dato due lire di credito ma aveva dei maritozzi alla panna fantastici. “Chiuso per inventario”, cosa c’era da inventariare dentro un circolo pensionati di non so cosa? E poi, da quando si fanno gli inventari il 17 aprile? Così quella mattina cominciò con una buona e una cattiva novità, fatto stava che mi ritrovavo con mezz’ora di tempo in più, grande cosa devo ammetterlo, ma senza maritozzo in pancia, così pensai di andare a salutare il mio amico. Non mi servirà la mia colazione preferita mi dissi, ma un caffè come minimo lo rimedio. Oltretutto il cliente con il quale avevo il primo e ultimo appuntamento della mattina, abitava da quelle parti.
Era quasi un anno che non ci vedevamo. Da quando lo avevo invitato per fare merenda col cocomero fresco a casa mia. C’era anche una mia amica che gli avevo fatto conoscere da poco. Sola come lui, un lustro abbondante più giovane, gran bella ragazza. Se è lecito chiamare ragazza una donna che ha trentasette anni.
Che buffo, quando avevo vent’anni lavoravo in un deposito di un grande negozio e c’era il magazziniere, sulla quarantina portati maluccio, che chiamava ragazzi tutti quelli della sua età. Mi suonava strano e mi veniva da sorridere. Un lunedì mattina feci una gaffe: “Ieri sono stato a pescare le trote in un torrente”, mi disse con entusiasmo, “ero con un gruppo di ragazzi che ci vanno spesso e mi hanno portato con loro, mi sono divertito un sacco.”
“Senti senti…”, considerai spontaneamente, “…e così frequenti persone più giovani di te…”
“No, macché più giovani. Hanno tutti più o meno la mia età; anzi, proprio ieri era il compleanno di uno di loro che festeggiava quarantasei anni. Siamo andati a pescare tutti insieme proprio per festeggiarlo.”
Alla faccia… Pensai dentro me, chiamali ragazzi. Già, come cambiano le cose, e soprattutto come cambiamo noi con il passare degli anni.
Adesso anche a me è venuto spontaneo chiamare ragazza quella tipa che avevo invitato per mangiare cocomero il pomeriggio di Ferragosto. Si erano già incontrati da me e avevo l’impressione che si piacessero l’una con l’altro.
Eravamo buoni amici, anzi, ottimi. Questo ci permetteva di piombare senza preavviso l’uno a casa dell’altro. Come quella volta che scampanellai a lungo prima di farmi aprire. Sapevo che stava dormendo perché aveva le persiane tirate giù, ma avevo bisogno di andare in bagno e passando vicino alla sua abitazione mi sembrò normale usufruire dei suoi servizi anziché fermarmi al bar di fronte.
“Ciccio, mi hai rotto i coglioni, stavo dormendo”, mi disse con voce neutra per niente arrabbiato, giusto per informarmi. Mi giustificai quasi risentito “Ho bisogno del bagno, che ci posso fare.” Mentre apriva le persiane ribadii: “Ciccio, se mi scappa, non è mica colpa mia.”
Ogni tanto ci chiamavamo “Ciccio”, un po’ per affetto e soprattutto quando a uno dei due non gli tornava una cosa e voleva informare l’altro del suo disappunto. Così quel “Ciccio”, era quasi a voler dire, “non ti offendere ma sto per dirti qualcosa che potrebbe contrariarti”, oppure, “no, non la penso affatto come te.”
Quando ebbi finito, il caffè stava salendo. “Lo prendi vero?” mi chiese mettendo sul tavolo due tazzine.
“No grazie sono di fretta.”
Cercò allora di mettermi a disagio ben sapendo che non ci sarebbe riuscito. “Come ai bagni pubblici della stazione insomma. Anzi no, almeno lì avrei guadagnato cinquanta centesimi.”
“Non la conosco la tariffa del bagno della stazione comunque mi fido” dissi infilandomi la giacca. “Ciccio, vorrà dire che avanzi cinquanta centesimi.”
Già da questo episodio si può capire il tipo di rapporto che avevamo. Una profonda amicizia che ci permetteva di fare qualsiasi cosa, anche al limite della cafoneria, con l’accordo tacito di dire sempre le cose come stanno e cercare di non prendersela mai. Questo tanto per le cose frivole, quanto per le cose serie.
Quando mi ero fermato da lui quella mattina di una svogliata primavera non immaginavo che sarebbe stato il turno della cosa seria, per di più con metafora. Dovete sapere che quando attraversava periodi in cui la luna girava in un certo modo, gli piaceva parlare facendo dei paragoni. Se ti doveva raccontare un fatto che gli era successo, iniziava portandoti fuori strada e te ne raccontava un altro che apparentemente non c’entrava niente. Ma non solo per le cose serie.
Secondo me poi aveva una naturale predisposizione alla poesia. Era però inutile provare a farglielo ammettere. Una volta gli dissi: “Dovresti scrivere poesie. Pensi mai a questa possibilità?”
“Tutti i giorni”, rispose.
Se non lo avessi conosciuto bene avrei dovuto pensare che era sincero e che davvero stava pensando la stessa cosa. La sua risposta era stata infatti istantanea, naturale, con una faccia che sembrava dire “Come no. Ma lo sai che ci penso spesso anch’io, quasi quasi comincio oggi.”
Invece no. La sua risposta aveva reso ridicola la mia domanda e al tempo stesso si era schernito quasi volesse dire “Io poeta? Ma fammi il piacere…”
In fondo se uno ti dice che per lui potresti fare il poeta è un complimento, no? Il fatto è proprio questo. Sembrava che i complimenti lo mettessero a disagio e non vedeva l’ora di cambiare discorso. Ben diverso era quando uno gli faceva notare un suo difetto. “Ciccio, certo che a volte sei proprio scorbutico”, gli dissi una volta non mi ricordo per quale motivo.
“Ci puoi giurare”, mi rispose con un’inspiegabile fierezza. Era fatto così.
Eh si, era davvero geniale quando faceva un paragone. Quando sbocciava la metafora non tutti erano in grado di capire subito dove voleva andare a parare. Anzi nessuno era in grado, a volte io, ma non sempre. Secondo me avevo ragione. Era una sorta di ispirazione poetica. Quasi come una fioritura. Avete presente quei documentari che ti fanno vedere in sequenza delle foto scattate ad intervalli di tempo? Per esempio di una rosa che sboccia? Iniziano con un bocciolo tutto verde che non ti dice granché e piano piano si apre fino a diventare una rosa talmente perfetta da chiederti come diavolo ha fatto a diventare così bella.
No, non immaginavo che sarebbe stata una cosa lunga. Non che avessi fretta come quella volta del bisognino, ma nemmeno mi aspettavo che sarei dovuto stare un bel po’ ad ascoltarlo.
Era chiaro. Lo stagno era l’inizio della metafora. Mi voleva raccontare qualcosa di importante. Che fosse importante lo si capiva dalla voce: era diversa da quando parlava di un fatto divertente. Una volta, eravamo a cena fuori con altri amici, cinque o sei ragazzi davanti ad un fiasco di vino che mangiano allegri. Poche serate sono migliori di queste. Ci stavamo raccontando i fatti più singolari capitati nelle nostre vite in fatto di donne. Si sa come sono gli uomini quando parlano tra loro. Gli piace vantarsi delle loro prede, far credere agli altri di essere conquistatori irresistibili. Quanto poi siano attendibili le loro storie incoraggiate da qualche bicchiere di Chianti, non è dato sapere. Che importa. Come dice Renato in una sua canzone è meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani. In fondo stavamo passando una bella serata, ridendo e commentando le storie più o meno probabili di ognuno di noi.
Quando fu il suo turno esordì così: “Un mio amico che faceva il direttore di banca, una volta a settimana riceveva la visita di un immigrato senza lavoro e senza fissa dimora.” Si fermò noncurante degli sguardi perplessi degli altri. Compiaciuto non si sa di cosa, si versò un dito di vino nel suo bicchiere, lo bevve d’un fiato e proseguì: “Questo povero cristo vestito con abiti di seconda mano, ma soprattutto con una bella faccia tosta, gli chiedeva con insistenza un prestito di diecimila euro per aprirsi non so quale attività…”
Immaginavo cosa potessero pensare gli altri amici mentre stava raccontando questa storia. Sono sicuro che non avessero capito che anche lui stava parlando di una sua avventura. Alla sua maniera. Non potevano averlo capito, impossibile. Io ne ero certo, ma riusciva davvero difficile anche a me immaginare come potesse arrivare a raccontare la sua ultima scopata partendo da un direttore di banca e un immigrato senza lavoro. Non crediate che lo facesse apposta per stupire o per attirare l’attenzione. Per lui era normale. Per fare capire meglio, raccontava un’altra storia che secondo lui aveva delle analogie, almeno questa era la sua intenzione. Secondo me ci riusciva. Ciò non toglie che in quel momento tutti quelli che lo stavano ascoltando stessero pensando: “È ubriaco o forse non ha capito di cosa abbiamo parlato nell’ultima mezz’ora?”
Proseguì con naturalezza: “Il mio amico, fin troppo gentilmente, tutte le volte spiegava a questo tizio che la banca non poteva erogare prestiti a persone che non percepivano alcun tipo di retribuzione, per di più senza una residenza di riferimento. E il tipo invece di accettare le spiegazioni fin troppo ovvie, si indispettiva e faceva l’offeso. ‘Tu non dare soldi me perché io venire Africa. Io onesto, tu razzista.’ ‘Ma no, cosa c’entra il razzismo… si tratta di garanzie, guardi, mi dispiace davvero ma non posso soddisfare la sua richiesta.’ Tutte le volte questa storia, il testardo si presentava in banca per chiedere il prestito e il mio amico con infinita pazienza lo respingeva. ‘Io bisogno di soldi, tu non dare me perché io Africa, tu razzista.’ ‘Ma no, non dica così per piacere, davvero non è possibile…’.”
I componenti della tavola lo guardavano con attenzione mentre parlava. Più meravigliati che interessati a quanto stava raccontando. Cosa diavolo c’entrava tutto questo con le donne. Infatti uno di loro un po’ per provocarlo, un po’ per ricordargli l’oggetto della discussione se ne uscì con: “E mentre discutevano sei entrato tu ed hai copulato col marocchino dietro la scrivania del tuo amico che faceva finta di niente, è così?”
Tutti scoppiammo a ridere, anche lui. “Non avere fretta, ora ci arrivo…” disse col sorriso sulle labbra. “Fatemi proseguire. Alla quinta visita del tipo, il mio amico sapete cosa gli disse? ‘Caro Africa, per me l’affare è chiuso. Mi hai convinto! Io non dare prestito perché essere molto razzista. Ora tu uscire dai coglioni e io non vedere più tua faccia’.”
Ridemmo ancora di gusto, felici della bella serata. Se volevamo sapere della sua ultima volta che aveva fatto all’amore, eravamo però ancora in alto mare.
“Scusate ragazzi se ho divagato con questa storia…”
Meno male, pensammo tutti noi nelle nostre teste… Almeno si è reso conto che la storia dell’africano squattrinato, per quanto buffa, non c’entra niente con i nostri racconti.
“Ma è più o meno quello che è successo anche a me. Qualche annetto fa quando ancora lavoravo alle Poste, una collega di lavoro, nevrotica e maligna, da mesi spargeva la voce che tra me e un’altra collega c’era una tresca. Un pettegolezzo infondato che venne alle mie orecchie e di quelle della mia presunta amante, una bella cavalla tra l’altro. All’inizio non ci facemmo caso ed eravamo pure divertiti, ci scherzavamo su. Poi alcuni colleghi iniziarono a scrutarci attentamente quando parlavamo casualmente insieme, oppure sgomitavano tra loro ammiccando verso di noi. Alcuni ci tolsero il saluto, altri quando mi incrociavano mi sorridevano furbi come per dire ‘Tanto lo so che te la trombi’ Insomma cari ragazzi alla fine sapete cosa è successo? Mentre prendevo il caffè alla macchinetta insieme a lei, passa accanto a noi la pettegola frustrata che aveva messo il tarlo dentro i colleghi e ci dice in modo davvero idiota ‘Ma che bella coppietta…’ Io sorrido alla cavalla che mi sta guardando incredula e le dico: ‘Per me l’affare è chiuso, mi hanno convinto. Vieni stasera da me e facciamo in modo che questa idiota abbia ragione’. Mi morsi la lingua ma ormai l’avevo detto. Fui piacevolmente sorpreso quando mi sentii rispondere: ‘Hanno convinto anche me. Chiudiamo questo affare e non se ne parla più’.”
Ci guardò soddisfatto poi, per essere sicuro che avessimo colto l’analogia delle due situazioni, proseguì: “Questo per dire che sia l’africano disoccupato sia la maligna nevrotica, adducevano argomentazioni infondate che da ultimo, per sfinimento, avevano convinto sia il direttore di banca che noi presunti amanti.”
“Ma insomma te la sei scopata o no?” Chiedemmo quasi in coro.
“Positivo. Venne da me quella sera stessa. In un paio d’ore mettemmo in regola la nostra posizione. Fu una bella serata. La mattina dopo quando incrociai la pettegola le sorrisi ringraziandola con un cenno della testa.”
Che volete farci, era fatto così. Non vi ho detto come si chiama il mio amico e neanche come mi chiamo io. Non ha importanza. Quella che sto raccontando è una storia come mille altre, potreste metterci il vostro di nome.

[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it