Letteratura sudamericana:
Miguel Angel Asturias – Il poeta maya guatemalteco
Quando nel 1967 Miguel Angel Asturias, all’età di sessantotto anni, ricevette il premio Nobel per la letteratura, esprimendo la ricchezza fantastica e immaginativa della sua opera, disse: «Non chiedetemi genealogie, scuole, trattati. Verificatele. Sono singolari. Singolare è il loro movimento, il dialogo, l’intrigo romanzesco. Più singolare è che attraverso le età non si è interrotta la loro creazione costante».
Le radici di tutta la poetica di Asturias traggono origine dalla civiltà precolombiana, un mondo mitico e colmo di archetipi universali che fino ad allora non era ancora entrato pienamente nel panorama letterario internazionale. L’opera di Asturias, poeta segnato da sofferenze, impegno sociale, viaggi convulsi, esilio, lotta contro la dittatura, rivela finalmente al mondo un patrimonio culturale sconosciuto, che troverà in seguito nel filone del romanzo ispano-americano tutta la sua fantasmagorica profondità. Ed è una profondità mai espressa, ma intuita magicamente attraverso le leggende, i miti e il surrealismo tanto caro ai sudamericani, sempre in bilico tra terra e cielo, sempre attenti alle voci del soprannaturale, sempre immersi in un mondo animistico, costantemente attratti dai simboli e dai loro significati esistenziali. Asturias, molto modestamente, attribuì il Nobel alla cultura maya, che lui aveva semplicemente descritto, ed essendo mezzo indio da parte di madre, ribadiva che quel che l’aveva spinto a creare, era proprio quell’atavico amore per la sua terra che il suo stesso sangue gli imponeva. Era nato nel 1899 proprio nella città di Guatemala, da genitori intellettuali, il padre era avvocato, la madre insegnante. La dittatura di Cabrera, (che trovò poi eco nel suo romanzo dell’esilio, El presidente, costrinse i suoi a rifugiarsi a Salamà, poiché erano palesemente dissidenti e perseguitati dal regime. Già in questo primo evento della vita di Asturias, troviamo i segni premonitori di tutta una vita di lotta contro i tiranni, una vita che proclama la libertà in un Sudamerica che è fatalmente piagato dalle dittature, e che assiste periodicamente agli espropri, alle violenze, alle repressioni, e agli omicidi occultati da una feroce burocrazia della morte. L’infanzia di Miguel Angel non è facile, la miseria e il disagio di questa zona desertica costituiscono le prove quotidiane della sua famiglia. Ma in questa terra così arida egli entra in contatto con i colori, i sapori, i miti, le tradizioni e i costumi della società rurale, e questo imprinting infantile resterà indelebilmente impresso nella sua anima e nel suo universo poetico. Da esso attingerà linfa creativa per tutta la vita. Le sue opere saranno impregnate di questo assolato e irresistibile linguaggio scolpito nel suo inconscio, e al tempo stesso il contatto con la povertà e le precarie condizioni di vita della popolazione decideranno il suo impegno umano e civile. Nel 1920, il dittatore Cabrera cade, e Asturias, di ritorno dal Messico, visita le province maya, e raccoglie dati per la sua tesi universitaria sugli indios. Comincia la sua lotta contro l’analfabetismo, fonda una scuola frequentata da indigeni che è però costantemente osteggiata dal nuovo regime militare. È costretto a riparare prima a Londra, che lo delude, e poi a Parigi, dove trova una seconda patria tra gli scrittori surrealisti e simbolisti di quel periodo. Ma l’amore per la sua gente è come fortificato da questo volontario esilio, e ne troviamo eco nella poesia Gli indios scendono da Mixco:
Gli indios scendono da Mixco,
carichi di azzurro oscuro
e la città li riceve
con le strade spaventate
da un mazzo di luci
che come stelle si spengono
appena giunge il mattino.
Un rumore di cuori lasciano
le loro mani che remano
come due rami al vento;
dei loro piedi rimangono,
come tele sottili, le orme
nella polvere della strada.
Le stelle che si affacciano
su Mixco, a Mixco rimangono,
perché gli indios le colgono
per canestri che empiono
di galline e corone
bianche di izote dorato.
È più silenziosa la vita
degli indios che la nostra,
e quando scendono a Mixco
si ode solo l’ansimare,
sibilo, a volte, sulle loro labbra
come un serpente d’argento.
A Parigi traduce la bibbia dei maya, il Popol Vuh, e conosce Picasso, Braque, Utrillo, Cocteau, Pirandello, Mann, Joyce. Nella solitudine interiore di Asturias si produce una catarsi, nella quale c‘è un processo di ripensamento del mondo indio-spagnolo, e la cultura europea non lo conquista del tutto, perché manca del selvaggio splendore del Guatemala, della sua animale e totemica saggezza, dell’incancellabile contatto con gli dèi azzurri bonari e terribili delle sue tradizioni, dell’effervescenza di spirito di questo popolo dei deserti, delle foreste e dei vulcani. Nel ’33 torna in patria, ma lascia il suo romanzo El presidente all’amico francese Georges Pillement, e ne spedisce una copia in Messico, dove il libro apparirà solo nel ’45, quando il Guatemala si libererà del dittatore Ubico. Per vivere, lavora come giornalista, fino al successo incredibile del suo libro, che entusiasmerà il premio Nobel Gabriela Mistral, poetessa e scrittrice cilena. Di nuovo in esilio volontario a Buenos Aires Miguel Angel finalmente può occuparsi del suo primo amore, la poesia. Escono Sien de alondra, ( Tempio di allodola ), un vero e proprio viaggio dell’anima attraverso i paesi visitati, e Marimba suonata da indios, rappresentazione del mondo indio di eccezionale vigore verbale, che ritroviamo in Saggezza indigena:
T’hanno trovato dietro la tua ombra,
il sole del tramonto alle tue spalle,
per questo fu possibile la tua sconfitta.
Se il sole è sul tuo petto,
piedi e testa dorati,
gli uomini non ti vincono,
gli dèi né gli elementi.
Caduto, ormai, guardi senz’occhi,
odi senza orecchie, senti senza tatto,
parli senza lingua,
condannato al silenzio,
senz’altro grido che il sangue nelle ferite.
Quali erbe sostengono così dal profondo
il tuo respiro di tino e d’acqua dolce?
Estrai il tuo mattino dalla cenere
e lo rivolti tra penne
d’uccelli gelidi che gorgheggiano
in attesa che tu rida. Non la smorfia. Il riso.
L’ahimè perduto riso dei tuoi bei denti.
Il sole tornerà alla tua gola,
alla tua fronte, al tuo petto,
prima che annotti definitivamente
sulla tua razza, sui tuoi villaggi,
e che umani saranno il grido, il salto,
il sogno, l’amore, la fame.
Oggi tu e domani
un altro come te continuerà ad attendere.
Non v‘è fretta né bisogno.
Gli uomini non finiscono.
Qui era una valle, ora si leva un monte.
Là era un monte, ora c‘è un abisso.
Il mare pietrificato si trasformò in montagna
e i lampi si cristallizzarono in laghi.
Sopravvivere a tutti i mutamenti è il tuo destino.
Non v‘è fretta né bisogno. Gli uomini non finiscono.
Asturias con le opere del “ciclo bananero”, inaugura la sua lotta contro lo sfruttamento iniquo del Guatemala da parte della United Fruit Company, un potentissimo trust nordamericano che traeva immensi profitti dallo sfruttamento degli indigeni e dei rurali, politica sempre favorita dai vari dittatori che si succedevano nel paese. È il momento dell’urlo umano e corale del popolo guatemalteco, con le sue fatiche e la sua fame, vittima dell’ingiustizia più subdola e reiterata. Nel ’54, il Guatemala subisce la nuova feroce dittatura di Castillo Armas, che priva Asturias della cittadinanza guatemalteca: è di nuovo l’esilio a Buenos Aires. Qui scrive Week-end en Guatemala, nel quale, in un furore vorticoso di sdegno, di velenose passioni e di rabbia cocente, descrive la brutale violenza degli eventi e delle sciagure di un popolo oppresso. Sembra quasi che in esilio nasca un sentimento nuovo in lui, più intenso e violento, nato da quel suo struggersi per la terra amata e le sue suggestioni favolose di remote età dell’oro.
Asturias trova rifugio a Genova, negli anni più duri, e qui si rasserena e fonda un centro per esuli sudamericani. Qui scrive il poema Parla il gran lengua e il volume di poesie Clarivigilia Primaveral. In queste poesie Miguel getta la prodigiosa e sorprendente fantasia di un lessico ricchissimo, con un’evocazione della sua cultura ritmata da un linguaggio simbolistico e metaforico. Il Nobel del ’67 non fu certamente una meta per Asturias, che continuò fino alla morte a prodigarsi in un impegno sociale civile e umanitario davvero vorticoso. Asturias riuscì con le sue liriche appassionate e i suoi romanzi vulcanici a portare un particolare volto dell’America Latina a una dimensione universale e assoluta. Le sue opere, a volte picaresche, entrano nel mito e nel mistero dei secoli, una dimensione magica e sciamanica nella quale persino il mondo vegetale ha una sua anima e una voce. E con coraggio affronta il nero della vita narrando anche di mondi corrotti dal potere, descrivendo spie, delatori, feroci aguzzini, l’idiozia della ferocia senza veli. Ma in tutta questa efferata violenza, in lui canta sempre la voce argentina dell’indio delle foreste, erede saggio, solo e infelice della favolosa civiltà maya, l’urlo dell’uomo vero che vince con lo splendore della sua parola ogni tristezza e ogni orrore. La grandezza di Asturias sta nel tramutare alchemicamente la schiavitù e l’ingiustizia in una orgogliosa e affascinata fede nei mondi primitivi, e la sua ardita e universale speranza di esule, sta tutta nel disperato amore per la sua terra: il Guatemala.
...Noi che viviamo ancora sulla terra
ci rivolgiamo a quelli che stanno sotto terra,
vicino alle radici degli alberi,
tra essi, con essi,
formando parte di essi,
vegetali che vedono, sentono, odono,
e che chiamiamo morti perché così li chiamano.
Noi che abbiamo sangue che cammina
e respiro che vola, e pensiero,
il pensiero è il respiro di Dio,
ci rivolgiamo a quelli che non hanno più sangue,
né respiro, né pensiero,
né linfa irrequieta vicino alle gioie dell’umidità,
perché fanno ormai parte del terreno petroso,
metallizzati fino alle ossa del cranio,
la cui chioma diedero per la guerra
per il cuoio capelluto della guerra,
nei terreni oleosi d’oro nero,
oro vestito a lutto per la guerra…
Alessandra Crabbia