Alla mia famiglia
FAMIGLIA
Fratelli eravamo
tra note d’una riva.
E i profili bevevano la luna
e le stagioni suggevano i respiri.
Proruppe il canto…
proruppe come un pianto
cesellato
nei cortili d’una finestra estiva…
Cantavo per risorgere
da zolle…
e là, oltre quel muro,
fremeva anche il pianto delle stelle…
E questo canto pioveva
anche sui marmi,
su lucciole di siepi mie notturne…
scavava gli abissi di memoria,
giungeva al dolore dei virgulti…
e poi spariva dove lo sguardo tace…
Resta il calore
del grano tuo spezzato,
alba predetta, sul cuore dei fratelli…
“Non so quale fiume, quale anima convogli il dolore dell’uomo…
Ma spero che esso ci sospinga verso l’unica meta che accoglie e giustifica: Dio”.
LA SCRIVANIA
C’è una strana affinità fra il lume con lo stelo di vetro smerigliato e il fermacarte ovale, per caso vicini sulla scrivania. Hanno in comune la trasparenza del vetro, e due colori che, insieme, trasmettono la verità della natura: il verde e il dorato.
L’uno riflette l’altro, e il loro accostamento è diventato, per me, familiare e rassicurante.
Pensare alla casualità con la quale si sono ritrovati vicini, dopo vicissitudini che li hanno visti allontanarsi e ricongiungersi nel mio capriccio di connubi fantasiosi.
Spesso mi tuffo nella loro trasparenza, e ne traggo serenità e commozione; vorrei che altri la scoprissero, prima che io gliela faccia notare… Condividendola, sento che dileguerebbe parte della mia solitudine.
IL LAMPADARIO
La porta della cucina è socchiusa; vorrei spalancarla con la forza del pensiero… anche se questa sua indecisione, in fondo, mi piace.
È come un chiaroscuro da cui, con un po’ di buona volontà, si possono dedurre fantasie positive.
Intravedo il ferro dorato del lampadario indiano, da cui dei piccoli fiori di loto lasciano cadere capricciosi cosmi di cristallo: i miei amori giornalieri, dove l’arcobaleno sembra essersi rifugiato per vivere accanto a chi lo ama.
Dal punto in cui sono, non riesco a percepire altro, della mia casa; ma è bene così: che ogni cosa rimanga in attesa di me; di essere riscoperta forse in una nuova armonia, in un riflesso diverso e vincente, nella stagione reale, anche se non è sempre quella che più desideriamo.
IL FIORE
Per quanto lo abbia spolverato spesso, sistemandolo secondo un preciso intendimento, il fiore di vetro, nel vasetto, si riconcilia sempre con il muro, volgendo verso di esso la propria importanza.
È testardo nel proiettare la sua ombra delicata, d’un grigio angelico, sul pallido celeste del muro che mi affianca.
Mi chiedo se la sua sia timidezza, o desiderio di trovare compagnia, pur nella sua stessa ombra… L’anforetta è paziente, accompagna il suo fluire e sostiene con delicata forza la fragilità dello stelo.
C’è tra di essi una profonda comprensione, che mi rende estranea…
Forse, un giorno, riuscirò a capire meglio…
PALPEBRE
Quello che più riusciva ad intenerirmi, di mia madre, mentre ne osservavo il profilo, erano le sue palpebre.
Attraverso gli anni, erano divenute più trasparenti, e le ciglia le si erano un po’ diradate; ma null’altro toglieva la bellezza innata che scaturiva dai raggi delle pupille, fragilmente racchiuse nelle sponde minute
Erano palpebre la cui mansuetudine proiettava le essenze interiori, in riflessi profumati di onestà, e rispetto, che io coglievo, malgrado il loro insistente riserbo.
Mi chiedo se lei percepisse la mia attenzione; talvolta, il suo sguardo si posava su di me, in un moto d’impercettibile domanda… poi, il suo viso sorrideva.
Dalle sue palpebre, involontarie maestre, ho imparato la saggezza; l’intelligenza di un giudizio rivolto innanzitutto a se stessa; la volontà di segregare il proprio spessore umano, spinta da un’assoluta mancanza di vanità, ed ambizione.
Mi hanno insegnato tanto, le palpebre di mia madre; soprattutto ad amarla, molto di più.
IL RAGNO
Quel diafano groviglio di leggeri filamenti, che era stato un ragno, cadde dal muro sul quale io, con un colpo di pantofola, ne avevo fermato la rapida corsetta, cadde dal muro, proprio il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
Era rimasto fissato alla parete per mesi, senza che io trovassi il coraggio di scaraventarne via l’oramai carcassa. Proprio sul muro rasente lo specchio, quella zazzeretta grigia e inerte, ogni giorno attirava la mia attenzione, mentre mi pettinavo. Era diventato, nella sua immobilità, una presenza abituale, come il vaso o il centrino o il pomello dell’armadio. Ero sicura che in casa nessun altro se ne fosse accorto… né io avevo l’intenzione di manifestarne la piccola, oramai per me innocua, presenza.
Mi rappresentava due poli opposti di traguardi: nel primo, c’era la catarsi di una perenne aracnofobia; nel secondo, esplodeva il rammarico per la mia estrema viltà, nell’aver spento qualcosa che era stata una meraviglia della natura.
Cadde, come ho detto, proprio il giorno del mio diciassettesimo compleanno, mentre, per l’ennesima volta, ne fissavo il groviglio: seguendone la caduta, leggera come un piccolo volo, sentii scoppiare negli occhi e nel petto, lampi roventi di meraviglia, che mi tolsero il respiro.
Mi sorse un dubbio: volle farmi un regalo, o vendicarsi?
Ancora non lo so.
Ah, dimenticavo: quel muro aveva il colore violetto, il mio preferito.
[continua]