Musis
O mia Euterpe, un pianto nobile
l’occhio riversa sul volto e lacrime
di mite mestizia il canto
tuo muta in inni di gioia.
Il cielo estivo, cobalto e immobile,
ascolta il suon dell’aulo d’ebano,
e osserva la stola celeste
che riveste le membra divine.
Fotografie recise e dannati
peccati cela la tua musica,
o Musa. Rinasco e vivo
nella terra serena, nel fiore
appena nato, nel biondo brivido
di fuoco ardente e il pallido
riflesso di angosce passate
abbandono alla furia del tempo.
Splende ora il sole sulla vereconda
gota immortale, sull’ode lirica
che il carro d’Apollo t’ispira,
colorando d’azzurro l’immenso.
Tra i vermigli prati dimentichi
le altre sorelle e ami correggere
i miei imperfetti vagiti
di poeta studente. Sospiro
e di colpo mi coglie un fremito:
le labbra rosse tremano e pregano
perché questo nostro favellar
non m’illuda e non possa finire.
Muore codesta estate e un gelido
spettro congela la mia labile
speranza e dal foglio alzo il capo,
invocando a gran voce “Euterpe!”
Disagio
Dentro di me ricordi impagliati
di vanesie promesse convivono
in te. La luna latra il dolore
sordo e malato del crudo addio,
la pioggia batte sulle ossa di latta
e segna il tempo in questo deserto
di plastica e cemento. Il fetore
dell’orrore, senza ombra né colore,
ottunde la fragranza imperfetta
e la falsa innocenza dell’errore.
Nell’abbraccio tra il cielo e il mare,
fragile e sola vaga nell’ignoto
la sillaba centrale di essere,
tra bozze di destini incompiuti
e scarabocchi di giorni incompleti.
Parole di ghiaccio
Sentimento di ghiaccio il tradimento
che spalanca la porta dell’Averno,
e piove sangue e fango all’interno
dal cupo nembostrato del tormento.
Grida nel buio il gelido inverno,
che lento brucia dentro il lamento
dell’eterno perduto in un momento,
come brucia l’abisso dell’Inferno.
Ansima l’anima sotto il cielo
spento e della tua banalità
lo sguardo estinto ti spoglia. Il gelo
mi rende fragile nella viltà,
terra d’infamia in cui tu m’invii,
per celare la tua infedeltà.
Male d’amore
Malattia infetta,
piaga che l’animo deforma, vana
illusione di eterno edonismo,
belva affamata di ragione, chiodi
che inchiodano alla croce. Testimoni
ne ho visti morire molti, fieri
a testa alta o gridando di paura.
Pianto notturno
Rugiada e pianto
del mesto figlio,
pregando scalda
l’ultimo giaciglio.
Madre magistra
d’un bimbo maturo
che solo ora procede
verso il futuro.
Fragile foglia
nel freddo inverno
lenta cadesti
verso l’eterno.
Un pallido sussurro,
un grido di dolore.
“Non arrenderti mamma,
mio primo amore!”.
Il canto del cigno,
la stretta della mano
“Lassù vedrò” mi dissi
“quanto andrai lontano”.
Ma stasera so darti
solo un cuore che duole
e umili versi
di tristi parole.
Nella pineta
Di notte la pineta ha un odore
mielato di corteccia e di pino,
di resina e di mirto divino.
S’ode il canto del semplice pastore
e delle ninfe del mito latino.
Vedo Vesta che scaglia una freccia.
Discende il Sonno e sorge la luna,
regina infelice come nessuna.
Sogni
Rose recise dai raggi del sole
sono i pensieri segreti dei sogni,
paradossi onirici, lontani
dal torpore di logiche avverse.
Sacri tabù e carnali richiami,
deformità di deliri urbani,
fasci fatali di poveri versi,
miseria sorda bisognosa di arte,
campi innevati di mille tramonti,
campi dipinti con mille colori.
Il sonno scorre e avanzar gli piace
tra le silenti pagine romanze,
vite immobili e senza pace,
ma sempre ricche di verdi speranze.
Dioniso
Il sangue innocente di un vitello
fanciullo irrompe nella tetra lotta,
offerto come vino che disperde
l’angoscia infetta
e infradicia di rosso il vestito.
Sacrilega la colpa da espiare:
vissi e amai senza alcuna misura
(mai più, ti prego!)
Il folle vello d’Amore il volto
suo occultò, nascondendo l’inganno
con parca illusione. Mutò il sogno
in cupo orrore.
Figlio di Sèmele tebana, vesto
il tirso di miele e d’incenso
e di canti di flauti e tamburi.
“Abbi pietà di me!”
Per te ho solo parole umane,
per te che schiudi dal cielo il cammino
di pagana speranza. O Dioniso,
in te rinasco!
Lode alla vite
O eterea fronda di fresca vite,
abbracci forte con l’esile ramo
i cari figli, il frutto che bramo
e che dà forza alle vite ardite.
Dal graspo agli acini tutta t’invoco,
tu mi trasformi e in cielo mi guidi,
ma taccio qui in versi quel ch’io vidi:
non posso dir tutto in così poco.
T’ho dolcemente gustata e lodata,
ma come di Salvezza ancor m’assale
un desiderio nuovo e sempiterno.
Dal calice la linfa adorata
bevvi e rinacqui come uva mortale,
che si converte nel vino eterno.
[continua]