Premessa
Questa storia è stata elaborata nei momenti più tristi della giovane autrice, nella speranza di sentirsi meglio usando la scrittura come terapia.
“Utilizzare la scrittura come arma per stare meglio è l’unica soluzione che ho trovato per curare i miei mali.
Sono fiduciosa e convinta che la mia storia aiuterà tanti giovani che hanno vissuto situazioni simili a non sentirsi soli e incompresi come mi sono sentita io.
Sono altrettanto convinta che la mia vita possa far apprezzare le piccole cose anche a coloro che danno per scontato ciò che hanno.
Nonostante io abbia solamente 22 anni ho superato già tanti ostacoli e sono pronta a superarne altri.
L’importante è non arrendersi di fronte alle difficoltà.”
Anche oggi, mercoledì 5 dicembre 2018, mi sono svegliata triste, piena di insicurezze e paure.
Oggi è un altro giorno “no”, quindi dico basta e scrivo.
Scrivo per liberarmi del caos che ho dentro di me, voglio stare bene!
Scrivere mi aiuterà?
Prologo
Mi presento, mi chiamo Nadia Belen Bordagaray e la mia storia inizia il 26 gennaio 1999.
Il mio nome significa speranza, già, e la speranza è l’ultima a morire giusto? Forse è proprio questa speranza che mi illude e mi fa “sperare” che ci sia ancora del bello per cui lottare.
Mi è difficile descrivermi, a volte non mi sopporto nemmeno io, spesso vorrei essere qualcun altro.
Non vi è mai successo di voler nascere nei panni di qualcun altro o di voler cambiare vita? Anche solo per un’ora, per sperimentare ciò che si prova quando tutto va bene.
Molti mi considerano una persona dura, tosta, forte, antipatica e spesso stronza. In realtà mi piace che pensino questo di me, forse è uno scudo che uso inconsciamente per proteggermi dalle persone, probabilmente perché non voglio essere ferita o perché penso che nessuno riuscirebbe a capirmi. In realtà non sono forte, anzi sono una “caga-sotto” che ha paura del mondo. Penso di essere dolce e amo gli abbracci, quelli forti che ti scaldano il cuore, ma per me gli abbracci devono essere anche veri, per questo abbraccio poco e solo chi decido io.
Sono nata nella città di Salto, in Uruguay. Penso che già sappiate dove si trova questa nazione, ma permettetemi di descrivervela.
L’Uruguay è una piccola nazione situata sulla costa est del sud America, confinante con Brasile e Argentina. Abitato originariamente da tribù indigene prevalentemente nomadi, negli anni i flussi migratori, provenienti dai due Paesi confinanti e dall’oceano Atlantico, hanno costruito una variegata cultura. Nonostante io abbia lasciato fin da piccola la mia patria mi identifico sempre in lei e nei miei compaesani.
I valori, la solidarietà, l’umiltà e gli insegnamenti che questa terra mi ha lasciato li porto sempre con me, come un bagaglio che apro all’occorrenza, quando non mi ricordo più chi sono, quando devo affrontare nuove situazioni.
Nonostante negli ultimi anni ci sia stata una crescita finanziaria nel Paese, l’Uruguay ha sempre avuto difficoltà economiche. La ricchezza è concentrata nelle mani di pochi; sono tanti i lavoratori e le famiglie che lottano per una vita migliore. La mia famiglia era una di queste. La delinquenza e la povertà cercano di annientare questo meraviglioso Paese ricco di speranza, di persone buone, umili e genuine.
CAPITOLO 1
Ricordo che fin da piccola mia mamma diceva sempre a me e ai miei fratelli di stare insieme, di rialzarci se cadevamo e di guardare avanti sempre con il sorriso.
La positività ha sempre caratterizzato la mia dolce mamma, devo però ammettere che negli ultimi anni, sarà per la vecchiaia, mamma si sta scoraggiando.
Mia madre si chiama Shirley Beatriz Bordagaray. Shirley, o mami come la chiamo io, è una piccola grande donna con le spalle larghe. Ha uno sguardo penetrante, se la guardi attentamente negli occhi puoi leggere in lei una grande sofferenza, ma questa è nascosta dal suo grande sorriso: se hai bisogno, Shirley c’è, se sei triste mami è lì per coccolarti e abbracciarti. I suoi abbracci sono quelli che preferisco perché mi avvolgono e mi fanno sentire al sicuro.
Mio “padre” si chiama, o meglio dire chiamava, Franco.
Sì, lo so, ho scritto padre con le virgolette, perché non saprei come chiamare questa persona, non è stato un padre, ma non vorrei essere troppo volgare nel definirlo.
È passata una settimana dalla morte di Franco; forse è proprio lui uno dei motivi di questa mia autoterapia che mi sono inflitta.
Franco aveva un tumore ed è morto a 73 anni.
L’aggettivo che uso comunemente per descrivere la mia vita è “caotica”: ricca di episodi incerti, piena di momenti di gioia alternati da momenti di tristezza.
Ho due fratelli, il più grande si chiama Rodrigo l’altro Enrique; ho anche quattro bellissime sorelle: Eliana, Paola, Valentina e Daniela.
In realtà non siamo proprio fratelli, siamo fratellastri, abbiamo padri diversi, l’unico fratello germano è Enrique.
Ma per noi dire che siamo fratellastri è inconcepibile, è un termine che non ci piace, non l’abbiamo mai utilizzato. Siamo fratelli, punto; la stessa donna ci ha messi al mondo e per noi conta solo questo.
Mia madre ha avuto una vita complicata e solo pensarci mi causa un terribile dolore; gli ostacoli che si è trovata sulla sua strada l’hanno segnata profondamente e il suo dolore è diventato anche il mio, ma mi piace pensare che solo scrivendo potrò placare un po’ questo male.
Mia mamma è una donna di sessant’anni, si porta sulle spalle un passato pieno di momenti bui che l’hanno segnata profondamente.
Ha avuto un’infanzia difficile caratterizzata in parte da momenti di povertà, episodi di violenza e abusi.
I momenti brutti che ha vissuto posso solo immaginarli e intuirli da alcuni racconti; lei non me ne ha mai parlato apertamente, forse per vergogna o per paura di essere giudicata.
Ma è proprio quel poco che io so della sua vita che mi sprona a cercare di farla felice.
Non riesco a concepire tutto ciò che ha passato e quindi vorrei fare il possibile per renderle la vita più facile, per quanto mi sia possibile.
Tutti noi abbiamo qualcuno che ammiriamo e consideriamo un esempio, qualcuno che vorremmo imitare, potrà sembrare assurdo e contraddittorio, soprattutto per ciò che ha vissuto, ma per me questa persona è mia mamma… lei è così forte e umile, nonostante tutto.
Spesso mi rimprovero pensando a lei e mi dico: Ha senso lamentarsi dei piccoli incidenti di percorso che caratterizzano la vita?
Vi racconto mia mamma.
Ho deciso di iniziare a scrivere dalla sua storia con la convinzione che certe persone sono sfortunate e basta, lei ha avuto una vita difficile, sua mamma ha avuto una vita difficile, e forse sono destinata ad averla anch’io.
Shirley ha conosciuto l’amore della sua vita alla giovane età di 14 anni.
Era l’8 novembre 1974… già, ancora lo ricorda.
Lui si chiama Antonio, e in quegli anni aveva sedici anni.
In quel periodo in Uruguay era illegale abortire, non c’era educazione sessuale tra i giovani e infatti molte sono le donne che rimasero gravide giovani, questo è stato il destino di mia madre.
Dopo due anni di relazione mia mamma, da poco sedicenne, scoprì di aspettare la prima figlia. Pochi mesi dopo averlo scoperto si sposò, esattamente il 24 agosto 1977.
Il 21 febbraio 1978 è nata Eliana, la mia sorellona più grande.
Dopo la nascita di Eliana mia mamma e Antonio andarono a convivere e poco dopo rimase di nuovo incinta.
L’anno successivo nacque Rodrigo Sebastian, precisamente il 14 settembre 1979.
La vita non era sicuramente facile, soprattutto per i problemi economici che mia mamma e Antonio dovevano affrontare a soli 18 anni, ma erano due giovani innamorati che volevano andare avanti e costruire insieme una famiglia unita e felice.
La mia mamma un giorno scherzando mi disse: “Eravamo poveri, non avevamo la televisione e quindi passavamo il tempo in altro modo!!”
Avevano un bellissimo modo di passare il tempo, e infatti il 26 luglio 1981 mia mamma ha partorito la terza figlia, Paola Beatriz e solo due anni dopo, il primo maggio 1983, è nata Valentina Elizabeth.
Quattro figli piccoli a 22 anni!
È difficile e assurdo pensare ad una situazione simile attualmente, soprattutto qui in Italia, ma noi siamo latini e come ben sapete abbiamo il “sangue caliente”.
Antonio e Shirley passarono anni complicati, non riuscirono a trovare una stabilità, ma questo, inizialmente, non fu un motivo per arrendersi. Con le lacrime agli occhi mia madre mi racconta che, nonostante la mancanza di soldi e di cibo, erano uniti e sorridevano davanti alle difficoltà.
Nell’84 acquistarono il terreno per quella che diventò la loro casa; una casa costruita con tanto amore, mattone dopo mattone, con le loro stesse mani. Non c’era la disponibilità economica per un’impresa di costruzioni e quindi ci si doveva arrangiare con quello che si aveva.
Anch’io ho vissuto in quella casa per i primi anni di vita, fino ai 5 anni, e me la ricordo benissimo.
Innanzitutto il quartiere dove sono cresciuti i miei fratelli è il più povero della città e quindi, soprattutto in quegli anni, regnava la povertà e la delinquenza.
Mi ricordo le stanze da letto, erano tre: una per mio fratello Rodrigo, l’altra per tutte le sorelle e l’ultima quella matrimoniale.
Cucina piccola, bagno ancora più piccolo.
Il punto forte di questa casa era il giardino, molto grande dove passavamo le giornate a correre e giocare.
I mobili erano pochi, quasi assenti, i necessari e indispensabili. Anche i letti erano pochi, quindi le sorelle dormivano insieme in un lettone, soprattutto in inverno, per riscaldarsi.
Questa casa custodisce tanti ricordi.
Spesso parliamo del passato, ci teniamo soprattutto a ricordare i momenti belli.
Mia mamma e mia sorella Daniela mi raccontano sempre del quindicesimo compleanno di quest’ultima: “Daniela aveva invitato talmente tanti amici che era impossibile controllare tutti… ci siamo divertiti tanto, tutti ballavano e cantavano.”
Daniela ridendo mi racconta: “Verso la fine della festa ci accorgemmo che mancavano le nostre bombole del gas che erano in cucina, le uniche che ci rimanevano… degli invitati ci raccontarono che avevano visto alcuni miei amici che se le erano caricate sulle spalle e ce le avevano rubate.”
Al giorno d’oggi è impossibile non sorridere raccontando queste vicende.
Un altro episodio che mi raccontano sempre mia mamma e i miei fratelli e che io non ricordo bene perché ero troppo piccola, è quando ci hanno rubato la serratura della porta dell’entrata, per diversi mesi hanno usato il divano come “chiave” per tenere la porta chiusa: il divano-chiave.
Nonostante questi furti tra vicini, se avevi bisogno di qualcosa potevi bussare alla porta del vicino, sempre se ce l’aveva.
C’era aiuto mutuo tra tutti in caso di mancanza di cibo, di vestiti ecc.
Ritorniamo al racconto.
I sacrifici che avevano fatto fino a quel momento (1984) Antonio e Shirley, furono ricompensati e la situazione economica con il tempo migliorò.
Ma non tutto è destinato a durare purtroppo.
Sarà per questo che con gli anni ho imparato a non vivermi pienamente la vita, mi aspetto qualcosa di brutto dietro ad ogni esperienza.
[continua]