Ai miei nonni,
alla mia mamma,
ai miei fratelli,
ai miei nipoti,
e a tutte le persone che hanno
reso possibile questa opera.
1. Il vento
Giravi l’angolo della strada, e a Perugia, potevi incrociare persone di ogni genere e in quella via, la via più frequentata che ti porta al centro, incontravi quelle donne con vestiti tutti di un pezzo unico, – strani ed ingombranti vestiti –, diversi gli uni dagli altri per far sì che quella donna fosse unica al mondo ad avere quell’abito.
Quegli abiti erano lunghi fino alle caviglie, “conchigliati” in alcuni punti, alcuni pomposi come se qualcuno giocasse sotto alla fine della gonna, con palloncini appena gonfiati e altri invece snelli a tubino.
Strani erano quei cappelli che quelle donne indossavano, a mo’ di una tazza gigante all’incontrario, – quella stessa tazza che si usava per la colazione del mattino, bella, grande per metterci tutti i biscotti appena fatti, dentro a quel latte appena munto, “già si mungono ancora le mucche, alcune volte” –, e magari su quel cappello di stoffa qualche fiorellino di raso assieme a quelle foglioline di stoffa leggera, cucite sopra, con piccole righe scure, come assomigliante l’anima della foglia, tutto parvente ad un prato immaginario, tutto era in tinta con l’abito.
Ecco quelle donne passeggiare con i loro figli appena nati, quei piccoli nati avvolti da semplici fasce, li portavano a spasso con la carrozzina e non mancava quel misero ombrellino da sole, con il suo bacchettino sottile, sgargiante in quei giorni di sole e poco usabile in quei giorni vicino alla pioggia, già, quell’ombrellino delicato non avrebbe fatto il dovere di sostenere la pioggia, ma il vento, il vento sì, avrebbe giocato ancora, avrebbe giocato con i suoi piumini.
Mentre c’era il centro che viveva di queste cose straordinarie di persone un po’ “dipinte di società”, laggiù, in quella strada asfaltata che costeggiava il fiume, di dipinti ce n’erano ben pochi e si vedevano già le donne dal primo mattino, donne sconosciute, che di vestito avevano quello, quel solito per ogni giorno della settimana, scuro, con un grembiule fatto a pezzi di stoffa, con in centro una grande tasca e sul capo quel fazzoletto, ereditato da vecchie nonne, e lavoravano, lavoravano i campi di cipolle con in braccio i loro figli appena nati… e quando tornavano a casa, non c’era molta differenza tra loro, la cipolla e il figlio che portavano in braccio e il vento sapeva di cipolla… mentre li accompagnava a casa.
Era proprio così, nelle strade che portavano a Perugia, ci si poteva trovare di tutto e tutto; potevi anche incappare in quei manifesti dei cinema, con i grandi attori in abito elegante con la solita chioma da divo ben composta, una sagoma unica, per tutti gli uomini e per tutte quelle donne attrici, eleganti fino ai piedi, con le scarpe nascoste e con quell’immancabile “balcone” esposto e il rossetto rosso sulle labbra.
Alcuni sguardi di persone, che altro non avevano da fare per riempire la giornata, si sorprendevano ancora a guardare proprio quel manifesto che prendeva tutto un muro di cemento, il manifesto di un circo, che tappezzava quel muro compresi gli angoli, così grande che, quasi quasi, ti ci trovavi a farne parte.
Non mancavano neppure quei tipi incuriositi, che di strade non se ne facevano nulla, non gli importava ciò che era in strada, ma spostavano il loro sguardo verso il cielo cercando di vedere, chissà, a mala pena, la punta della torre, perché di torri Perugia ne è tanto piena.
Ma il bello è che i bambini giocano, ancora giocano e non gli importa chi si ferma a guardare all’insù o a guardare il grande manifesto o la culla che dondola o la cipolla raccolta, perché loro giocano per la strada e sono tutt’uno con la strada, con il vento che corre, corre il vento insieme a loro, li tiene stretti, non li abbandona, si appoggia al viso bello di un bambino e passa tra le dita delle loro mani e il vento gioca, gioca con i bambini…
La libertà e l’incoscienza dei bambini nel calciare un pallone senza destinazione con la semplicità di nascondersi dietro un palo della luce e pensare di non essere visti… e uno di questi audaci bambini osa gridare: “È stato il vento, non è colpa nostra”, già non è stata colpa loro… è stato il vento…
E via a correre ancora, con gli stessi bambini, che si sarebbero addormentati, subito dopo il Carosello, sbirciando qualche titolo di film, all’insaputa dei genitori, attraverso il buco della serratura della porta che dava nel salone grande…
Accade, accade sempre ogni anno: quando senti bussare la fine delle piogge estive, arriva il vento freddo, nell’inverno di Perugia… sì, proprio nell’inverno, era l’alchimia dell’uno e dell’altro, tra la pioggia e il sole, tra l’inverno e l’estate, tra “Renzo e Lucia”… un’alchimia.
Il vento… irrompe sulle innumerevoli scale e si accanisce sulle finestre, sulle porte, gioca sotto ai ponti ubriacando il fiume, nascondendosi nei piccoli spazi vuoti, per poi entrare incuriosito nelle abitazioni… e la torre… è vecchia di anni, ma non pende e non ondeggia al vento.
E matto è il vento, attraversa i grandi alberi del viale che hanno già il vestito di corteccia nuovo e si avventa sulle ultime foglie stanche rimaste a far finta di far chioma sugli alberi, e quelle foglie rimaste appisolate a terra e quelle svegliate dal loro torpore volano, volano sopra l’asfalto, sulle auto parcheggiate e giocano; giocano a riprendersi l’una con l’altra, senza biciclette da pedalare.
Arrivederci è quel che dice il vento invernale al sole e ai fiori e ai piccoli boccioli dell’estate, che se ne sono andati affranti dall’emigrazione degli sguardi dei curiosi, rifugiandosi nei terrazzi in vasi avvolti da teli trasparenti; mentre giacciono le gelide panchine di marmo sul viale, sbrodolate di vecchie scritte e vuote, vuote di giorno, mentre nella notte, sopra vi dorme ancora il vagabondo… ancora con i giornali buttati allo straccio.
Sono le prime ore di un mattino di quell’ultimo pezzettino di buio, dove c’è sempre l’indecisione, del sì o no di accendere una luce o di aprire una finestra e Perugia, Perugia è ancora un po’ addormentata, sotto ai mille coppi e sotto le nuvole fredde e opache, che poco si notano aggrappate al vento; una persiana, anziana, è leggermente socchiusa con uno spiraglio di insignificanza, occhi nascosti brucano la semplicità di piccole cose.
Un uomo, con la sua storia e la sua vita disordinata di clown, è solo, e solo cammina abbracciato dal vento, quel vento che di forza ha solo l’aria è rimasto a fargli compagnia…
Nella piazza centrale la fontana è spenta di schizzi e il vento soffia sulla sua pancia vuota, rumoreggiando piccoli sassi e le monetine non pesanti sul fondo; l’ubriaco c’è sempre, c’è in ogni piazza, come un personaggio di un quadro, e non prende le strade diritte… no, ondeggia al vento come la barchetta sul mare d’inverno, ma eccolo!… Eccolo! Arriva il ciclista solitario, il vento non gli scompiglia i capelli dentro al berretto di lana, appena fatto dalla nonna, su cui un pon pon si sballotta a destra e sinistra, ma gonfia… gonfia la sua maglia gialla fosforescente e disegna le sue mani come una marea… e la musica si sente…
La musica?… Una musica, nata dal nulla, oltrepassa tutte le strade, tutti i muri, i ponti, i viali della città abbandonandosi tra le braccia dell’unico viale con lo sguardo all’insù, rimasto illuminato, un cammino illuminato… con i suoi lampioni a mo’ di funghetto qua e là.
Ma dove porta?… Dove porta, questo viale che non si è fatto sorprendere dal batticuore del vento?
Belle, … le impronte lasciate a caso, portano fino in cima alla collina di Perugia!… Fino in cima… proprio in cima.
La musica… è la stessa che si sente anche danzare dentro alla cartolina, dove quella famosa collina rimane come sfondo alla grande villa, i Perugini la chiamano: “l’Orchidea”… la villa Orchidea.
Ecco l’orchidea,
quel nome di fata,
danza,
attaccata alla vita
del suo stelo.
Quell’uomo anziano, con il bastone del senno nella mano e il cappello sulla testa con la fettuccia di raso bianco, cammina sulle strade ancora dormienti e fa memoria, dei pomeriggi unici, felici, semplici che trascorre e vuole ancora trascorrere su quella tranquilla collina.
Quell’uomo non nasconde la bellezza di quella villa confortevole, dove non ci sono sbarre alle finestre, né blocchi di maniglia sulla porta, ma sedie, un’infinità di sedie, tavoli, fiori e piante, e il gatto si intravvede tra una foglia e l’altra… in alcune stanze ci sono letti, sì, qualcuno si riposa più a lungo…
Lui lo sa, lo sente quell’uomo anziano che quando è lì, lui è un ospite… l’ospite desiderato che non dà fastidio quando è troppo tempo che è lì… no, è amato perché è tanto tempo che è lì.
La villa Orchidea… è descritta in quel depliant: accartocciato sopra ai tavoli del parrucchiere… attaccato su un foglio grosso di sughero dal negoziante di genere alimentari…. usato per segnare i punti in una partita di carte al bar degli anziani; la villa è là… anche quando quella nebbia perugina, ogni tanto, la copre… anche quando il sole sbuffa di calore… è sempre là… oltre gli ubriachi che fanno confusione, con la loro bottiglia in mano, oltre il vagabondo che dorme ancora… è là… anche per loro, è la con il soffio del vento che percorre tutta la sua strada…
I suoi alti pini, coraggiosi, come trottole danzanti l’avvolgono, mentre piccoli sassolini dipinti di vero dalla natura sassolina modellano la stradina fino all’entrata… tutti la stringono a sé, stringono la principessa, la villa Orchidea… la villa del pomeriggio, la villa dei solitari, uomini, donne, bambini, per tutti, per tutte le età e per chi non ha più nulla che l’età… già per quel breve sorriso del giorno…
[continua]