C’è tanta solitudine in quell’oro.
La luna delle notti non è la luna
che vide il primo Adamo. I lunghi secoli
della veglia umana l’hanno colmata
di antico pianto […]
«La Luna», Jorge Luis Borges
I
Una pioggia di stelle incandescenti illuminò la terra catalana la notte in cui nacque Elionora. Mariano prese per mano il figlioletto Ugo e lo portò a conoscere la neonata che dormiva accanto alla madre nel grande letto ricoperto di preziosi arazzi. I lunghi capelli neri sparsi sul cuscino, il volto impastato nella cera, il corpo stremato, Timbora sorrise mesta ai nuovi arrivati: per la seconda volta il travaglio si era rivelato lungo e doloroso e a nulla erano valsi i precetti dei sacerdoti di Asclepio nei quali confidava la sposa di Mariano.
Joana attizzò le braci nel camino e si schiarì la voce. Da innumerevoli lune aveva perso la consolazione del sonno e trascorreva le notti nella grande cucina illuminata da una solitaria candela: vegliava il fuoco, ordinava i cassetti e mondava le verdure, mentre parlava a voce alta della principessa Elionora che aveva nutrito con il suo latte insieme al figlio, Joan.
Erano trascorsi tanti anni, eppure aveva ancora un ricordo vivissimo di quando Timbora, con una sola occhiata, l’aveva preferita ad altre donne e le aveva dato l’incarico di nutrice per la sua bambina appena nata. Joana era, a quel tempo, una giovinetta alta e robusta con i seni gonfi e la vergogna cucita nella pelle per aver dato alla luce un bambino senza marito.
La scelta della sposa di Mariano la riscattò e la spinse a votare la sua vita alla principesca famiglia che l’aveva accolta.
La donna si accomodò il soggolo di cotone candido come il grembiule che indossava sopra al lungo vestito marrone scolorito per i numerosi lavaggi e, a passo incerto, si diresse verso un armadietto.
L’aprì per prendere un tozzo di pane secco, lo mise a bagno nell’acqua, lo strizzò a fatica con le sue mani dalle ossa deformi e poi vi colò sopra del grasso di maiale fatto scaldare in una padella. Mangiò in piedi fino all’ultima briciola, indi si pulì la bocca con il dorso della mano e sorseggiò un bicchiere d’acqua.
Si avvicinò alla porta chiusa della cucina e si fermò davanti, gli occhi annegati in una vaga fissità; si girò all’improvviso e, scuotendo la testa, tornò a sedersi. Sospirò, malinconica: nessuno aveva più bisogno di lei, ormai. Versò sul piano del tavolo un secchio ricolmo di fave secche e iniziò a mondarle. Era un lavoro che doveva fare almeno due volte: i suoi occhi non erano più buoni e Adelaisa, la nuova reggitrice del Palazzo giudicale, era molto severa con tutta la servitù.
Joana sentì le lacrime bruciarle sul viso. Appoggiò la testa sul tavolo e si abbandonò ai ricordi.
Pietro III, Giudice dell’Arborea, era morto senza lasciare eredi e la Corona de Logu, l’Assemblea della nobiltà, del clero e del popolo, elesse il fratello Mariano che si trovava in Catalogna. Pietro era stato un uomo alieno dalla violenza e dalla guerra: convinto credente, assiduo in chiesa insieme alla sposa Costanza, aveva regnato all’ombra dell’Arcivescovo Guido Cattaneo come fedele alleato dell’Aragona e, infine, era morto con il desiderio mai appagato di visitare il Santo Sepolcro.
Per tanto tempo, i Giudici dell’Arborea avevano condiviso pienamente la politica degli Iberici; si erano imparentati con famiglie spagnole; in Spagna possedevano alcuni castelli e Mariano, quando era ancora un donnicello, era stato inviato dal padre alla Corte di Barcellona affinché là ricevesse un’educazione di Lettere e di Istituti Cavallereschi per i quali il giovane dimostrò così grande valentia che, poco dopo, il re Pietro IV lo armò cavaliere e lo nominò Conte di Goceano e Signore della Marmilla. Ma non erano solo le discipline a occupare il tempo di Mariano: alto, gentile, con lunghi capelli biondi, il volto dai bei lineamenti e il portamento elegante, era desiderato da molte dame di Corte che gli insegnarono a suonare il liuto e le più raffinate arti amatorie.
Richiamato in Sardegna, fu eletto Giudice con il nome di Mariano IV, nel 1347.
Lasciò il suo Castello di Molins de Rey insieme alla sposa, Timbora de Rocabertí, i figli Ugo ed Elionora, uno stuolo di domestici e uno schiavo, Isor, che praticava l’arte della divinazione. La moglie portava al dito un’acquamarina propiziatrice per il matrimonio e il nuovo Giudice un grande rubino quadrato, montato in oro, che aveva il potere di calmare le collere. Mariano aveva fatto proprio l’insegnamento dei saggi greci: l’uomo deve essere forte nel fisico e cortese nei modi, sì da ispirare negli altri più ossequioso e devoto rispetto che timore.
La navigazione per arrivare in Sardegna fu assai turbolenta: il mare era in burrasca, agitato da turbini di impetuoso vento e diluvi di acqua rabbiosa; fulmini collerici si schiantavano all’orizzonte e l’imbarcazione sembrava sul punto di soccombere, da un momento all’altro, alle ondate alte come montagne.
Mentre si spargeva maligno il malessere tra i passeggeri, Mariano, felice per l’insperata nomina a re, si muoveva di qua e di là, tra bauli e casse rovesciate, con il perenne sorriso sulle labbra, infaticabile: aiutava i marinai, portava suggerimenti, consolava i figli e la sposa.
Quando sbarcò, assaporò l’odore dimenticato della sua Isola e trovò la terra natia immersa in un ritmo lento di vita che si diluiva in una dolce aura serena. La Sardegna, poco urbanizzata, sembrava un luogo di antica, selvaggia, bellezza, inondata dai profumi della macchia mediterranea in fiore, una regione cullata dal sole e dal clima mite, fertile e verde.
Il re si insediò a Oristano, nella reggia immersa tra i sospiri e gli affanni della gente. Il Palazzo giudicale, edificato in pietra sui resti di un antico maschio, ampliato, bruciato e ricostruito molte volte, appariva una costruzione grande, austera e solenne.
Il padre del Giudice, Ugone II, per le esigenze difensive dei feudatari che si erano messi sotto la sua protezione, aveva pensato di circondare la città con una poderosa cinta muraria e, così, la reggia, il Duomo, le domus dei nobili, la rua mercatorum e l’intricato dedalo di viuzze intorno, si adagiavano nel centro della piccola e vivace città custoditi come gioielli dentro a uno scrigno.
Appena arrivato, Mariano affidò a un pittore il compito di modificare lo stemma araldico dei De Serra-Bas, la sua famiglia, e fece aggiungere accanto all’albero sradicato verde in campo argento i “pali” dell’Aragona, come simbolo di fedeltà alla Corona. Pochi giorni dopo, la città si svegliò con le campane del Duomo che suonavano a festa.
La gente usciva a frotte dalle case, i tamburi rullavano e, in ogni crocicchio, si vedevano stendardi, ghirlande di alloro, rose e viole. Dal Palazzo, preceduti da vessilliferi e mazzieri, uscirono il Giudice e la sposa in groppa ai loro cavalli coperti da drappi riccamente ornati. Sfilarono tra due ali di folla acclamante, accorsa fin dai più sperduti villaggi dell’Arborea e tutti rimasero affascinati da Timbora, bellezza catalana di imponente statura, sottile, spigolosa, dal sorriso raro, la pelle candida e gli occhi grandi e profondi.
Mariano indossava una dalmatica verde olivo ricamata con fili d’oro; appoggiata sui fianchi aveva una cintura tempestata di pietre preziose e calzava stivali di cuoio chiaro, allo stile sardo. La sposa era vestita con un abito di velluto color morello stretto in vita che terminava con un lungo strascico e in testa teneva una berretta di seta ricamata.
La salute di Timbora era cagionevole, fragile come le ali di una farfalla e le cose peggiorarono molto dopo che dette alla luce Beatrice. Si occupava poco dei tre figli preferendo suonare il liuto, partecipare alle gare poetiche che si tenevano a Corte e abbigliarsi con raffinati vestiti e gioielli.
Non vide mai il Giudicato dell’Arborea come un piccolo Regno periferico, lontano dalle più importanti correnti scientifiche e culturali del tempo. Ella si sentiva una grande regina e come tale si comportò nella sua breve vita, incedendo tra la gente con alterigia, facendo sfoggio di ricchezza e costosa eleganza.
Eppure, anche in Sardegna erano penetrate le Leggi Suntuarie a limitare gli eccessivi lussi della nobiltà e, in nome delle regole dettate dal papa Gregorio X nel secondo Concilio di Lione del 1274, erano state vietate le perle e le esagerate fregiature d’oro e d’argento; imposto il velo sulla testa come copricapo e accorciato lo strascico che non doveva superare il metro. Un vescovo tuonò dal pulpito di una chiesa che “se le donne avessero avuto bisogno della coda, Iddio l’avrebbe provveduta loro”.
I religiosi osteggiarono anche i bottoni, considerati un simbolo peccaminoso perché permettevano di liberarsi con troppa facilità dei vestiti, ma nessuno si lagnò dell’usanza di fare le maniche staccate sì da variare l’aspetto degli abiti. Pur vivendo in un totale stato di sottomissione agli uomini e alla Chiesa, le donne avevano sempre trovato il modo di sfuggire alle restrizioni con grande astuzia e avevano inventato cose che esaltavano ancora di più la loro bellezza, come i veli per il capo di prezioso bisso egiziano, pregevoli per fattura e eleganza, o le code che apparvero in fondo alle maniche facendo sembrare le mani bianche farfalle pronte a prendere il volo.
Gli abiti fastosi rappresentavano il segno più evidente dell’opulenza di una famiglia insieme agli interminabili banchetti, l’argenteria, il vasellame, i pizzi e i gioielli. Dopo le Leggi Suntuarie, i vestiti apparvero con scollature legittime, cioè poco appariscenti, però erano cuciti con stoffe raffinate: l’allucciolato dai riflessi cangianti, il taffettà persiano, il damasco, il velluto genovese e sempre nei colori di gran moda: il morello e il pagonazzo.
A Corte si parlava molto dello speciale rapporto che esisteva tra Timbora e Isor, lo schiavo. La sposa di Mariano teneva sul tavolino accanto al suo letto una Bibbia decorata con eleganti miniature. Ne leggeva qualche passo ogni sera prima di addormentarsi ed era assidua in Cappella nelle quotidiane pratiche religiose; eppure, assai preoccupata per la sua salute, consultava ogni giorno l’esperto nella divinazione, ben sapendo che ciò era molto osteggiato dalla Chiesa.
A Palazzo era impossibile tenere un segreto e sembrava che i muri parlassero come i cristiani. Tutti i domestici origliavano dietro alle porte e incollavano l’occhio al buco della serratura. Neppure io mi sottraevo a questa abitudine, ma non era curiosità morbosa la mia: volevo essere pronta a soddisfare ogni desiderio della mia principessina, viziandola e amandola come il mio unico figlio che portai con me in Sardegna e che, più tardi, fu ucciso in guerra in una spedizione guidata dal Giudice Mariano contro gli Aragonesi.
Dopo la morte di Joan, se non avessi avuto accanto Elionora il dolore mi avrebbe ucciso. Fu una figlia per me ed io fui più di una nutrice e domestica per lei: le fui madre, sorella, maestra e consigliera.
[continua]