Con questo racconto è risultata 1^ classificata nella Sezione narrativa della IX Edizione del Premio Francesco Moro – Comune di
Sartirana Lomellina 2013 a tema «Una terra fatta d’acqua»
«Gente del Delta»
In molte parti del mondo l’uomo lotta duramente ogni giorno per strappare terra all’acqua. Io sono stato tra quegli uomini e la mia terra era, ed è ancora, il Polesine, il profondo sud del Veneto.
Mi chiamo Alfredo, come l’amore disperato di Violetta, sapete, ai miei piaceva l’Opera. Sono arrivato al Nord Ovest portato dall’onda nera e sterile di acqua salata e fango che nel novembre del 1951 aveva cancellato ogni opera dell’uomo, lasciato senza casa 180.000 persone, ucciso ottantaquattro tra uomini, donne e bambini e un numero imprecisato e altissimo di animali.
Non ho mai parlato volentieri di questa storia con nessuno, è ancora troppo doloroso il ricordo, ma, a volte, in certe sere fredde e silenziose, riaffiorava negli occhi la bellezza e nel cuore l’amore per la mia terra, i campi coltivati a barbabietole da zucchero, le “code” in stalla, i giri in calesse sotto l’argine con il mio cane Black che mi correva al fianco e l’orgoglio per tutto ciò che avevo costruito partendo dal niente.
«Nonno, raccontami la tua storia!», la mia nipotina me lo chiedeva, a volte, sedendosi vicino a me. Ma che storia avevo, per una bimba! Posso raccontarla adesso alla donna che è diventata, che può capire e sopportare la mia malinconia.
La guerra mi aveva rimandato a casa presto, ferito ma vivo, forse anche per il fatto che, invece, mio fratello appena più piccolo, sommergibilista, non era tornato da un punto non meglio precisato del Mediterraneo Orientale, dato pietosamente per disperso dall’umana tendenza a restare vivi ad ogni costo. Mia madre ancora l’aspetta. Ho saputo, varcando la soglia con lo zaino in spalla, di essere già padre, per il disperato dono d’amore della mia donna, che non ero riuscito a prendere in moglie prima di partire per la guerra. Il pagliaio era stato il nostro letto nuziale, il nostro altare, il testimone del nostro amore. Ma sono tornato e ho sposato le mie ragazze con grande gioia e le ho portate a casa. Ancora mi ricordo quel giorno, eravamo poveri ma ricchi di noi stessi, l’una dell’altro. La mia Regina era bellissima e la nostra piccola Emma, con i fiori di sua madre in mano, una gemma preziosa da proteggere e coccolare, anche se le mie mani erano più abituate alla vanga, che alle carezze, ci sono nato con la vanga in mano.
Con mio padre, i miei zii e i miei fratelli conducevo una delle aziende agricole più grandi di Isola della Donzella, situata tra la sponda sinistra del Po di Gnocca e la sponda destra del Po di Venezia, affacciata sul mare della Sacca di Scardovari. Un pezzo di terra generosa rubata al delta del Po, dove, solo pochi decenni prima, c’erano solo paludi e ranocchi, dove la linea dei campi si confondeva all’orizzonte con quella del fiume e del mare.
Nella maestosa casa colonica, nel 1942, vivevamo in quaranta, tutti parenti; non c’era molta vita privata: ogni famiglia occupava una stanza da letto, mamma e papà con i loro bambini, i ragazzi più grandi separati dagli altri da tende. Poi si pranzava tutti insieme, almeno la domenica, quando gli adulti non consumavano il loro pasto frugale nei campi. Ci sedevamo a tavola in due turni, nella gigantesca cucina da trattoria, prima i bambini e gli uomini, poi tutte le donne, sotto il comando di mia nonna Virginia. L’autorevole e contegnosa matrona, a cui tutti dovevano rispetto, era un donnino alto un metro e quaranta, con lunghi capelli bianchi, che sfioravano terra. Era lei che decideva quale tra le nipoti, secondo un ordine stabilito, avrebbe pettinato e acconciato la lunga treccia. Era lei che decideva quale donna, l’indomani, si sarebbe alzata alle quattro per preparare il caffè al nonno e ai suoi uomini che, per primi, andavano in stalla a mungere e chi, tra le nuore, avrebbe scodellato, con le sue figlie, la polenta per tutti.
«Oncuo’ l’è venare, at toca a ti, putea, portare el pan in fornaria par cusinare» diceva il venerdì alla ragazza di turno per portare la pasta lievitata a cuocere nel forno comune del paese, per il pane della domenica, «e no desmentegarte i bosslà», mentre il pane biscottato andava bene per tutta la settimana.
Era lei che decideva a chi comprare una sottana nuova o chi poteva continuare a studiare. Una vita faticosa ma ricca di soddisfazioni, una bella famiglia da custodire, a cui il pane, sulla tavola, non sarebbe mai mancato. Non come quando, durante la guerra, per la fame, andavano di notte, donne e bambini, a pescare di frodo e a raccogliere il pesce lasciato sulla riva asciutta dalle intemperanze del fiume. E se il guardiapesca, spuntato dal niente, chiedeva con fare volgare: «Ehi, Maria, dov’è la patente?», c’era poco da fare, per una donna, giovane o vecchia, doveva pagare la multa in natura, per non passare guai peggiori. «È qui, la patente» diceva amara, alzando la gonna. Ma per i figli avrebbe fatto questo e altro.
Virginia non arrivò a vedere l’alluvione, non le sarebbe sopravvissuta.
La notte che cambiò il nostro destino era attesa da giorni. Il Po, che in Polesine scorre in alto tra gli argini rispetto al livello delle terre coltivate, nume tutelare e maledizione eterna per i caversinanti, si ingrossava e si contorceva e si gonfiava come un mostruoso animale che ora dopo ora rompeva tutti i suoi vincoli. Presto sarebbe uscito, come già aveva fatto nei secoli, sulle case di Donzella, sulla chiesa, sulla piazza, sul monumento ai poveri figli caduti in guerra, sul locale dove la Coltivatori Diretti organizzava le feste da ballo e le cene dopo il raccolto, sul busto di Ciceruacchio, quell’Angelo Brunetti fucilato dagli Austriaci con il figlio tredicenne sull’argine, tanti anni prima, per aver seguito Garibaldi.
Gli uomini, chiamati sotto l’argine dalle campane a martello, avevano lavorato duramente per contenere le rotte e i fontanazzi, con i sacchetti di sabbia, per diversi giorni, realmente a mani nude, senza escavatori o altri mezzi meccanici, portandosi da casa il badile, senza nessuno che li coordinasse e senza sapere esattamente cosa stesse succedendo a monte. Purtroppo, all’abnegazione e al coraggio iniziali, si sostituirono, nei giorni, la paura e il panico, vedendo che l’acqua continuava a salire e che il vento di scirocco, soffiando contro corrente, impediva il deflusso del fiume a mare. Ci dissero solo molto più tardi che a Occhiobello avevano abbandonato l’argine al suo destino e con esso anche tutti noi.
Io e la mia Emma, in bicicletta, continuammo tutta la notte a sorvegliare l’acqua furiosa che scorreva sotto di noi. A pregare che non uscisse, che non rompesse l’argine. La Emma è sempre stata una bambina coraggiosa, più di quel maschio che tanto avrei voluto ma che non mi è nato. Una volta, era piccola, avrà avuto cinque anni, un gallo alto quasi quanto lei la inseguì, senza un vero motivo, per tutta l’aia, per beccarla in testa; Emma corse a perdifiato, tra gli urli degli altri bambini, ma il gallo continuava a braccarla; invece di correre in casa, sotto la gonna di sua nonna, cercò un bastone e girandosi con tutta la sua forza, prese il gallo in pieno becco. Il gallo dovemmo abbatterlo ugualmente ma la Emma guadagnò punti nei confronti dei monelli della cascina.
Tornammo a casa e dissi alla Regina di vestire l’altra piccolina, la Mara, che dormiva. Non avevamo la radio e non avemmo nessuna comunicazione, eravamo isolati, tagliati fuori dal mondo. Non sapevamo che alcuni punti dell’argine avevano già ceduto e che eravamo soli. Aspettammo l’alba e poi tutti quelli della famiglia che erano rimasti, che non avevano trovato o voluto cercare un riparo, lontano da casa nostra, salirono con poche cose infagottate sul tetto e attesero, senza fiatare.
L’acqua non arrivò verso di noi da Ovest, dal ramo di Gnocca, ma, improvvisamente, silenziosamente, l’ombra scura dell’acqua arrivò strisciando da sud, dal mare. Per tentare di salvare il paese, le autorità avevano deciso, per diminuire la pressione del fiume sugli argini, di rompere la Sacca di Scardovari, salando i campi coltivati, facendo entrare il mare.
E mentre guardavamo l’acqua salire, persi tutto. Il raccolto di quell’anno e di molti anni a venire. Le mucche e i cavalli, liberati ma insalvabili, annegati tra grida strazianti e trascinati, carcasse, di nuovo verso il mare. Il calesse della domenica.
L’acqua nera insinuò le dita sporche in ogni spazio libero. In ogni oggetto che non poteva trascinare via nel fango. Nelle stanze da letto. Nel grande camino della cucina, dove si preparava la polenta per tutti. Rubò il divanetto di midollino con i cuscini a fiori, dove le ragazze di casa si sedevano nelle calde sere d’estate ad aspettare il moroso. Entrò nella mobilia, travolgendo e riducendo in frantumi le tazzine di porcellana fine e i bicchierini per il rosolio, che si tiravano fuori solo quando veniva il parroco a prendere il caffè.
«Don Cesare, dopo el cafè, vulìo netare la cicara con on fià de grapa?», diceva mio zio Nanne, che teneva gli alambicchi e le storte in una cantina per il carbone con la porta a ribalta mimetizzata dietro alle fascine, «Quela co la pigneta? O co la vipara?». «Ma ste’ atenti a distillare di contrabbando, tcio’» rispondeva paterno il parroco, «Urca, l’è proprio bona!».
L’acqua si prese i ricordi, le foto sbiadite della guerra, il ritratto della nonna Virginia, la medaglia di Benemerito del Lavoro di mio padre Stefano. Si prese anche il Black, che saltò nell’acqua dal tetto quando vide le barche di salvataggio ma che sparì quasi subito, impigliato in mezzo ai rami degli alberi che passavano veloci. Afferrai forte le mani di mia madre Maria, immobile come una statua e senza una lacrima sul volto scolpito; guardai mia moglie che teneva in grembo le nostre figlie, tanto strette tra le sue braccia da soffocare, per la paura che potessero scivolare e perdersi, e che pregava, muovendo appena le labbra livide «Maria Vergine, salvaci!».
Infine, dopo ore di gelida attesa, gli Zanellati, cercati nella nebbia e chiamati con gli altoparlanti («Stiamo arrivando. Non vi lasceremo soli») in mezzo a quella devastazione, furono tutti portati via dal tetto dai soccorritori, sulle zattere, verso i dormitori allestiti dalla Pontificia Commissione di Assistenza , dove fummo sfamati e scaldati. Nella casa, di noi, non ci tornò a vivere più nessuno. I muri avevano retto l’onda di piena, la famiglia no. Ci disperdemmo, ci sbriciolammo in otto rami distinti, ci spostammo in altri posti, molti in Piemonte, ma nessuna famiglia nello stesso paese. L’acqua aveva portato via tutto. Intorno, per quanto girassi lo sguardo, uno spettacolo che stringeva il cuore. I paesi abbandonati come all’epoca della peste, le case con l’acqua fino al tetto e tutta quella distruzione: una catastrofe irrimediabile. Avevo trentasei anni. Persi tutti i capelli. Non volli mai più fare il bagno in mare. Ma raddrizzai la schiena e guardai dritto avanti. Dai semi sparsi dal vento germogliarono nuove e vigorose piantine che sarebbero state il mio nuovo orgoglio, ma, perdonate la mia nostalgia, anche adesso, nella quiete di spirito e luce, della mia terra fatta d’acqua non me ne dimenticherò mai.
Paola Tripodi