…A mamma, papà e Matteo
…A Elena, con amore
…Alla memoria di Ernesto Andreoli, grande storico e studioso di Artogne
…Al ricordo di quanti furono costretti ad abbandonare tutto per continuare a vivere
“Il pane è guadagnato ovunque col sudore della fronte, con onestà e fatica, senza risparmio di energie. Tempi di sacrifici, di lavoro continuo, di risparmio con la speranza in cuore di poter un giorno tornare al paese natìo…”
(Ernesto Andreoli, 100 anni di emigrazione ad Artogne)
Antefatto
1
Marchienne Au Pont, Belgio, marzo 1935
Era quasi buio ormai e la fioca luce proiettata dalla loro piccola lanterna metallica non era sufficiente a illuminare più di tre metri di galleria. Questo non impedì loro di notare che, poco distante da lì, l’ingresso del cunicolo faceva ormai da contorno a un cielo crepuscolare più che pomeridiano.
«Giovanni, Pietro, Antonio, andiamo, per oggi abbiamo lavorato abbastanza» gridò Giuseppe rivolto verso la tenebrosa profondità della galleria, nella quale i tre compagni di lavoro si erano addentrati per un’ispezione.
Gli fece eco Lorenzo, che stava accanto a lui: «Allora? Vi muovete?»
Attesero in silenzio qualche accenno di risposta, invano. Decisero allora di avanzare nella penombra nel tentativo di avvicinarsi per farsi sentire meglio. Le loro ombre, deformi e tremolanti, venivano proiettate sulle pareti rocciose, umide e irregolari della galleria, dai fasci di luce giallo-arancione delle loro tenui lampade, facendo sembrare il luogo ancora più spettrale e arcano di quanto lo fosse in realtà.
Si erano ritrovati a lavorare insieme, tutti e cinque nel 1932, quando a Marchienne au Pont, piccola cittadina del Belgio sud-occidentale situata nella provincia di Hainaut, si stavano creando le squadre di minatori che a turno dovevano operare nelle piccole ma numerose miniere del posto. Erano tutti emigrati dalla loro terra natale, la Valle Camonica, costretti ad andarsene perché avevano deciso di non aderire al partito fascista, rifiutando la “tessera”. Nel periodo del ventennio fascista, infatti, potevano trovare occupazione in patria soltanto coloro che avessero fatto voto di adesione al partito. In alternativa si era obbligati a emigrare altrove per cercare un lavoro che consentisse loro di vivere.
Oltre a questo, aveva favorito enormemente l’emigrazione il fatto che la Prima Guerra Mondiale aveva ingigantito e messo a nudo la povertà e la miseria di quei paesi così profondamente segnati dal conflitto da non poter più garantire la sussistenza per i suoi stessi abitanti.
L’unico di loro a essere sposato era Giuseppe Magnolini, un uomo di trentacinque anni non molto alto, dalla corporatura robusta, con una folta chioma di capelli neri come la pece e una vistosa cicatrice proprio sopra il sopracciglio sinistro. Aveva lasciato ad Artogne la sua famiglia e sua moglie Antonia Ottelli, di quattro anni più giovane, operaia in un cotonificio della media Valle Camonica. Con lei era rimasto anche il loro unico figlio, Ernesto, nato nel 1928, un anno dopo il loro matrimonio.
I suoi compagni di lavoro erano invece tutti più giovani di lui, cosa che lo aveva reso automaticamente responsabile, nonché capo della squadra di minatori. Era lui che impartiva gli ordini e, all’occorrenza, sapeva anche essere duro e determinato nelle sue decisioni, tanto che raramente gli sfuggiva la situazione di mano. Nonostante gli fosse affidato l’incarico di comandare non si atteggiava mai con aria di superiorità, anzi al suo interno si nascondeva l’animo di un uomo bonario e socievole, sempre pronto ad aiutare gli altri.
«Giovanni!» gridò di nuovo e con voce ancora più forte.
«Cosa c’è capo?» gli giunse come risposta.
«Come cosa c’è? È tardi, dobbiamo andare, il nostro turno è finito. Chiama anche gli altri due e digli di salire. Io e Lorenzo vi aspettiamo fuori, sbrigatevi.»
«D’accordo. Ancora due minuti e arriviamo» gli urlò Giovanni dal fondo del pozzo profondo un centinaio di metri. «Raccogliamo gli attrezzi e saliamo.»
Giuseppe e Lorenzo si voltarono e si diressero verso l’uscita della miniera, ormai resa indistinguibile dall’oscurità della sera. Si accorsero di essere quasi fuori solo quando cominciarono a sentire sulla pelle il leggero brivido di freddo che li avvolgeva tutte le volte che si accingevano a uscire all’aperto dopo una giornata passata a una temperatura di venti gradi più alta rispetto a quella esterna.
Il cielo era nuvoloso e solo a sprazzi si potevano scorgere angoli di sereno che si dipingevano di un blu sempre più scuro. In sottofondo l’unico rumore udibile era quello del fiume Sambre, le cui acque, ingrossate a causa delle incessanti piogge degli ultimi giorni, sbattevano con violenza contro le pile di un ponte provocando un mesto e sordo sciabordio.
Trascorsero cinque minuti e dall’ingresso della miniera di carbone, illuminato appena dalle loro lampade, sbucarono, in ordine, Antonio, Pietro e Giovanni, tutti con il volto reso nero dalla polvere di carbone e ognuno con il proprio carico di attrezzatura.
«Finalmente» disse Lorenzo non rivolgendosi a qualcuno in particolare. «È mezz’ora che vi chiamiamo! Cosa stavate facendo?»
«Brutte notizie» tagliò corto Giovanni senza dare una risposta al compagno.
«Cosa è successo?» intervenne con aria preoccupata Giuseppe.
«Il fiume – proseguì Giovanni – si è ingrossato a tal punto che l’acqua sta cominciando a filtrare dalla parete di sinistra del cunicolo sotterraneo, proprio nella zona dove abbiamo visto un grosso giacimento di carbone, a circa cento metri di profondità. Se non facciamo qualcosa, sarà impossibile estrarlo, perché l’acqua potrebbe inondarlo rendendolo inaccessibile.»
«Accidenti! – urlò Giuseppe – è sempre così quando si scava una miniera in prossimità di corsi d’acqua. È sempre il solito problema.»
«E cosa intendi fare, capo?» chiese Giovanni.
«Faremo come al solito – rispose Giuseppe – Non daremo il tempo all’acqua di attaccare il giacimento di carbone. Glielo porteremo via prima.»
I cinque uomini si diressero verso la strada principale e da lì si incamminarono verso casa nel freddo della sera che avanzava, canticchiando qualche canto popolare e trascinandosi dietro gli attrezzi da lavoro.
Mezz’ora di cammino era il tempo necessario a coprire la distanza tra la miniera e l’abitazione. Un tempo tutto sommato buono per uomini sfiancati dal lavoro giornaliero e considerando che il percorso era totalmente avvolto dal buio. Ma il fatto di averlo coperto decine di volte lo faceva sembrare quasi più corto, giacché lo conoscevano ormai a memoria.
La casa, un rudere quasi decadente, che fin dal loro arrivo a Marchienne au Pont si erano impegnati a sistemare fino a renderlo sufficientemente abitabile, era un alloggio davvero poco confortevole che si sviluppava su due piani collegati tra loro da una scricchiolante e traballante scala di legno posta all’esterno.
All’interno c’erano una cucina spartana e un angusto angolo soggiorno dotato di un tavolo quadrato bucherellato dai tarli, su cui era posta una lampada a olio portatile e un libro rilegato con una copertina di pelle di colore rosso scuro su cui Giuseppe scriveva ogni giorno una sua specie di diario personale. Intorno al tavolo c’erano cinque sedie di legno con intagli di vimini e, lì accanto, un piccolo camino all’interno del quale c’era ancora la cenere del fuoco della sera precedente.
Su una parete intaccata dalla muffa e con l’intonaco a pezzi c’era affisso un quadro con una fotografia che li ritraeva qualche mese fa, tutti e cinque in posa e in piedi davanti al piccolo caminetto acceso, con ancora addosso le tute del lavoro.
Al piano superiore le due piccole camere completavano l’arredamento quanto mai povero ma essenziale della loro abitazione.
Il bagno non c’era. Raccoglievano un po’ di acqua in grandi catini che tenevano sul retro, al riparo di una tettoia in lamiera.
All’indomani, il pallido sole di marzo illuminava appena la fredda mattina, ancora avvolta in una cortina di nebbia che via via si stava diradando, aiutata anche da una brezza lieve quanto pungente, che ricordava a tutti che l’inverno non se ne era ancora completamente andato da quella terra, il Belgio, spesso dipinto come Paese dal clima poco ospitale.
Era il primo giorno di sole dopo due settimane di pioggia intensa ma tutt’intorno, specialmente nelle campagne, erano ancora evidenti i segni lasciati dalle abbondanti precipitazioni.
Il piccolo viale che dalla strada principale conduceva all’abitazione dei cinque minatori era allagato, facendo apparire la modesta baracca come collocata su un’isola improvvisata.
Giuseppe e i suoi compagni raccolsero gli strumenti di lavoro e uscirono dalla casa, attraversarono con cautela il piccolo viale e poco dopo si ritrovarono sul ciglio della strada principale, in attesa che il pullman dei loro colleghi minatori passasse a prenderli.
Arrivò subito. Era grigio e senza nessun tipo di scritta sulle fiancate. Un ammasso di ferraglia rumoroso e poco ospitale, con i sedili di ferro e le porte dannatamente cigolanti. Faceva il giro delle miniere e, a mano a mano che si raggiungeva il luogo di lavoro, a turno gruppi di operai scendevano, salutando i compagni che invece proseguivano il loro viaggio.
Dieci minuti erano sufficienti per raggiungere la miniera vicino al fiume Sambre e, non appena l’autista ebbe posteggiato, Giuseppe e i suoi quattro compagni scesero, ringraziando per il passaggio.
«Andiamo a vedere cosa si può fare» esordì Giuseppe rivolgendosi agli amici.
Lentamente si diressero verso l’ingresso della miniera, facendo attenzione a tutto quello che avrebbe potuto dar loro un indizio sulla situazione che avrebbero trovato all’interno.
Giunti in prossimità dello stretto cunicolo che si inabissava per oltre cento metri al di sotto di loro, Giuseppe richiamò l’attenzione dei suoi compagni invitandoli a rimanere in silenzio nel tentativo di sentire se vi era la presenza di rivoli di acqua lì sotto.
Non udendo niente di ciò, decisero di scendere uno alla volta lungo la stretta e buia galleria. La temperatura, che all’esterno non superava i dieci gradi, si stava lentamente alzando a ogni metro in più di profondità. La discesa lì impegnò per circa dieci minuti e, giunti in prossimità del punto descritto la sera prima da Giovanni, iniziarono a sondare la resistenza della roccia circostante.
I colpi di piccone affondavano senza troppa difficoltà nella parete resa fragile dall’acqua e, in seguito a un colpo assestato con più forza degli altri, improvvisamente la roccia si sgretolò davanti a loro, aprendo un varco di mezzo metro nel quale ben presto si riversò tutta l’acqua, che piano piano cominciò a invadere il cunicolo. Fortunatamente i cinque uomini riuscirono a resistere all’impeto delle acque e, seppur con notevole fatica, riuscirono a risalire attraverso la stretta galleria fino a sbucare nel tunnel d’ingresso della miniera.
«Maledizione!» urlò Giovanni grondante d’acqua. «Adesso il giacimento là sotto è completamente irraggiungibile, oltre che inutilizzabile. Dovremo aprirci un’altra strada e cercare il carbone scavando in un’altra zona.»
«Per forza. Non abbiamo altra soluzione» lo confortò Giuseppe.
«Dannazione. Avevamo quasi ultimato il lavoro e invece adesso ci tocca ricominciare da capo» aggiunse Pietro.
«Su, avanti – disse Giuseppe – Armiamoci di pazienza e ricominciamo, stando il più lontano possibile dalla zona inondata. Penso che aprendo un varco nella parete di destra rispetto all’ingresso possiamo raggiungere senza troppa difficoltà un altro giacimento. Qui intorno è pieno di carbone. Non sarà complicato trovarne dell’altro.»
«Cominciate a creare dei fori nella roccia con quelle perforatrici» ordinò Giuseppe. «Tu Giovanni, intanto, vai a prendere le cariche di esplosivo da piazzare all’interno dei fori. Ne serviranno almeno una decina.»
«Va bene capo» rispose Giovanni.
Dopo un’ora gli addetti alle macchine perforatrici avevano smesso di operare. Avevano realizzato dieci fori del diametro di dieci centimetri ciascuno e profondi almeno un metro.
Giovanni, Pietro e Antonio si avvicinarono alla parete e cominciarono a posizionare le cariche esplosive in ogni foro. A ognuna delle mine era collegato un filo che, a sua volta, le collegava tutte a un unico detonatore, al quale Giuseppe si era già affiancato dal momento che il compito di azionarlo spettava a lui.
Attese qualche istante cercando di scorgere il momento in cui Giovanni e gli altri gli avessero fatto cenno che tutto era pronto, ma all’improvviso un bagliore accecante invase la miniera, seguito, poco dopo, da un boato assordante, la cui forza lo sbalzò con violenza contro la parete opposta.
Le cariche esplosive, sia quelle già posizionate che quelle non ancora inserite nelle fessure, si erano azionate inspiegabilmente da sole, senza preavviso e senza che nessuno avesse dato loro il comando.
In poco tempo le pareti della galleria franarono come fatte di sabbia, scagliando enormi massi in ogni direzione. La polvere invase il cunicolo mischiata al fumo dell’esplosione.
Dopo qualche minuto tutto tacque.
Si sentiva solo il leggero rotolare a terra delle parti più piccole della roccia. L’ingresso della galleria era quasi completamente ostruito da grossi massi, intrappolando all’interno Giuseppe e i suoi compagni.
I soccorsi non tardarono ad arrivare, in quanto il boato dell’esplosione fu udito anche a distanza di parecchi chilometri, investendo vaste aree della pianura dove anche altre piccole miniere erano in funzione. I primi ad arrivare furono i minatori che lavoravano a fianco del luogo del disastro.
In poco tempo fuori dalla miniera si era raggruppato un sufficiente numero di persone, tutte impegnate a fare il possibile per liberare l’ingresso della galleria alla ricerca dei corpi dei poveri minatori.
Il senso di umanità era molto diffuso tra i lavoratori delle miniere, ma in quel caso, e grazie al massiccio richiamo di aiuti, erano tante anche le persone, che minatori non erano, a riunirsi all’esterno della galleria distrutta. Tutti erano pronti a prestare il loro aiuto per far fronte a una situazione drammatica, che mai prima d’ora era successa nella piccola cittadina di Marchienne au Pont. C’erano stati altri casi analoghi in altre parti del Belgio, ma mai in quella zona, seppur costellata da cave di carbone.
«Forza, cerchiamo di spostare questi massi» disse una voce che superò il brusio concitato che si era venuto a creare in quei momenti di tensione.
In breve, gruppi di più persone si erano attrezzati per poter rimuovere i pesanti macigni, che venivano fatti rotolare dalla sommità del cumulo di macerie.
Uno sforzo immane che pareva non dare risultati neanche dopo più di un’ora di lavoro. Riuscivano a stento a spostare i massi più pesanti e anche solo per levarne uno ci voleva molto tempo, che invece poteva risultare assai prezioso nel soccorso di eventuali superstiti.
La cosa positiva fu che nessuno dei volontari si fece prendere dal panico del momento, cosa che li avrebbe fatti agire spinti più dalla foga di fare che dalla razionalità che serve in certi casi.
Il leggero passaggio che si era creato dopo il crollo non era sufficiente a far passare un uomo e quindi dovevano per forza di cose continuare a scavare per aprirsi un varco tra le macerie.
Steve De Vincenzi, un possente minatore sulla quarantina, che era stato uno dei primi ad accorrere in soccorso, aveva preso in mano la guida delle operazioni.
Anche lui lavorava lì da qualche mese, dopo aver girato in lungo e in largo in numerosissime miniere e conosceva bene i compagni che erano rimasti intrappolati nel pozzo. Li aveva visti parecchie volte sul pullman che faceva da servizio ai lavoratori e aveva anche scambiato qualche parola con loro. Il suo cognome tradiva origini italiane, più precisamente del Veneto, anche se lui aveva vissuto in Belgio fin da piccolo e il mestiere del minatore gli era stato imposto dal padre immigrato, come era tradizione in quegli anni. Era in occasioni simili che il suo lavoro lo lasciava atterrito, alimentando in lui la volontà di essere altrove, ma non lì. Ma guadagnarsi da vivere era un fatto che valicava la paura di dover fare un lavoro di quel tipo, e la sua personalità, maturata in anni di mestiere, era temprata a dover affrontare anche le situazioni più difficili.
Decise in quegli attimi di terrore che sarebbe stato lui a entrare per cercare di salvare i suoi compagni e, spinto da un senso di appartenenza e da un coraggio incrementato dai suoi ultimi pensieri, cominciò a lavorare ancora più alacremente e con maggior intensità, spronando anche gli altri a fare lo stesso.
Il piccolo pertugio era ostruito da un masso dalle dimensioni di un armadietto da sala, ma la forza d’urto lo aveva conficcato nel terreno per oltre metà della sua altezza. Solo scavando ai lati del macigno si sarebbe potuto almeno provare a spostarlo.
Steve ordinò ai tre uomini che lo stavano aiutando di correre a prendere dei badili, mentre lui avrebbe continuato a dare una mano agli altri minatori.
In un batter d’occhio comparvero in mano ai quattro minatori altrettanti badili, robusti e con il manico di legno.
Le vangate inferte con forza scalfivano senza difficoltà il terreno reso molle dalle piogge e in breve tempo fu fatto il solco intorno al grosso masso.
Restava ora il non trascurabile problema di smuovere quella tonnellata di pietra.
Lo sforzo compiuto fin lì cominciava a farsi sentire, indolenzendo le braccia e le gambe di Steve e dei suoi compagni, mentre il sudore aveva ormai insudiciato le loro tute da lavoro, rigando il volto nero di carbone e sporco di polvere.
«Dovremmo provare con una corda» suggerì Steve.
«In che modo?»
«Avvolgiamo il masso fino a strozzarlo con la corda, lo leghiamo e poi lo tiriamo via da lì.»
«Sì, mi sembra una buona idea. Corro a prendere una corda» fece un uomo del soccorso.
Due minuti più tardi Steve e gli altri stavano già fissando la fune intorno al masso. La legarono con un triplo nodo e l’estremità che avanzava fu passata di mano in mano a sei uomini che si erano posizionati in fila come se stessero per partecipare a una gara di tiro alla fune.
Guidati dal ritmo imposto da Steve, che si era posizionato in coda a tutti gli altri, i minatori si mossero all’unisono, infondendo uno sforzo disumano per trascinare il macigno di quel metro che bastò per liberare a sufficienza l’ingresso della galleria.
La sacca d’aria che si era creata tra due grosse pietre sovrapposte ad angolo era stata la sua salvezza.
Con la bocca piena di piccoli sassi e polvere, Giuseppe era totalmente immobilizzato agli arti inferiori dal peso di parecchie pietre che gli erano piovute addosso. Era gonfio a un occhio, riusciva a muovere a malapena la mano destra, mentre il braccio sinistro era quasi sicuramente fratturato. Una botta alla testa aveva provocato un grosso rigonfiamento sopra la fronte e il casco che portava al momento dell’esplosione giaceva frantumato in due vicino a lui.
Il sangue della ferita al capo gli colava sulle labbra inumidendogli la bocca impastata di polvere, mentre respirava grazie al naso.
Dai suoi occhi non riusciva a scorgere niente se non il buio più profondo e la mente annebbiata non gli consentiva di formulare alcun tipo di supposizione, né di valutazione di quanto era successo. Era talmente sotto shock da non provare quasi dolore, abbandonato dai sensi e di lì a poco anche dal corpo.
La vista cominciava ad annebbiarsi ma, come in un ultimo sforzo dell’atleta impegnato in un sprint prima del traguardo, si impose di fissare il tremolante bagliore che d’un tratto gli si parò davanti, decidendo di aggrapparvisi mentalmente e di non mollarlo più, come fosse l’ultimo tratto di una fune gettata nello stagno invaso dai coccodrilli.
Poco alla volta la luce divenne più intensa e l’abbagliamento che provocò ebbe l’effetto di risvegliarlo un po’ dal torpore dei sensi che invece lo stava attanagliando sempre più.
Poi una mano gli venne incontro.
Fu l’ultima cosa che riuscì a vedere, prima di perdere i sensi, stremato dal dolore delle ferite.
[continua]