Racconti dietro allo specchio

di

Paolo Raffellini


Paolo Raffellini - Racconti dietro allo specchio
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 98 - Euro 10,50
ISBN 9791259513182

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In copertina: Stone black round board © manyakotic – stock-adobe.com


Prefazione

Paolo Raffellini propone una raccolta di racconti eterogenei che, nella maggior parte, sono impregnati d’un alone misterioso ed enigmatico, cosparsi del senso di dissolvimento in una dimensione eterea ed ammantati d’una costante percezione fortemente connotata psicologicamente.
Nelle diverse fasi del dispiegarsi delle narrazioni, scritte nel periodo che va dal 2010 al 2020, emerge il percorso umano sovente travagliato, l’esplosione oscura degli istinti, il senso della perdita, la percepibile solitudine che attanaglia, il sentore costante d’un futuro rappresentato da un evento indecifrabile ed inconoscibile e gli immancabili colpi di scena che rendono estremamente pulsante la narrazione.
Nel racconto che apre il libro, dal titolo “Playmad”, il protagonista si rifugia alle Isole Canarie alla ricerca d’un equilibrio esistenziale che s’è ormai disgregato, decidendo di fermarsi sull’isola alcuni mesi e facendo la vita del semplice turista.
Durante il processo narrativo, tra inaspettati incontri e vicende surreali, il protagonista è proteso a ricercare un cambiamento radicale nella sua vita ed inizia una sorta di rivisitazione del percorso esistenziale che deflagra attraverso sogni ricorrenti, avvolto da un turbinio di pensieri ed un rimescolamento d’emozioni e suggestioni, tra rimandi psicologici ed evidenze narrative che toccano la narrazione noir.
Il protagonista desidera vivere un “sognante isolamento”, senza uno scopo preciso né una prospettiva, lasciandosi solo cullare dal ritmo quotidiano d’una vita in vacanza e “perdendosi” in lunghe passeggiate sul mare: una sorta di limbo dove eclissarsi.
Eppure il destino cambia le carte in tavola e la narrazione diventa elettrizzante quando incontra una misteriosa donna bionda ed iniziano ad accadere strani avvenimenti: un evento delittuoso segna il loro percorso, tra lati oscuri e complicità silenziosa di “due corpi in un’anima sola”, fino ad un epilogo inaspettato.
Nel secondo racconto, dal titolo “Lettere senza tempo”, il protagonista casualmente legge alcune strane lettere scritte da un bambino che richiamano ad enigmatiche riflessioni e, poi, gli vengono recapitate altre lettere anonime che iniziano a farlo preoccupare: dopo una breve indagine scoprirà che è stato proprio il bambino a scriverle ma ha fatto solo ciò che gli ha chiesto il nonno che però è morto ormai da alcuni anni.
Anche in questo caso v’è un epilogo sorprendente perché l’intera vicenda è solo il frutto d’un esperimento che è generato da una connessione pluricerebrale grazie agli studi sui neurotrasmettitori.
Nel libro sono presenti anche altri brevi racconti che lascio alla curiosità del lettore.
La visione letteraria di Paolo Raffellini diventa strumento per rivitalizzare le storie raccontate creando una impalcatura narrativa che riesce a sostenere le vicende prese in esame ed è sempre tesa a dare una possibilità d’uscita dalle zone oscure e dalle atmosfere soffuse ed imperscrutabili per evadere da una condizione esistenziale che deve fare i conti con l’imperscrutabile.
Durante il processo emerge chiaramente che i vari racconti rappresentano la fedele immagine d’un percorso che si snoda tra arcani labirinti e riconduce alle occasioni dell’umano vivere che possono presentarsi nel momento più impensabile.
La tessitura narrativa vive sovente una sorta di sospensione, ammantata d’una tensione che riconduce al senso di smarrimento dei vari protagonisti che non riescono più ad avere risposte né certezze né prospettive, ormai disposti ad abbandonarsi al fluire inesorabile della vita in preda ad una liquefazione mentale.
Paolo Raffellini desidera disvelare le vane parvenze ed ecco allora che si sprigiona una deflagrazione interna delle umane percezioni, oltre alla necessità di un riempimento del senso di vuoto, l’esigenza di distillare l’esistenza goccia a goccia, senza nutrire aspettative perché tutto si consuma e finisce: il personaggio simbolico è solitario davanti all’inevitabile fine d’ogni presunta certezza, impotente al cospetto del corso del destino che è dominus indiscusso d’ogni storia narrata.
Tra le fenditure dell’umano vivere si insinua l’oscura contaminazione che pervade il profluvio di emozioni come le suggestioni quotidiane, e davanti a tragici eventi, ad un delitto commesso o ad esperimenti inerenti i neurotrasmettitori che contrassegnano i primi due racconti, domina la volontà di comunicare l’enigma della vita e tentare di trovare una soluzione ben conoscendo la drammaticità dell’esistere e l’inevitabile molteplicità delle sue metamorfosi.
Emerge la sensazione di dissoluzione, tra vertigine narrante e potenzialità d’una forma mentis che, in verità, indaga il significato ultimo dell’umano esistere o, forse, il disperato tentativo del superamento del nulla che ci attende.
Durante il processo narrativo i vari personaggi sono resi in modo efficace e le atmosfere, sempre vagamente misteriose ed enigmatiche, aggiungono un senso di sospensione atemporale nell’attesa d’un sorprendente evento imminente.
Paolo Raffellini miscela percezioni dell’animo e rimandi esistenziali, frammenti d’emozioni e visioni ermetiche ed imperscrutabili, costantemente pervase d’un alone di mistero in una rappresentazione narrativa che contempla un profondo scandaglio del mondo interiore dei protagonisti, sempre protesa a cogliere gli aspetti più celati dell’animo umano.

Massimo Barile


Racconti dietro allo specchio


PLAYMAD
(Playmas)


Premessa

Questo racconto è una sorta di trasfigurazione degli accadimenti di cui è protagonista un uomo che non ha trovato una propria collocazione nell’esistenza, e si ritira per cinque mesi su un’isola (ma non deserta…) alla ricerca di silenzio e distacco, per riflettere sulle possibilità di un grande cambiamento di vita. L’interazione con luoghi, atmosfere e persone al confine tra il misterioso e il surreale, lo induce ad un’intima rielaborazione degli eventi in un crescendo di suggestioni, a tratti grottesche, che culminano in un finale a tinte cupe, dove i nessi causali e temporali sembrano sospendersi e seguire una logica propria. La vera trama non è tanto nello svolgersi dei fatti, a volte privi di un’evidente consistenza esteriore, ma nei pensieri vagamente epifanici che essi scatenano nell’individuo che li vive e interpreta, alle soglie del giro di boa della mezza età. Rimane il dubbio che l’epilogo, valutato in chiave psico-sociologica, sia più una delle tante testimonianze della banalità del male oppure la manifestazione di un distorto impulso “aristocratico” inaccettabile su ogni piano, almeno dalla civiltà moderna.

Ogni riferimento a persone esistenti e fatti surrealmente accaduti è esattamente voluto.


PLAYMAD

MESE 1

Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure
(I. Calvino)

Durante il volo, l’alternarsi di ombra e bagliori di sole che osservavo dal finestrino dell’aereo, mi aveva riportato con la memoria a quando da bambino, steso sul prato, fissavo un punto indefinito del cielo e ascoltavo l’eco sorda di un aereo invisibile, seguendone il suono col movimento della testa.
L’annuncio dell’imminente atterraggio mi distolse da quell’immagine e quella dell’oceano ne prese il posto.
Poche ore di viaggio, e da un inverno umido mi ritrovavo in un tramonto estivo sulla strada per un villaggio turistico.
Da lontano il villaggio sembrava un labirinto di piccole case bianche e blu. Quando arrivai era già buio, qua e là brillavano le luci di qualche ultimo albero natalizio.
Dopo la consegna delle chiavi lasciai i miei bagagli e uscii per le strade; le vie principali erano circolari, si ritornava al punto di partenza.
Passarono alcuni giorni prima che entrassi nell’ordine di idee di quella che sarebbe stata l’effettiva durata del mio soggiorno a Gran Canaria: ero arrivato in gennaio e sarei tornato in Italia a giugno. Non ero lì per cercare lavoro ma neanche potevo rimanere cinque mesi facendo e spendendo come un turista di passaggio; accontentandomi di un tenore di vita modesto mi sarei potuto godere l’isola per tutto il tempo, spostandomi con autobus e taxi molto economici.
Ero partito alla ricerca di un sognante isolamento, che pensavo di poter trovare nel calore dorato dei panorami variegati di quel microcontinente al confine di due mondi, e nonostante sapessi che ciò che di sé ci si porta dietro in un viaggio non è né più né meno di ciò che si ha a casa, avevo la forte persuasione che la distanza fisica potesse separarmi anche dalla vita piccolo borghese che avevo lasciato, a cui non ero mai riuscito ad assuefarmi completamente, nonostante gli innumerevoli aspetti positivi.
Lo sfondo delle giornate sempre uguali a sé stesse, le domeniche avvolte dall’inconsistenza, il ritorno alla quotidiana laboriosità avvolta dal riflesso quasi angosciante della propria estraneità alle persone intorno.
Le maschere non aderiscono mai completamente alle fattezze, ma quando avevo provato a toglierle, insieme all’immagine proiettata all’esterno avevo oscurato anche l’immagine proiettata all’interno. Le abitudini non avevano funzionato.
Avevo trascorso innumerevoli notti nell’avvicendarsi di impressioni tra fila di libri colmi di fugaci consolazioni e pensieri che la mente non può trattenere e a volte sostenere. Ed anche quando l’essenza di ciò che abbiamo intuito riesce a diventare pensiero, ogni scoperta perde la propria purezza originaria se passata al setaccio dell’utilità. Ora, l’assenza di un vero e proprio scopo, se da un lato toglieva ogni punto di riferimento, dall’altro mi regalava una libertà pericolosa ma colma di promesse: quella di gettare lo sguardo in un abisso di cui potevo scegliere la profondità. Partire non era stato solo un inizio, ma già un obiettivo.
Tra i primi a colpire la mia attenzione, nel vasto campionario di personaggi pittoreschi presenti nel villaggio, ci fu Ezio.
La sua fisionomia evocava in modo sorprendente quella di un Don Chisciotte malinconico, arrabbiato, mai domo, e anche il suo atteggiamento un po’ istrionico ricordava in effetti l’immaginario cavaliere di Cervantes. Stralunato, inverosimile, un numero tale di nemici da sembrare inventato.
Ezio era così magro che, se non fosse stato per il suo casco di capelli lucidi di tinta, sarebbe apparso bidimensionale come una sagoma di cartone.
Lo conobbi nel bar che si trovava appena fuori dal villaggio, La Rusticana, dove abitualmente facevo colazione e spesso pranzavo quando non avevo voglia di prepararmi da mangiare. Stava tentando, in uno spagnolo improbabile, di convincere due turiste ad affidarsi a lui per qualunque informazione su luoghi e locali, fingendo di essere un grande conoscitore delle isole Canarie (anche se si trovava lì da poche settimane). La barista italiana, distratta e divertita, condivise i miei sorrisi perplessi e bonari.
Appena si accorse che anche io ero italiano, rinunciò alle proprie velleità di guida turistica e, assumendo un atteggiamento che mi ricordava gli arzilli pensionati delle balere padane, mi rivolse la parola come fossimo vecchi amici. Compiaciuto della educata e silenziosa attenzione con cui reagii, propose di bere qualcosa e ci sedemmo a un tavolo, dove mi raccontò senza molti preamboli di avere dedicato tutti i suoi anni al lavoro nella propria officina, un lavoro duro e senza orari che gli aveva lasciato una schiena malconcia, calli indelebili su mani magre e nodose, e procurato un notevole conto in banca.
La sua attuale preoccupazione era quella di potersela godere dopo cinquant’anni di sacrifici e non lasciarsi “portare via tutto” da una ex moglie prima nullafacente e ora anziana e malata, oltre che dai due figli scostanti e approfittatori.
La conversazione era partita con questi toni e io ovviamente non sapevo chi avessi di fronte, né quanto di vero ci fosse nel suo sfogo, ma constatai quell’impulso a raccontarsi che così spesso le persone manifestano con gli estranei in circostanze estemporanee.
Quell’incontro mi lasciò però uno strascico di disappunto: ero lì per starmene da solo, e alla prima occasione mi ero lasciato coinvolgere, anche solo per il tempo di due birre, dalle frustrazioni di uno dei tanti eccentrici che brulicano per il mondo.
Dovevo stare più attento e impormi un preciso stile di vita quotidiano. Cominciai a invertire il giorno e la notte: dormivo fino al primo pomeriggio, andavo in spiaggia in bicicletta con musica e libri, mi facevo avvolgere dalle ultime luci del tramonto e tornavo al mio appartamento. La sera, dopo qualche ora di immersione nello spagnolo coi programmi televisivi alternati allo studio un po’ svogliato della grammatica, uscivo per interminabili camminate nei luoghi più diversi, a volte pieni di luccicanti distrazioni, a volte totalmente isolati, immerso nell’attenta osservazione di ciò che mi stava intorno, o semplicemente rapito dal silenzio che assorbe nella fissità della notte. Gran Canaria ha molto da offrire da questo punto di vista.
All’alba andavo a dormire, incrociando all’entrata del villaggio i più mattinieri, in genere anziani nordeuropei, o gli ultimi festaioli di ritorno dai locali notturni, in genere giovani italiani e spagnoli.
Dopo quasi due settimane di questi ritmi capovolti e solitari, accettai di buon grado di aggregarmi alle brevi gite di una coppia di coniugi romani, che si erano presi un mese di vacanza dalle rispettive professioni per testare la qualità della vita sull’isola, ed eventualmente trasferirsi stabilmente una volta raggiunta la pensione.
Ci fermavamo sempre in qualche paesino sul mare, coi panini al sacco, come si usa per le gite fuoriporta. In poco tempo avevamo percorso l’intero perimetro costiero.
Loro tornarono in Italia prima della fine di gennaio, e io continuai da solo le escursioni in quei luoghi dove è sempre primavera.
Volli ripercorrere il tratto di costa che da Maspalomas (dove partivo) risaliva a est fino a Mogàn, e decisi di farlo a piedi, tornando la sera in autobus (il guagua) e raggiungendo il giorno dopo, ancora col guagua, il punto in cui mi ero fermato la sera prima, per riprendere il cammino. Prevalentemente percorrevo il lungo mare o le sue piste ciclabili, a volte ero costretto a rientrare per strade interne, che consentivano di ammirare il paesaggio dall’alto. Fu un tutt’uno, partendo dalle famigerate dune, superare il faro ottocentesco e attraversare quel meraviglioso tratto prima sabbioso e poi roccioso chiamato Pasito Blanco, impreziosito dalla distesa verde dei campi da golf adiacenti.
Da lì un altro lungo tratto fino al porticciolo di Arguineguin, dove mi fermai in una locanda a mangiare il pescado fresco. Poi Anfi, Playa de Amadores, ammantate di sabbia caraibica, che fanno da preludio a Puertorico, un gioiello incastonato nella montagna, con le sue case bianche che ricordano i borghi siciliani e la scura scogliera a strapiombo sul mare, dove all’ora del tramonto si consumano vertigini e suggestioni, nell’indistinguibilità di essenza e apparenza, di oggetto e soggetto.
Una sera, incurante dell’orario, persi l’ultimo autobus per tornare al villaggio; poco male, sarei tornato in taxi, e a quel punto tanto valeva rimanere fuori fino a tardi per dare un’occhiata ad una zona meno turistica di quelle che avevo frequentato durante le notti insonni.
Chiesi consiglio in un chiringuito dove mi ero fermato a mangiare, senza esitazioni mi indicarono una frazione verso le colline a pochi chilometri da lì, perché in quelle serate si stava celebrando la romerìa, la tipica sagra paesana in onore di qualche santo. Probabilmente mi dissero anche che una delle caratteristiche di quelle feste popolari era l’abbigliamento degli abitanti, vestiti coi costumi contadini tradizionali, ma non lo capii; la mia comprensione dello spagnolo, nonostante l’assonanza (spesso ingannevole) con l’italiano, era ancora incerta.
Questo aspetto della serata mi si presentò appena scesi dal taxi: le donne portavano lunghe gonne variopinte e ampi fazzoletti sul capo, vecchie, giovani e bambine. Gli uomini indossavano in maggioranza camicie bianche, corpetti lucidi, larghi pantaloni e cappelli sul genere picador. Mi sentivo un po’ ridicolo in jeans, maglietta, scarpe da ginnastica e zainetto da mare, ma non ero certo l’unico straniero presente, anzi mi accorsi ben presto curiosando in giro, che una delle maggiori attrazioni della serata era un mio connazionale…
Mi ero avvicinato a un capannello di persone euforiche che incitavano e facevano cerchio intorno ad un uomo chiaramente poco lucido che si stava spogliando, a ritmo di musica, con movimenti bizzarri e scoordinati: si trattava di Ezio, la sua scarna corporatura era inconfondibile.
Sul momento non potei resistere ad una istintiva risata di sorpresa per quella scena così ridicola, ma la generale derisione si fece troppo sgradevole man mano che Ezio non accennava a contenersi nei limiti della decenza. Feci giusto in tempo a raggiungerlo e fermarlo per evitare che i telefonini riprendessero la completa umiliazione, lo presi per un braccio, lo feci rivestire e lo portai via da lì.
Appena mi riconobbe, l’orgoglio alterato dall’ubriachezza gli impedì di colpevolizzarsi e quasi se la prese con me, ma appena rimanemmo soli, si rese conto di quanto il suo desiderio di protagonismo lo avesse messo in una situazione vergognosa, esprimendomi in qualche modo gratitudine.
Guidai la sua auto fino a Playmas (il villaggio dove entrambi avevamo l’appartamento) e lo lasciai davanti alla sua porta, immaginando che l’indomani l’avrei trovato davanti alla mia, come accadde.
Mi invitò a pranzare insieme senza un minimo accenno a quanto era successo. Per comodità andammo nel bar-ristorante dove ormai eravamo entrambi ben conosciuti.
Ci mettemmo a chiacchierare del più e del meno, e di tanto in tanto si sedeva con noi Costanza, la ragazza del locale, che con i suoi primi e le sue pizze ci teneva legati ai sapori di casa nostra.
Il “cavaliere tragicomico” (come io lo nominavo dentro di me) era incuriosito dal fatto che io sarei rimasto a Gran Canaria per alcuni mesi non per cercare un lavoro ma per prendermi una pausa di riflessione prima di cominciare una nuova vita, chissà dove e chissà come.
Si era convinto che me la passassi molto bene economicamente per potermi permettere quella pausa, e probabilmente pensava anche che io avessi poca voglia di “fare” (su questo in un certo senso non si sbagliava in quel momento).
Mi colpiva l’umanità priva di filtri con cui si ostinava in atteggiamenti subdoli, senza curarsi dell’effetto che questi potevano avere sugli altri. Tentavo, come puro esercizio di fantasia, di attribuire al suo grottesco istrionismo quasi un carattere letterario, ma in ogni caso egli appariva tristemente misero.
Dopo il caffè ci salutammo con l’intenzione di rivederci in giro. Di lì a poco sarebbe trascorso un mese dal mio arrivo a Playmas; ascoltare un notturno di fronte al bagliore argenteo delle dune al chiaro di luna, o lasciarsi blandire da qualche aria wagneriana osservando il mare infrangersi contro le rocce illuminate dal faro, stava diventando, notte dopo notte, la mia quotidianità.
Mi ero isolato quanto basta per poter trascorrere la maggior parte del tempo da solo, ma senza escludere completamente i contatti con la vita che mi stava intorno. Non ero tenuto a preoccuparmi dell’effetto di abitudini, umore, aspetto, comportamenti, che costringe inevitabilmente nella vita in comune a un velo perenne di omologante ipocrisia.
Potevo rimanere in quel limbo, oppure compiere un passo ulteriore verso il completo ripiegamento in me stesso, dissolvendo anche l’ambiente intorno. Questa possibilità rimase latente, le circostanze mi offrivano in quel momento l’occasione unica di esperienze dal contatto con luoghi a me estranei, un mare così diverso, per sapori e odori, da quello che da sempre avevo conosciuto.
Sì, forse un giorno o l’altro avrei potuto spingermi oltre, fino a trascendermi, fino al miraggio di un distacco totale dal mio io, ma ciò richiede un percorso spirituale (e per necessità anche fisico) per il quale mancavano ancora le necessarie condizioni.
Le mie vaghe cognizioni del misticismo nelle sue varie declinazioni, si erano fermate ad un punto di non ritorno, in cui non riuscivo a comprendere che cosa ci fosse di così “decisivo” nell’anestetizzarsi in uno stato di coscienza privo di ogni condizionamento, per farsi riassorbire presumibilmente in ciò che ci ha generati. Se c’è una forza, un’energia che fa esperienza attraverso di noi, allora lasciamogliela fare; c’è già la morte che annulla ogni sofferenza e gioia, perché anticiparne le condizioni, senza un buon motivo?
Non credo nella meditazione come pillola giornaliera contro le difficoltà, ma la intuisco come strumento di ascesa verso qualcosa di non interamente esplicabile nel processo di conoscenza del reale, che non può essere vissuto come semplice parentesi indotta a comando, e non si può conciliare con gli affetti, con l’abitualità ai rapporti umani, anche se insignificanti, che le necessità della vita e del lavoro implicano.
A proposito del lavoro, nel prospettare il futuro, la scelta fu la più logica: un impiego notturno.
Lavorare di notte mi avrebbe consentito un parziale allontanamento dal chiacchiericcio quotidiano; le offerte in Italia non mancavano, ma una serie di limiti di natura legislativa che di fatto non mi rendevano appetibile per un’assunzione prima di sei mesi, mi avevano costretto a rimandare il tutto.
Il viaggio nell’isola spagnola non era il mio programma originario, ma era diventato, per il concatenarsi degli eventi, lo spartiacque tra la mia vita prima e la mia vita dopo. Un “attraversamento” che avveniva a migliaia di chilometri da casa, con il dubbio su quale sarebbe stata dopo la mia casa.
Poteva sembrare la simulazione di una fuga, ma ammesso che lo fosse, era la fuga di chi, accertata l’insanabilità dei mali di un’epoca, ritiene che sia molto più coraggioso scostarsi, ed escludersi per osservare da lontano con occhio diverso, che dirsi sconfitti ed annullarsi definitivamente in una muta e dolorosa mimetizzazione, adattandosi e cedendo alle lusinghe che quei mali sono in grado di dispensare.
Gli intrecci in cui la nostra indole e le circostanze del mondo esterno si avviluppano nello stesso terreno, fruttano un germoglio a cui noi possiamo legare un destino, se riusciamo a scegliere quali tonalità debbano prevalere sulle tante sfumature presenti.
In quel primo mese, una realtà trasfigurata iniziava a poco a poco ad apparirmi, come a chi, guardando il transito delle nuvole, si schiudessero per la prima volta in modo nitido le curiose forme che possono assumere, nel loro lento sfumare, fino a crearle osservandole. Cosa sarebbe accaduto se il mio sguardo fosse stato capace di penetrare oltre che nei luoghi, anche nelle persone?

[continua]


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