Un organetto…
(introduzione)
Mescolavo il mio povero alfabeto
al fumo caldo del tuo cioccolato
(solamente qualcosa di speciale
poteva riportarti lì con me)
ma un organetto macinava un fado
e il tuo rossetto smorfiato di cacao
m’ha detto addio tacendo
mi hai lasciato
col mio povero alfabeto rovesciato
sul marmo nero del tavolo di un bar
a bere il mio caffè non zuccherato.
Senti:mento del tempo
Senti:mento del tempo
Anche nel silenzio sabbioso
di orologi mummificati,
anche nei giorni senza vento
scritti con la carta carbone,
tra vele accasciate
su immobili rive
matura il tempo della metamorfosi
e l’uomo tradito si ritrova
immagine sfuocata
poi ombra, poi eco che si stinge
nei lavaggi di memoria in memoria:
lavora, il tempo,
scompone
ricompone
sgretola
dispone…
E poi
I pantaloni ancora corti
ben sopra le ginocchia martoriate
dai salmi, e sassi e calci
del piccolo campetto di parrocchia,
le prime volte che passavi l’Arco
da solo verso la città,
calzoni incoraggiati dai rammendi,
tasche sfondate che dopo pochi passi
perdevano monete inesistenti
e le speranze, poco persistenti
come un vino modesto.
E così presto poi
la compagna dei giochi
coprì col fondotinta della mamma
l’innocente richiamo (o forse
solo una timida promessa?)
di quel suo misterioso farsi donna
che tu intuivi appena
avere il nido sotto la sua gonna,
e poi le prime sigarette
sui libri della scuola marinata
nascondendo la tosse tra gli scogli
là dove il fiume si faceva grande
per diventare mare.
Undici Agosto
Dietro la pioggia di una molle notte
son cadute le stelle a san Lorenzo,
ecco cocciuta mente
la prima luce e mesce
il bacio ormai ossidato del mattino:
che giorno porti
se la memoria è pane
e respiro e stampelle,
non più rimpianto
non più ferita e lutto?
son cadute le stelle
e il cielo è sempre quello,
una macina spinta
da mansuete lancette.
Sulla scala
Ora si fa più ripida la scala
e inciampa il fiato,
chino sul corrimano
più non guardi in avanti
dove cova l’inverno
ma volgi sul passato gli occhi,
e ti si fa più chiaro:
c’era una sola cosa da capire,
come si fa a volare
anziché razzolare nel cortile
e truccar d’infinito
con rumori d’inchiostro
miopie perimetrali:
ora matura amaro miele
l’alveare che nutre la memoria
e una desolata rabbia esangue
si appiccica alle dita
(del resto nel deserto il vento
non solleva che sabbia).
Senza neppure il cenno
Senza neppure il cenno
di un difficile addio
a metà di una storia
qualcuno s’alza
e se ne va
agli altri della fila
restano in controluce
le parole non dette
bucato appeso ad asciugare
dimenticato da un trasloco in fretta
una assenza ingombrante
che li stringe l’un l’altro
come le margherite
di un prato inacidito
in un buio d’Aprile.
La linea retta
Dove va la linea retta
insaziato predone di orizzonti
geometrico orgasmo di punti
senza capo né coda?
Che mai sarà la linea retta,
rotolare lontano di tuono
strisciare di serpe nei deserti
corsa schiumante nel vuoto
di un toro al guinzaglio
sipario e barlume di sogno
tana di talpa cieca
alle siepi di Recanati
(…ai brandelli di Gaza
al rosso di Berlino a Zidane…)
dalla sua rettitudine ostinata
(così scavava il cerchio
l’asino della macina)
c’è chi urla il confine
tra emisfero del bene
e terreni del male,
tra l’abisso e il cielo,
ma la retta è steccato virtuale,
salto agevole alle pecore
per convocare il sonno.
Che so?
Non sai quanto è difficile
nascere con le scarpe
e coprire la strada
fra sorpresa e stupore, tu,
col tuo bagaglio a mano
di miraggi e sabbia dei deserti
che arrivi senza un fax, una mail,
senza il gesto civile di un avviso
per darci il giusto tempo di pensare,
prepararti grammatiche illustrate,
insegnarti gli stop,
il divieto di sosta quando ingombri
certi cavalcavia dell’anima…
potevamo iniettarci vaccini
per gli opposti isterismi
(il pastorizio “nulla
ti può mancar nei miei pascoli”
e l’altro, il catastale
“è la mia casa questa
e te ne devi andare”),
potevamo, che so?, chiedere ai Rolex
un segnale che il tempo
se si muove
erode coerenza all’egoismo.
Guardarsi negli occhi al Mc Donalds
Il pollo si raffredda
nel sudario di plastica.
Tu rigiri l’anello
mi accarezzi la mano
e baci le tue chips,
nel volo dei tuoi occhi di farfalla
sgabelli tubolari
bolle di coca cola
quieti bambini che aspettano gelati
i grembiulini rossi
tovagliolini rossi
spruzzi di salse (rosse)…
fruscia rassicurante
il guscio di cristallo
tiene fuori la pioggia
e i clacson impazienti
e i bambini che saltano in aria a Bagdad.
Su e giù per il parco
Viale ancora prostrato di pioggia
nelle unghie del vento di mare:
offuscante luccicore di gel
sospeso sul nulla
come nebbia su campi incolti:
io cammino da vecchio
e il parco sembra Marte
è stagione l’autunno
che più delle compagne
divarica stagioni
le foglie scendono a coprire ricordi
non scuote più mio padre
i suoi pochi capelli
quando metto sul piatto i Rolling Stones…
[continua]