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Elogio della tenerezza
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In copertina fotografia di Attilia Franchi
Prefazione
Nel volume “Elogio della tenerezza”, Piergiorgio Bortolotti raccoglie nove brevi racconti che sono collegati dal filo conduttore d’una intensa e solida volontà di elevare al più alto grado la “tenerezza“che l’essere umano porta con sé, il desiderio di amare pienamente la vita e coloro che condividono la gioia dell’esistenza, e infine, la dolcezza che si può cogliere anche nei momenti più difficili, anche nelle situazioni in cui la sofferenza sembra avere il sopravvento.
I racconti nascono da un oceano di emozioni, da un recupero memoriale miscelato con una costante capacità evocativa, da una continua riproposizione di schegge quotidiane di vita affettiva tra moglie e marito, tra genitori e figli, tra persone che ormai hanno raggiunto l’ultima stagione della vita: sempre prevale la visione positiva della vita che può regalare la gioia infinita, l’amore unico, la tenerezza d’un bacio, d’un abbraccio, d’un sorriso; e poi la continua consapevolezza che è fondamentale la presa di coscienza di sé e la capacità di preservare una trasparenza esistenziale.
Nei nove racconti di Piergiorgio Bortolotti possiamo ritrovare l’urgenza di porre in primo piano un costante elogio della tenerezza, riuscendo a mantenersi in equilibrio tra memoria, immaginazione e sogno. Le sue parole predispongono alla dolcezza dei sentimenti, alla verità degli affetti, alla coerenza delle scelte: le atmosfere alle quali l’Autore fa riferimento sono lo strato poetico sul quale innestare una visione delle manifestazioni della vita, la visione intima, il desiderio di testimoniare la funzione salvifica dell’amore.
Ecco allora che i protagonisti dei racconti diventano simboli narrativi per esprimere la tensione emotiva e l’essenza autentica del vivere: a partire dal primo racconto che vede il piccolo Domenico coltivare il “sogno di volare” mentre si dondola sul ramo più alto della grande betulla; poi la piccola Marta, con il suo sguardo profondo e i suoi riccioli, testarda e grande sognatrice, che si nasconde, con la sua amica Teodora, in un prato circondato dal bosco e, in questo rifugio, crea un piccolo villaggio di folletti; e poi Tommaso che chiede a suo padre di costruirgli un grande castello; Nicola, un bambino di soli sette anni ma veramente pestifero, che riesce a far dimenticare alla mamma tutte le sofferenze e le fatiche anche se deve svolgere il ruolo di unico genitore; poi la gioia immensa di Laura e Michele per la nascita del figlio Norberto dopo i dolori della guerra e i sogni infranti, così come Martina e Damiano con i loro cinque figli e la figura di Damiano che sa essere un “vero” padre; o Maria e Contardo che ricordano il ritorno a casa dopo la guerra e le esperienze della loro vita nel momento in cui si avvicina l’ora della fine.
In ultima analisi, proprio come nel racconto che chiude la raccolta con la figura di don Gregorio, ritroviamo la sostanza autentica del vivere: proprio come lui che era sempre stato dalla parte degli “ultimi” e dei sofferenti, proprio come lui che ancora riusciva ad assaporare la gioia d’una passeggiata all’aria frizzante del mattino, ora che aveva deciso di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in un piccolo paese di montagna, non rimaneva che pregare con il cuore, immerso nel silenzio e nella contemplazione, in ascolto della voce che lo avrebbe accompagnato nell’ultimo viaggio.
Le parole di don Gregorio chiudono l’avventura umana, l’elogio dei sentimenti puri, la verità dell’amore che sono le colonne portanti di questo libro di Piergiorgio Bortolotti: “Ho terminato la corsa, ho conservato la fede”.
Massimiliano Del Duca
Elogio della tenerezza
Mattino
Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
Salmo 138
COM’ERA bello dondolarsi sul ramo più alto di quella gran betulla al margine del bosco! Volare era il suo sogno di ragazzino incurante degli ammonimenti famigliari. Qualche caduta c’era stata, ma in altri tempi, quando lui era meno esperto nell’arrampicarsi sulle piante. Ora si considerava un provetto scalatore; meglio un pilota con brevetto. E le cicatrici impresse nella carne, immaginava fossero ferite conseguite in battaglia.
Lassù, in alto, si sentiva quasi padrone di tutto il mondo circostante; un principe guerriero, un gran sovrano e dava ordini a servi immaginari, guerrieri in armi, compagni di ventura. La gran betulla l’aveva ribattezzata il CONTE; un nome suggeritogli in modo inconsapevole dal nonno, che era un grande cantastorie.
Era geloso, Domenico, del suo aeroplano. Sul CONTE non faceva salire nessuno e se qualche volta succedeva che si portasse appresso qualche compagno di gioco, lo faceva stare molto più basso di dove si andava a sistemare lui. Lui era il capo; era il pilota, e l’altro un semplice ingenuo passeggero.
Le scorribande più pericolose assieme al CONTE, le amava fare in completa solitudine e ancora più quando soffiava il vento e si abbandonava libero all’ebbrezza del volare, come soltanto lui sapeva fare.
Raggiunto il punto più in alto della pianta, si allungava lungo due rami con il corpo; poi incrociava i piedi attorno al tronco, apriva le braccia come fossero due ali e si abbandonava al sogno…
Il CONTE! Quel nome gli rimbombava dentro l’anima con la cadenza della voce che era quella del nonno quando gli raccontava quella storia strana il cui protagonista era appunto il CONTE senza altro attributo, senza specificazione.
CONTE, era per Domenico un nome misterioso di cui ancora non sapeva il significato; era soltanto una parola densa di emozioni che aveva i colori delle fiabe, il sapore di mondi sconosciuti, l’inconsistenza delle nubi sopra le quali immaginava di volare.
E intanto che planava dolcemente col vento a sussurrargli negli orecchi, sopra paesaggi esotici e immaginari, udiva quella voce rimastagli nel cuore come un sussurro: il conte… il conte… il conte.
E poi vedeva il nonno in lontananza, laggiù, sotto di lui, quasi un puntino, fargli grandi cenni con le braccia aiutandosi talvolta col bastone. Pareva gli dicesse: «Vola più in alto. Vai più su, non aver paura; del CONTE ti puoi fidare ciecamente, ci sono stato ancora anch’io…»
Allora Domenico prendeva coraggio e si lanciava all’inseguimento del suo più acerrimo nemico: il DRAGO ROSSO.
«Ti prendo!» gli gridava; «Non hai più scampo: a noi due, marrano». Il DRAGO ROSSO era il suo rivale; il cavaliere alato con cui si azzuffava nei cieli immaginari visti nel sogno mentre era in groppa al CONTE, con tra i capelli il vento che lo accarezzava ruvidamente e lo eccitava suonandogli le foglie, facendole tintinnare come fossero pendagli.
Per Domenico, quel suono, era una vera sinfonia; era un concerto di voci e di suoni che lo proiettava verso spazi siderali, dentro un mondo inenarrabile se non attraverso immagini che lui fissava in fondo alla memoria e che poi recuperava anche nel sonno qualche volta, oppure quand’era a scuola costretto dentro un banco, chino sui libri fingendo di studiare.
Gli era costato sforzo sottostare a quella disciplina, lui abituato a correre libero sui prati a primavera, percorrere di corsa i mille sentieri che si dipanavano nel bosco vicino casa. Eppure gli piaceva andare a scuola, apprendere le cose che la maestra gli insegnava, però...
«Perché mi tocca andare a scuola, nonno?» aveva chiesto un giorno al vecchio, mettendosi in cammino.
«Perché...» rispose l’uomo, prendendo fiato; facendo un’ampia pausa come cercasse la risposta. Poi si sedette su quel grosso sasso che pareva fatto apposta per contenerlo come fosse una poltrona con braccioli riccamente lavorata. Era il suo trono. Diceva che l’aveva spinto giù dal monte tanto tempo addietro e poi l’aveva lavorato perché ci si potesse sedere comodamente a riposare. Ed era vero, infatti. Il nonno si sedeva la sera dopo cena quando faceva caldo. Da sopra il sasso che chiamava DOGE, guardava giù la Valle sottostante e poi faceva i suoi commenti che tante volte gli altri neanche ascoltavano. Domenico invece ascoltava sempre e gli prestava molta attenzione. Qualche volta, il nonno, lasciava fosse lui ad accendergli la pipa, dalla quale traeva cerchi di fumo che si innalzavano per aria come pensieri, seguendo rotte sconosciute, facendosi talvolta tristi ed altre gioiosi.
«Tu vuoi sapere perché bisogna andare a scuola» riprese il vecchio, e gli sembrò in quel momento, fattosi più curvo. «Quand’ero piccolo come te, ci sono dovuto andare anch’io e tante volte non avrei voluto. Poi, fattomi più grande, ho capito quanto era importante sapere tante cose e come la vita ci chieda sempre di imparare. Credo che sia questo il motivo per cui è bene andarci. Sapessi quante volte avrei voluto poter studiare ancora e invece dovevo pensare a lavorare…»
«Ma tu, nonno, sei meglio di un professore; sai tante cose che neanche la maestra mi sa dire» lo interruppe il bimbo, prendendogli una mano.
«Sì, è vero, so tante cose, però non le so tutte…»
«Allora sono davvero tante!»
«Tante? Tu sai quanto è grande il mondo?»
«È grande quanto la terra» rispose Domenico, raggiante, immaginandosi la terra più o meno vasta come il panorama che ammirava quando saliva sopra il CONTE.
«Forse anche di più» sorrise il nonno intuendo cosa pensasse, dandogli quella risposta. «Adesso però devi sbrigarti, se no arrivi tardi…»
«Va bene; adesso corro».
Il sole stese pigramente i suoi raggi tutto attorno, insinuando dolcemente dentro ogni fessura il suo calore, facendo il solletico a insetti, lucertole e uccelletti. Domenico scendeva saltellando lungo il sentiero che come una biscia si snodava fra i prati e i campi terrazzati. Ad una svolta del sentiero si fermò di botto. Era giunto al grande formicaio. S’accucciò osservando con occhi pieni di meraviglia il rincorrersi scomposto delle formiche. Si chiedeva ingenuamente cosa avessero di così urgente da sbrigare tutti i giorni. Poi trasse di tasca un pugno di avena che aveva tolto dalla ciotola alle galline e fece cadere, centellinandoli, i chicchi sopra il formicaio. Si divertiva ad osservare l’accorrere degli insetti sopra la preda e i loro sforzi per farli scomparire, trascinandoli dentro i minuscoli cunicoli del formicaio. Quanto avrebbe voluto potersi introdurre dentro quei buchi e scendere ad esplorarli, immaginando un mondo sotterraneo fatto come le piramidi che aveva visto disegnate sopra un libro che la maestra aveva a scuola.
Si domandava se le formiche fossero organizzate ed in che modo. Immaginava avessero un capo; un re o una regina e delle guardie scelte e tante altre cose.
«Ahi!» proruppe all’improvviso, scuotendo un piede e poi frugandosi dentro il calzino. Una formica, di certo una guerriera, si era intrufolata dentro la scarpa; lo aveva morsicato facendogli un po’ male. Si tolse la scarpa; si cavò il calzino: dell’animale non c’era più alcuna traccia.
“Sei furba!” pensò. “Ed anche svelta” rifletté dopo un momento. Poi si rimise a scendere lungo il sentiero correndo a più non posso perché aveva intuito che s’era trattenuto troppo.
Domenico fece ritorno a casa per il pranzo e lungo la strada si fermò vicino ad uno dei muretti che stavano lì, quasi negletti, per sostenere con il loro sforzo, quei minuscoli appezzamenti di terreno: i campi lavorati con gran cura. Aveva notato un uccelletto volare e rifugiarsi dentro una fessura.
“Di certo lì dentro ha il nido” pensò, avvicinandosi senza far rumore. La sua piccola ombra si stagliò sul muro, ma a lui apparve grande come quella di un fantasma; l’uccello uscì trillando e scappò via. Andò a rifugiarsi fra i rami di un tiglio che sorgeva poco distante. Dall’albero pareva osservarlo con timore. Il bambino si avvicinò ancor più al muretto; guardò attraverso il buco e vide il nido con dentro delle uova piccole e colorate. Non resisté alla tentazione, ne afferrò una con la mano, ma delicatamente. La tenne racchiusa dentro il palmo osservandola in ogni più piccolo particolare. A un tratto gli parve si muovesse e iniziasse a schiudersi… Attese trepidante qualche minuto.
L’ovetto si spaccò e scorse un becco; minuscolo, e poi una testolina: due occhietti che sembravano smarriti. Udì un pigolio e poi si ritrovò con nella mano un piccolo pulcino. Allora lo rimise con mano tremolante dentro il nido e iniziò a correre su per il sentiero, chiamando con gran voce: «Nonno, nonno!»
Raggiunse casa che aveva il fiatone. Dentro stavano tutti seduti a tavola ad aspettare. La madre lo investì quasi con furia: «Dove sei stato? È questa l’ora di tornare?»
«Ma io…» cercò di giustificarsi inutilmente.
«Adesso siediti: stai zitto e mangia».
Il bimbo si sedette accanto al nonno ed iniziò a mangiare, poi gli tirò la giacca sussurrandogli con la più vivida emozione quanto accadutogli lungo il sentiero del ritorno. Il nonno lo guardò; gli accarezzò i capelli e gli sorrise, dicendogli che quando avesse terminato di mangiare, voleva sapere da lui ogni particolare.
«Penso si tratti di un nido di ballerina bianca e spero che non gli abbia fatto male. E poi ricorda un’altra cosa: frugare dentro i nidi non va bene, perché potrebbe succedere che vengano abbandonati dagli uccelli. Ti devi limitare ad osservarli senza essere visto e con molta discrezione».
«Sì, nonno, hai ragione; ma io volevo solo guardarlo da vicino. Ho fatto piano, non gli ho fatto male all’uccellino. Avessi visto quanto era bello!»
«Ne sono più che certo! Adesso però mangia o la polenta si raffredda e allora non è più buona».
«Grazie, nonno. A proposito: buon appetito; mi ero scordato di dirtelo, dall’emozione».
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