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Vite sospese …e per tetto le stelle
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Piergiorgio Bortolotti - Vite sospese …e per tetto le stelle
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 174 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6587-0181
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In copertina fotografia di Attilia Franchi
Prefazione
Si può cadere in una condizione di disagio nel momento più inaspettato della vita e quando meno ce lo si aspetta. Le ragioni per le quali si può finire in mezzo ad una strada, a fare il vagabondo, il clochard, il “barbone” o la persona senza fissa dimora che dir si voglia, possono essere innumerevoli e seguono le molteplici traiettorie della personale esperienza. Ogni essere umano ha un proprio percorso, un travaglio, un cammino che si possono spiegare facilmente o ripercorrendo le tortuose vie d’un viaggio inestricabile: è difficile sondare e valutare le motivazioni che spingono a determinate scelte così “dure” e faticose, sovente, primo passo per un viaggio senza ritorno.
A volte, la caduta fa sprofondare nell’abisso, nelle zone dove v’è solo solitudine, nella dimensione che contrasta quotidianamente con “ciò che si era prima”, a fare i conti con i ricordi “del bel tempo andato” e con le occasioni perdute, con le memorie d’un tempo vissuto che aveva offerto qualche gioia; altre volte, rimane forte la prevalenza d’un sentimento di rancore, talvolta di odio nei confronti di coloro che erano stati giudicati o identificati come la causa del male e della scelta di diventare pellegrini del mondo.
La vita può fagocitare e la caduta non è prevedibile: può dipendere da una difficile condizione esistenziale, dalla perdita del lavoro e quindi della fonte di sostentamento con l’inevitabile esclusione dal mondo produttivo; può essere causata dalla separazione coniugale con tutto ciò che ne consegue; da una grave malattia o menomazione che rendono impossibile “essere efficienti” in un mondo che tende ad escludere i “bisognosi” di cure, e via dicendo, fino a situazioni che superano la più fervida fantasia.
Il romanzo di Piergiogio Bortolotti si prefigge lo scopo di servire come strumento di conoscenza della molteplicità delle avventure umane narrate per far riflettere il lettore su tale condizione di disagio che vede l’Uomo sospinto ai margini della società, lo stesso Uomo che diventa quasi un corpo estraneo al sistema vigente, nonché vuole essere uno stimolo, sicuramente forte ed umanamente coinvolgente, per mettere in evidenza come vi sia una notevole mancanza per quanto riguarda la presenza di una “mano provvidenziale” che offra soccorso ed aiuto nel momento del bisogno estremo: l’importanza di una “presenza amica” che sostenga l’essere umano in difficoltà e, infine, come siano fondamentali l’accoglienza, la capacità di ascolto e la cultura della solidarietà per le persone che vivono situazioni di marginalità e di esclusione.
Da questo “viaggio” nella difficile condizione umana, Piergiogio Bortolotti estrapola alcune figure simboliche che, in alcuni casi, riconducono sicuramente ad un recupero memoriale di personaggi e vicende delle quali è venuto a conoscenza o ha potuto osservare con i suoi occhi e fanno parte del bagaglio esperienziale di un uomo che ha cercato di scrutare la vita, di guardarla nel profondo, nelle sue contraddizioni ed antinomie, nelle inquietudini e nelle zone d’ombra spesso tenute nascoste.
Ecco allora che, seguendo queste direttive, Piergiorgio Bortolotti passa in rassegna, grazie alla sua capacità di raccontare, la galleria di personaggi che, a modo loro, vivono e convivono con la condizione di “vagabondi”: e nascono pagine umanamente e profondamente toccanti, avventure umane che riconducono alla condizione limitante dell’uomo davanti all’imponderabile che il destino riserva ad ognuno; figure letterarie e reali, vicende nate dalla fantasia dell’Autore che rappresentano, simbolicamente, le varie manifestazioni del vivere e, a volte, avvicinano ad una possibile “rinascita”, ad una rappacificazione con se stessi o ad una ultima presa d’atto nella quale “tutto è già segnato”.
Piergiorgio Bortolotti, con sapiente mano, disegna, prima i contorni e poi la sostanza autentica, delle predette simboliche figure, unite dal destino comune: dal suo sguardo attento e capace di fissare ciò che conta, nascono, pagina dopo pagina, il personaggio di Lorenzo, detto Modugno, per la sua abitudine di cantare a squarciagola le famose canzoni di Domenico Modugno. Il suo ritratto è fedele all’immagine del vagabondo: occhi di gatto, sorriso contagioso, capelli sempre arruffati e la barba lunga; nato nell’era fascista, in pieno inverno in un giorno freddissimo, il perfetto “baròn del sòl”, come venivano chiamati i mendicanti che, dopo aver beneficiato della carità pubblica per mangiare, si godevano il sole; era affezionato alla madre ma detestava le altre donne sicuramente a causa della sua triste storia d’amore con la moglie Ernestina; dormiva dove capitava e sapeva voler bene a qualche prete che si interessava alla sua salute e ai compagni di disavventura come, ad esempio, i due amici Sisto e Felice, detti il Gatto e la Volpe, capaci di sbarcare il lunario con grande abilità. Poi il buon Samuele, chiamato Lele, che aveva passato alcuni anni in collegio dopo che il padre era morto in guerra e la madre aveva iniziato a convivere con un nuovo uomo; poi il difficile matrimonio con Giovanna che era finito male anche a causa di dissidi con il fratello di lei e l’inizio della sua discesa: aveva iniziato a bere per dimenticare i dispiaceri: cacciato di casa, abbandonato il lavoro, s’era trovato a fare la vita di strada.
La compagnia, Modugno, Lele, Sisto e Felice, saliva spesso al convento francescano di San Michele, per ricevere qualcosa da mangiare per il “pranzo a mezzogiorno” e venivano accolti da Fra Riccardo, detto Fra Caminho, perché canticchiava sempre un canto brasiliano: era un frate generoso e disponibile, ironico e sempre di buon umore, la sua missione era servire ed aiutare i bisognosi che bussavano al convento; cercava in tutti i modi di offrire un aiuto e un sostegno morale come dimostrerà di fare con il giovane Claudio e la povera e sfortunata Veronica.
Non si possono di certo dimenticare le figure di Leonardo, “quello della borsa nera”, che aveva sempre con sé, vestiva perennemente di scuro e sembrava uno spaventapasseri; durante le fredde notti preferiva coprirsi con i cartoni che erano serviti per imballare detersivi e saponi perché “gli ricordavano il profumo di bucato di quando era bambino”; era una persona buona e gentile anche se la sua identità era un mistero e poi era goloso di caffè. Il suo grande amico era Gustavo che condivideva la stessa vita da vagabondo: Gustavo parlava sempre e si trovavano bene insieme anche perché Leonardo era piuttosto taciturno e, alla fine, uno parlava e l’altro ascoltava.
Poi, ritroviamo la romantica figura di Giovanni, che fin da bambino amava i girasoli e ne portava uno a forma di spilla all’occhiello della sua giacca fin dal giorno in cui l’amata Marilisa gli aveva regalato quella spilla con il girasole ben sapendo che era il fiore che lui amava, in pegno d’amore. La vita poi era andata in modo diverso e Giovanni aveva iniziato la sua vita errabonda, come se non avesse più alcuna ragione di vita, e mille erano stati i luoghi dove era stato, mille i mestieri e infinite le strade che aveva percorso. La spilla con il girasole, conservata gelosamente, gli ricordava il periodo della sua giovinezza che diventava la sostanza stessa della sua esistenza.
E poi, Augusto, detto il Turco, che amava la solitudine e difendeva strenuamente la sua libertà anche se non aveva dimenticato la bellezza di Claudia, il primo amore che gli “era rimasto dentro”; e di seguito, il giovane Armando, un bel ragazzo che si era messo nei guai con qualche furto ma poi aveva deciso di mettere la testa a posto e trovarsi un lavoro come manovale anche se era obbligato ad andare in dormitorio perché non aveva ancora una casa; e ancora Valerio, il più giovane di coloro che vivevano per la strada, ragazzo timido ma capace di esternare tutta la sua rabbia quando beveva.
Solo per citare alcune figure simboliche presenti nel libro che è, come già detto, un’autentica galleria di personaggi multiformi.
La rappresentazione della vita di queste persone, magicamente resa da Piergiorgio Bortolotti, si alimenta d’una sostanza poetica, dolorosamente legata alla constatazione che il cammino dell’Uomo è faticoso ma può offrire spiragli di speranza capaci di illuminare la notte più buia e scaldare il cuore nel giorno più freddo: le parole di Piergiorgio Bortolotti sono penetranti anche nella semplice raffigurazione, nella labile percezione, nella descrizione d’un dettaglio e il suo sguardo, sempre attento ed acuto, coglie lame di luce sui volti e sulle esistenze dei suoi personaggi, semplici vagabondi in questa peregrinazione terrena.
Le vicende della vita potevano accomunare, il corso degli eventi aveva mischiato le carte di ognuno, a volte, in alcuni momenti qualcuno riusciva a percepire il senso della vita e magari incontrare Fra Riccardo che, alla fine, aveva deciso di vivere in strada, in compagnia delle persone bisognose, anch’egli in cammino con i vagabondi: un percorso comune che era stato scelto per testimoniare con la propria presenza che anche i vagabondi, padroni soltanto di avere “per tetto le stelle”, rimanevano esseri umani.
Massimo Barile
Vite sospese …e per tetto le stelle
Dedicato
a quanti ho avuto la gioia
e la fortuna di conoscere,
giudicati superficialmente
pietre di scarto,
per avermi mostrato
le strade dell’umano.
Premessa
La strada non si sceglie; se mai è essa che inghiotte le persone, trasformandole dentro nel profondo. La strada uccide; prima forse nell’animo e poi anche nel corpo. Sono molte le ragioni per cui si finisce in strada. Non c’è un’unica ragione. Magari si assomigliano, però, come è diversa ogni persona, così è diversa anche la storia di ciascuna delle persone che vive in strada. Solo a uno sguardo superficiale, quanti sono chiamati “barboni”, o a voler essere gentili, con termine entrato nell’uso quotidiano, clochard o senza dimora, possono apparire tutti uguali, quasi fossero delle statuette da oscar. Non è così, e allora serve uno sguardo attento, capace di andare oltre il facile giudizio, nel rapportarsi con costoro. Purtroppo non è così. Prevale tante volte il pregiudizio, quando non addirittura il disprezzo neanche tanto mascherato, oppure, che poi trovo non sia neanche tanto diverso, il ritenere che in qualche modo, chi vive in strada, la sua condizione se la sia cercata.
«Maestro, se quest’uomo è nato cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori?» (Gv 9,1) Questa domanda, rivolta dai discepoli a Cristo, che incrocia lungo strada un cieco nato, risuona ancora nei nostri ambienti, quando ci capita di imbatterci in persone considerate fuori dai margini, che noi abbiamo eretto. Ed è una domanda volta a tranquillizzarci. Se all’origine di una caduta, possiamo porre una colpa certa, questo ci placa, ci rasserena. Infatti ci auto rassicuriamo col credere che, noi, “normali”, mai faremo certi sbagli.
L’esperienza mi dice che non è così. Ma lo dicono anche tante storie di persone finite in strada a causa di qualche fallimento esistenziale; di malattia, a causa della perdita del lavoro, una separazione, ecc. Quello che manca in certi frangenti, è quella mano provvidenziale, in grado di soccorrerti nel momento del bisogno. Quella presenza amica, magari anche discreta, in grado di mettersi al tuo fianco; sorreggerti perché tu non sprofonda.
Finire in strada è relativamente facile; uscirne è tremendamente faticoso, soprattutto più passa il tempo. E per taluni è del tutto impossibile, quando la vita di strada è divenuta quasi una seconda pelle. Si crea, nella persona che vive quella esperienza, un’identità altra, difficile da modificare; significherebbe di nuovo perdersi, volerne uscire, e questo è giudicato, più o meno consapevolmente, troppo dispendioso.
Allora l’accento, negli interventi, va posto soprattutto sulla prevenzione, da attuarsi mediante un sistema di welfare in grado davvero di sovvenire i bisogni delle persone più esposte al rischio di esclusione, e poi serve una cultura della solidarietà vera fra le persone. Infine, per quanti già vivono in situazioni di marginalità grave, servono servizi a loro dedicati, in grado di accoglierli per ciò che sono. E servono persone che non proiettino su di loro le proprie aspettative di riuscita, ma, facendosi compagne di cammino, sappiano porsi in ascolto dei loro desideri; farli emergere, stimolandoli ad agire.
Questo romanzo, frutto di fantasia – di fantasia sono i nomi e le storie, anche se si rifanno a quel deposito memoriale che viene dalla mia storia – mi auguro possa aiutare a far riflettere il lettore. Sono convinto che anche la narrazione, possa essere un utile strumento in questo senso. L’augurio che faccio ai miei lettori, è di saper almeno porgere un sorriso e un saluto cordiale a quanti incontrano per la via; un gesto semplice, che non costa nulla, ma che può aiutare a vivere chi lo riceve.
P. B.
Barón del sól
Lorenzo Ruatti. Pochi sapevano chi fosse. Se invece dicevi Modugno, allora non c’era quasi persona che non lo avesse sentito almeno nominare. A metà degli anni Settanta del secolo trascorso, aveva circa cinquant’anni. Mestiere: barón del sól. Questo era il titolo che davano ai barboni e lui pareva soddisfatto; quasi felice di quell’appellativo. Non molto alto di statura, aveva occhi di gatto, un sorriso contagioso e l’aspetto di un istrice svegliato di soprassalto, con quei capelli sempre arruffati e la barba ispida e lunga.
Modugno, il suo secondo nome; anzi, quello usato persino dalla polizia per indicarlo o per riprenderlo quando talvolta doveva intervenire per sedarlo, gli era stato affibbiato a causa di quel suo vezzo di cantare sempre a squarciagola. E lo faceva anche quando era sobrio, ma un po’ più sommessamente, e anche più intonato.
Quando lo comandava il vino, allora sapeva fare soltanto strepiti. La voce gli usciva rauca, ma sempre baritonale, e il repertorio era sempre lo stesso. Un miscuglio di canzoni sacre e profane che infastidivano i passanti e scandalizzavano qualche vecchietta.
Se invece lo si incrociava che era ancora sobrio, o quantomeno non così alterato, era un piacere sentirlo cantare qualche volta. La canzone che conosceva meglio e che proponeva sempre all’uditorio, era “Nel blu dipinto di blu”. Cantava ben intonato, la voce calda, quasi vellutata. Si esibiva per i passanti frettolosi la mattina, oppure per chi sostava in piazza, in altri momenti.
Il berretto, che non usava mai per copricapo, lo disponeva a terra come elemosiniera, aspettando ci piovesse qualche spicciolo per un bicchier di vino. E non mancava mai qualche persona che lo accontentasse; specialmente fra le donne che uscivano di chiesa, dopo la messa la mattina. Magari, gettando la moneta, l’accompagnavano con una raccomandazione: vedi di non usarli per ubriacarti!
«Chi, io? Giammai, signora. Io sono un galantuomo» obiettava, Modugno, facendo un grande inchino e riprendendo il canto da dove aveva interrotto.
Diceva di essere nato nell’anno settimo dell’era fascista. A chi non conosceva quella numerazione, spiegava con pazienza che era del Ventinove. E poi aggiungeva che era nato in pieno inverno, in un giorno che faceva un freddo cane.
«E del fascismo» spiegava, «son stato figlio, anche se un po’ bastardo; come tanti. Sono stato un balilla e un figlio della lupa e quando avevo l’età per diventare avanguardista, allora l’ho messo in culo al Duce» argomentava, facendo il gesto dell’ombrello, accompagnato da una gran risata.
Se fosse tutto vero quanto raccontava, era difficile da dirsi; di certo su quei tempi era assai documentato. Quando riandava col ricordo all’argomento, pareva rivivere momenti che lo avevano segnato nel profondo. Forse perché avevano a che fare con l’infanzia, un’infanzia che, da come ne parlava, non doveva essere stata tanto triste. Diceva anche che il padre era stato un pezzo grosso: «Un gran pezzo di merda» aggiungeva, «a volerla dire tutta. Ha fatto soffrire così tanto la mia povera mamma… E non soltanto lei, però è morto. Che dorma in pace, se gli riesce; altrimenti crepi!» chiudeva, sputando a terra e portandosi alla bocca la bottiglia.
Della madre conservava una fotografia alla quale era estremamente affezionato. La custodiva come una reliquia, e ne parlava sempre bene. Era l’unica donna di cui dicesse cose buone, oltre che delle vecchiette che gli donavano denaro. Di tutte le altre donne aveva un concetto assai spietato: diceva che erano tutte delle gran puttane. Dal che si arguiva che alle spalle doveva avere una storia triste, però riguardo a questo non dava alcuna confidenza. Tranne agli amici di bisboccia, coi quali entrava qualche volta in argomento, facendo a gara a chi diceva peggio, riguardo al gentil sesso.
Dormiva dove capitava; in qualche sottoscala o in qualche anfratto, quando faceva proprio freddo, se no, all’aperto. E quando il termometro scendeva troppo sotto lo zero, allora aveva un rimedio tutto suo, che anche qualche compagno d’avventura s’era permesso qualche volta d’imitare. Andava in cerca di un vigile urbano, ma non di uno qualunque. Sceglieva il più scontroso, e lo insultava apertamente, dicendogli: «Tòi, pizardón dei miei coglioni, sei proprio uno stronzo…» Così riusciva a rimediare una denuncia e una condanna a qualche mese da passare dentro. Il tempo di svernare, appunto, come si era proposto.
A parte questo, non era poi neanche tanto cattivo e a modo suo sapeva anche voler bene; specie ai compagni di disavventura. A qualche oste compiacente; a qualche prete o frate e a quanti gli ronzavano d’attorno, trattandolo semplicemente da persona.
Fra questi c’erano anche degli studenti universitari, che lo avevano preso in grande simpatia. Con loro diventava persino dolce, specie con le ragazze, che forse considerava quasi delle figlie e certo a loro non diceva che erano puttane. E se talvolta gli sfuggiva qualche parolaccia, faceva subito ammenda e domandava scusa.
Un giorno di settembre, di primo pomeriggio, se ne stava beatamente sdraiato su una panchina, nei pressi delle mura, ultimo bastione rimasto di quella che una volta era la cinta cittadina. All’improvviso si svegliò quasi di soprassalto; si mise a sedere, si stropicciò gli occhi e poi si guardò attorno quasi smarrito. Aveva fatto un brutto sogno, ma proprio pessimo, ed anche ora che era sveglio, non era del tutto certo che fosse stato soltanto un sogno e basta. Cercò la bottiglia che ricordava vagamente di avere nascosto sotto la panchina. La traguardò per accertarsi che contenesse ancora vino, poi, stappatala, se la portò alla bocca e bevve fino a non aver più fiato.
«Puah!» sbottò, con una smorfia di disgusto. «È caldo come il piscio. Sarà meglio che vada a farmi un goccio al bar».
Si alzò malfermo sulle gambe, diede un calcio alla bottiglia e imboccò la strada che portava verso il centro.
Lungo la via camminava rasentando i muri delle case e a tratti si appoggiava con le mani, quasi a cercar sostegno. Gli sembrava di non avere la mente tanto lucida e si meravigliò non poco, perché quel giorno non aveva bevuto tanto.
Prese a inveire a voce bassa contro il mondo intero, incurante della gente che gli passava accanto. E quando qualche persona, incrociandolo, esitava a superarlo, indecisa se farlo a diritta o a manca, allora si fermava e le cedeva il passo.
«Modugno è un galantuomo!» diceva, sostando per un attimo. «Si accomodi, dottore; avanti cavaliere; dopo di lei contessa; si accomodi signora» aggiungeva, secondo chi incrociava.
«E oggi, che succede? Non ti senti bene?» lo interrogò a un tratto, una delle passanti.
Modugno si fermò; si mise sugli attenti e fece un impeccabile saluto militare alla sua interlocutrice. L’aveva riconosciuta e dalla gioia le baciò la mano. Era Federica, una ragazza del terzo anno di sociologia, una delle tante che amava intrattenersi in sua compagnia, quando era libera da altri impegni. La ragazza, vistolo in quello stato e pensando non stesse bene, si offrì di accompagnarlo ovunque avesse desiderato.
«Anche sulla luna?» interrogò l’uomo, sfoderando il suo miglior sorriso.
«Anche, se serve» rispose Federica, stando allo scherzo.
«Allora per questa volta, se proprio vuoi» riprese, Modugno, «mi accontento che mi accompagni fino in piazza del Duomo».
«Tutto qui?» interrogò la ragazza. «Sicuro che non abbia bisogno di un medico?»
«Il medico?» interrogò a sua volta Modugno. «E cos’ha il medico perché io lo vada a trovare? Non si sente bene? Ha bisogno di una mano?»
«Dai, non scherzare! Mi pare che sia tu che non ti senti tanto bene e sono alquanto preoccupata…»
«Ah, non c’è bisogno che ti preoccupi di un bravaccio come me. E poi io sto bene; guarda!» disse, mettendosi a stare su un piede solo. «È vero che prima mi girava un po’ la testa e che mi sentivo un po’ confuso, ma è tutta colpa di quella stronza di Ernestina».
«E chi sarebbe questa Ernestina?» domandò Federica, alla quale quel nome risultava del tutto nuovo.
«Già!» rispose, Modugno, facendosi pensieroso. «Dimenticavo che non te ne ho mai parlato. Meglio così. Tanto non è che poi la cosa possa interessarti più di tanto…»
«E invece mi interessa» lo interruppe, la ragazza. «Naturalmente se hai voglia di parlarmene, altrimenti fa lo stesso».
«È che se te ne parlo, finisce che dico una sfilza di parolacce e questo non vorrei proprio che succedesse. Lo sai che boccaccia che sono, quando mi ci metto».
«Ormai ti conosco, Modugno, e non mi scandalizzo più di tanto per il tuo linguaggio. Però se non hai voglia di raccontarmi cosa ti rattrista, fa lo stesso. Ti accompagno a bere qualcosa».
Visto che la ragazza si mostrava tanto disponibile a prestargli ascolto, senza tuttavia insistere perché gli riferisse la ragione del suo malessere, l’uomo alla fine si decise e iniziò a parlare. «Stavo dormendo tranquillo sdraiato su una panchina vicino alle mura, quando devo aver fatto un sogno; un brutto sogno. Mi trovavo a casa mia, intento a spaccar legna nel cortile, quando quella puttana di mia moglie mi ha aggredito senza alcuna ragione, insultandomi a tutto spiano. Allora io ho reagito, insultandola ancor di più. A quel punto ha iniziato a offendermi dicendomi che anche come uomo non valevo niente, che non l’ho mai saputa soddisfare e mentre mi diceva questo, è sopraggiunto Arturo, un mio vicino di casa che, stando dietro di lei, si è messo a farmi dei gestacci, come a dirmi che lui sì, la sapeva soddisfare. Io ho chiesto a Ernestina che significava e quella troia si è messa a ridere, dicendomi: ma sei così tontolone? Ma non ti sei mai accorto che io e Arturo ce la intendiamo da tanto tempo?
Come? Cosa dici? Le ho chiesto. Ma se io e Arturo siamo amici da sempre. Come avete potuto farmi questo? È stato in quel momento che l’ho vista prendere un martello e avventarsi sopra di me. A quel punto mi sono svegliato. La cosa però mi era sembrata così vera, che ho fatto una gran fatica a ritornare in me stesso. Mi sentivo terribilmente arrabbiato e scosso. Ecco perché non mi sentivo tanto bene».
«Allora è stato un incubo!» chiosò la ragazza, sentendosi più sollevata.
«Un che?» interrogò Modugno. «Un incùbo? Cos’è un incùbo?» scherzò.
«Un incubo!» rettificò Federica. «Non dirmi che non sai cos’è un incubo. A proposito: questa Ernestina esiste davvero; è davvero tua moglie?»
«Lo è stata tanti anni fa, ma poi si è messa a fare la battona; anzi lo era sicuramente già da prima che la sposassi, solo che io non me ne ero accorto e quando l’ho scoperto, l’ho presa a calci in culo e l’ho mandata via».
«A parte gli scherzi, sei stato sposato davvero? Hai anche figli?»
«Di figli devo averne in giro per il mondo, però non ho tenuto il conto» riprese a scherzare, l’uomo. «Quanto ad essere stato sposato, sì, lo sono stato, ma è stato l’errore più grande della mia vita. Se mai un giorno ti dovessi sposare anche tu, vedi di cercarti un uomo dabbene. Non lasciarti incantare dal primo stronzo che ti capita a tiro. Il matrimonio è davvero un gran sacramento, credimi» aggiunse più pensieroso. «Meglio che ci pensi a lungo, prima di darla… scusa. Prima di deciderti a un tale passo. Meglio soli che male accompagnati. Credi a me che ne ho fatto l’esperienza».
«Terrò ben presente il tuo consiglio» promise, la ragazza che intanto si era fatta più curiosa. «Però dimmi una cosa adesso: tu, come marito, come eri?»
Modugno si fece una gran risata e poi aggiunse: «Uno scàgazo!»
«Non ci credo!» riprese Federica, alla quale le parole dette in precedenza dall’uomo avevano suggerito la convinzione che la fine del suo matrimonio potesse essere stata una delle cause che lo avevano portato ad abbracciare la vita di strada.
«Beh, ormai non ha più importanza come sia stato una volta. Ora sono quel che sono: se ciava el mondo intero. L’importante è la salute, fin che c’è, e un fiasco di vino, possibilmente di quello buono» concluse con tono di voce sostenuto, non avendo più desiderio di continuare la conversazione. Nel frattempo erano giunti in prossimità di piazza Duomo e Modugno iniziò a cantare come il suo solito, dando la stura al suo repertorio.
Presso il grosso tiglio che si ergeva su un lato della piazza, seduti su una panchina, stavano due compari d’avventura del nostro uomo, che vistolo arrivare, iniziarono a cantare pure loro. Si trattava di due uomini poco più che trentenni, chiamati anche il Gatto e la Volpe.
Il primo si chiamava Sisto. Aveva capelli tagliati corti e scuri. Scuri erano anche gli occhi e aveva una voce profonda. Non era particolarmente alto di statura, però era ben in carne e si capiva che aveva anche lavorato duro in precedenza, perché era abbastanza muscoloso. Lo si vedeva anche in quel momento perché era senza camicia e indossava soltanto la canottiera, nonostante non fosse proprio un gran caldo. Aveva la sigaretta accesa e a giudicare dal colore delle dita, doveva essere un accanito fumatore.
Il compagno aveva un paio di stampelle. Gli servivano per camminare. Aveva una gamba gravemente lesionata; postumo di un incidente sul lavoro. Per quella menomazione percepiva anche una modestissima pensione, che però rappresentava un’entrata importante in quel momento. Di nome faceva Felice e questo era un pretesto per lui per fare talvolta dell’ironia sulla sua vita.
I due passavano parecchio tempo assieme; assieme molto spesso giravano da una canonica all’altra a farsi compatire, cercando di spillare dei soldi a qualche prete. Felice, giocando sulla sua infermità che non disdegnava anche di mostrare per essere più convincente. Sisto, invece, si assegnava il ruolo di accompagnatore e perorava la causa dell’amico, insistendo circa la necessità che aveva di cure continue e magnificando se stesso in veste di assistente.
Solitamente sapevano farsi apprezzare, anche perché non si mostravano particolarmente petulanti. Si accontentavano di poco e poi sapevano anche ridere di se stessi, fare dell’ironia; perfino ammettere, se serviva a raggiungere lo scopo, dire apertamente che avevano bisogno del tanto per bersi un buon bicchier di vino o acquistare un pacchetto di sigarette.
E poi non si limitavano a fare i questuanti e non lo facevano tanto assiduamente. Sisto, ad esempio, quando gli capitava, svolgeva volentieri qualche lavoretto. E ne trovava da fare abbastanza facilmente. Felice poteva contare sulla sua misera pensione. Così, fra tutti e due, riuscivano a rimediare quanto era loro necessario. Per il mangiare, come facevano anche altri, tante volte bussavano al convento, quello dei padri Francescani.
«Oh, ciao, Modugno» salutò Sisto, quando questi gli fu vicino. «Sei in buona compagnia, a quanto vedo. Bene. Tu sì, che sai goderti la vita».
«Chi è questa bella fi… figliola?» intervenne a sua volta Felice. «Posso conoscerla?»
«Piacere! Mi chiamo Federica; sono una studentessa e amica di Modugno» replicò la ragazza, porgendo la mano prima all’uno e poi all’altro. Quindi si sedette a fianco di Felice, mentre Modugno le sedette accanto. Così che venne a trovarsi in mezzo ai due. Ma rimase seduta solo per pochi minuti, perché Felice, con la scusa di parlare con Modugno, le si addossava un po’ troppo e ad un certo punto ebbe anche l’impudenza di posare una mano, con fare indifferente, sulle sue gambe.
«Adesso ti lascio, Modugno; devo scappare e poi vedo che stai già meglio, hai trovato compagnia. Ci vediamo!» disse a un tratto Federica, alzandosi e liberandosi così dall’incomoda situazione nella quale si era cacciata.
«Resti ancora un momento, signorina» implorò inutilmente, Felice.
«Ah ecco! Sei riuscito a farla scappare come sempre. Cosa le hai fatto?» domandò Sisto.
«Ma niente! Le ho solo toccato un ginocchio» spiegò Felice.
«Eh sì! Solo un ginocchio. Hai cominciato da quello, però…» riprese Sisto, che conosceva bene l’amico.
«Ma tu che ci fai alle donne, che tutte ti corrono dietro?» domandò Felice a Modugno.
«Io? Niente, di niente!»
«Avessi io una fi… gliola come quella!» sospirò Felice. «Saprei bene cosa fare».
«Sarà meglio che faccia un salto da don Amedeo, se voglio tirar su qualcosa prima che sia notte» intervenne Sisto.
«Ecco, bravo! Vai da don Amedeo. Mi pare una buona idea, così poi possiamo andare a berci una caraffa. Ho una sete puttana anch’io. E tu?» domandò Felice rivolto a Modugno.
«Io ho sempre sete» rispose questi. «Ma sei sicuro che don Amedeo ti dia qualcosa?» domandò rivolto a Sisto.
«Tentar no ‘l nuoce! O sbaglio?» disse di rimando Sisto. «Meio tentar. Se se prova l’è pù fazile che se combina qualcos. Ah, zerto che se stago chi a ciacerar con voi, no se provese!».
«E allora spicciati; cosa aspetti? Sei ancora qui?» interrogò Modugno.
«Un attimo! Dammi il tempo di pensare a cosa dirgli. Mi fumo ancora en zigheret e dopo vado. Tanto non è molto distante la canonica. Non devo mica fare chilometri» si spazientì, Sisto, mettendosi a sedere e accendendosi un’alfa.
«Ho capito!» intervenne Felice. «Qua, se voglio bere, devo mettere mano al portafoglio ancora io. Però non mi va di restare qui in piazza. Andiamo al bar da Mirko».
«Da quello? Andateci voi, io non vengo. È un pidocchioso, quello» sbottò Modugno. «Due giorni fa mi ha cacciato in malo modo perché mi ero messo a cantare».
«Cantare! Diciamo meglio che stavi belando come una pecora» rise, divertito, Sisto. «Credo bene che ti abbia strapazzato. Al suo posto lo avrei fatto anch’io; gli stavi disturbando tutti i clienti».
«Quali clienti?» domandò curioso, Modugno.
«Beh, c’era la Gina, la Lia, el Todesc, Filippo, Samuele e poi alcuni altri».
«Per gli altri, vada pure, saranno stati anche clienti da tenersi buoni, quanto a quelli che hai nominato: le due donne sono due battone e gli altri non sono molto diversi da noi tre. Se questi sono i clienti che quel pidocchio vuole salvaguardare, che si accomodi. Dovrà fare a meno di me» disse animandosi, Modugno.
«E non ti sei limitato a cantare» riprese Sisto; «te g’hai anca slongà le man con la Gina».
«Le ho solo palpato le tette! Cosa sarà mai? E poi era stata lei a invitarmi a farlo».
«Dubito!» intervenne Felice. «Però, conoscendola, può anche essere andata come dici tu. Lo ha fatto ancora anche con me, salvo poi mettersi a strillare e accusarmi di averla molestata».
«Beh, allora vogliamo andare o stiamo ancora qui a raccontarcela?» intervenne Sisto, spazientendosi. «Perché se non andiamo, io vado da don Amedeo. Almeno mi faccio due lire e poi me ne vado a bere per conto mio».
«Andiamo!» aggiunse Felice, alzandosi e impugnando le stampelle. «Vorrà dire che invece che da Mirko andremo fin in stazione, così siamo sistemati anche per il dormire, per questa sera».
«Ma pensi già a dormire? È ancora presto per pensare a dormire e poi dubito che la Polfer ci lasci dormire in stazione, dopo quello che abbiamo combinato l’altra notte» ridacchiò Sisto, strizzando l’occhio a Modugno.
«Cosa avete combinato, voi due?» interrogò il Nostro.
«Chiedilo a Felice» si limitò a rispondere Sisto.
Si avviarono camminando lentamente. Felice iniziò a raccontare quanto accaduto in stazione due notti prima. Di come erano stati prelevati dalla polizia perché a tarda sera stavano facendo un gran casino, disturbando i viaggiatori in transito. Caricati in macchina erano stati portati in un luogo deserto, in periferia, e lì fatti scendere a smaltire la sbornia. Soltanto in tarda mattinata avevano potuto far ritorno in città, perché la distanza da coprire non era stata poca e avevano dovuto far ritorno a piedi.
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