Rino Gobbi - Viaggio nell’infanzia a Campolongo Maggiore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa 15x21 - pp. 146 - Euro 11,50 ISBN 978-88-6587-0235 Clicca qui per acquistare questo libro In copertina: fotografia dell’autore Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è segnalato nel concorso letterario J. Prévert 2010 Ringraziamenti Un ringraziamento particolare alla prof.ssa Antonia Panizzolo per l’acuta rifinitura del testo. Prefazione Il seme che ha dato vita a “Viaggio nell’infanzia a Campolongo Maggiore” è stato un quaderno dove Rino Gobbi ha iniziato a fissare i suoi ricordi fin dall’infanzia e poi, nel continuo fluire della memoria, ha continuato ad annotare le sue esperienze fino ad oggi. Massimo Barile Viaggio nell’infanzia a Campolongo MaggioreI Il carretto procedeva lento e le sue grandi ruote con i cerchioni in ferro frantumavano i sassi della strada con quello stridio che ancora mi è impresso nella mente. Sedevo davanti, a destra, con le gambe penzoloni, e accanto a me c’era un arcolaio, che noi chissà perché chiamavamo fuso, con tre gambe e una grande ruota; forse era l’unico oggetto, oltre a qualche mobile, che ci portavamo via dalla casa dove sono nato. Ecco, questo arcolaio è l’oggetto che rappresenta il primo ricordo della mia infanzia, che funge da filo conduttore dalla vita inconscia a quando ho cominciato a “vivere” all’età di tre anni, per cui per me rappresenta un qualcosa di sacrale che va al di là delle sensazioni terrene, che mi porta in un mondo inesplorato, arcano e meraviglioso. Abitavo a Campolongo Maggiore, era l’undici novembre del 1950: stavo traslocando da Corrado, da una casa dove vivevamo in cinque in una camera e la cucina serviva per noi e per altre due famiglie parenti alla lontana di mio padre. Mi ricordo che quando stava per nascere Lidia, una delle mie quattro sorelle, qualcuno esortò me e mio fratello Galdino ad andare dai nonni poiché la mamma stava per avere un bambino e doveva stare tranquilla. Ricordo anche la sensazione che provavo: che ci avessero mandati via perché doveva arrivare una donna con un bambino per venderlo ai nostri genitori, che si trattava di un evento strano e sorprendente che doveva accadere, che noi avremmo visto a fatto compiuto. Evidentemente Lidia è nata in casa e sicuramente sarà stata avvolta dalle fasce, come si usava a quel tempo, perché vedo nella mia mente una sorella castigata in questo modo e mia madre nell’atto di sfasciarla. Una volta una delle mie sorelle stava molto male: era bianca in volto, aveva il convulso, pareva dovesse svenire da un momento all’altro; “aveva i vermi”, come si diceva; e vedo attorno a lei alcune persone e mia madre che la sorreggeva e la chiamava; sentii dire: “Dell’aglio!” e poco dopo vidi la bambina con una collana di aglio intorno al collo (a quel tempo se il dolore perdurava se ne introduceva uno spicchio nell’ano). I “vermi” erano causati dall’indigestione o dalla frutta acerba; questi vermi dovevano essere quelli che uscivano durante la defecazione e per quanto mi riguarda era una sensazione schifosa e uno sforzo ripugnante che dovevo fare nel tirarli fuori affinché uscissero del tutto. Si diceva che il verme si chiamava tenia e quando a scuola seppi che poteva essere lungo anche sei metri, mi spaventai. L’antidoto per questo disturbo era la vermolina, un liquido che io ricordo rossastro. Non so se sia stata Lidia o Silvana che, forse in occasione della Prima Comunione, vidi sopra una sedia che indossava una gonna bianca che si allargava tanto da ricordare un abito delle ragazze nobili dell’Ottocento, e mia madre con altre persone che le stava accomodando di sotto un cerchio, meglio dire un telaio, che allargava il vestito. Era usanza in queste occasioni portare un braccialetto e una collana, realizzati infilando le “perle” colorate in un filo; mentre era per divertimento che si mettevano un paio di ciliegie alle orecchie. Quando andammo ad abitare in Corea, esisteva la casa di mio padre detto “Cicio Mursi” (una cucina e una camera con le travi di legno ad angolo che sostenevano il tetto); quella di “Giulio Tirarèsso”; quella dei “Saènte”; della “Tassa”; dei “Crìncoeo”; e davanti ai Crìncoeo, quella dei “Caeociòi”. Più a nord si confondeva con gli arbusti il caseggiato dei “Munci”, con vicino la piccola abitazione dei “Lupo”. Nella casa dei Caeociòi, dopo che se ne andarono forse per non sopportare ulteriormente le ostilità di “Toni Saènte”, venne ad abitare “Nani dea Tassa”; e dopo di lui i “Pittarèa”. Dove abito adesso io sorgeva il casone di “Gioàni dea Tassa”, padre di Nani; e vicino, verso ovest, la casetta di “Tetìna”, una donna che si distingueva per il fazzoletto che portava sempre in testa, che noi chiamavamo “la Corsara”. In seguito, la casa della “Corsara” fu abbandonata e vi si insediò un piccolo laboratorio che lavorava il vetro: di più non so, ma ricordo un mucchio di questo materiale posto davanti al manufatto e l’emozione di avere una “fabbrica” vicino alla mia abitazione. Ricordo che quando mio padre stava realizzando l’ampliamento della nostra casa si lanciavano le pietre al primo piano, dove un altro le prendeva al volo (in seguito si usò una paletta di legno dal manico lungo), e i forati venivano “consegnati” con una pertica che terminava a croce. Ricordo appena che, una volta ultimato l’ampliamento, mio padre fissò sulla copertura la classica frasca che indicava che la costruzione era stata “portata al tetto”, tetto che era “all’americana”, cioè sfalsato sulla “coppara”, com’era di moda a quel tempo. Non ricordo se quella volta si fece “la vanzèga”, il pasto di fine lavori; forse no perché si era lavorato in economia con noi figli; ma se il lavoro fosse stato eseguito da altri, il padrone avrebbe organizzato una sostanziosa mangiata per tutti gli operai. Era la stessa frasca che si metteva bene in mostra, magari legata ad un palo, all’ingresso di quelle case dove si vendeva il vino sfuso, che si beveva a bicchieri seduti su delle rudimentali panchine davanti ad un rudimentale tavolo nel cortile ombreggiato, o all’interno: erano le mescite. Davanti alla nostra abitazione e quella di Giulio Tiraresso, si trovava una piccola boscaglia con il fosso che delimitava la strada; era il nostro regno dei giochi, vicino al quale si estendeva un prato sempre grande, là si correva, si giocava e si mangiava “l’uva secca”, che per quel che mi ricordo era una sorta di uva passita di una vite che pareva essere là apposta per noi; e poco distante, un filare di uva “curbinèa”, dagli acini neri, piccoli e appiccicati, non tanto dolce, ma comoda da prendere, e pure un filare di uva “patarèsca” c’era, dagli acini grossi e rosseggianti; mentre l’uva più comune, la “grinta”, dagli acini neri e più piccoli della clintòn, veniva coltivata un po’ dappertutto. Fu in questo prato che, giocando, non so quale mia sorella perse un anellino d’oro. Il fatto è singolare non tanto per la perdita del gioiello, ma perché uno di noi aveva un tal valore addosso, essendo noi veramente poveri; data l’età non poteva essere stato un regalo della Comunione e neanche di Battesimo, per cui il mistero rimane. Ad ogni modo l’anello saltò fuori più tardi: non dal prato, ma dal cortile di casa, dove mio padre lo trovò rasando l’erba vicino all’orticello; mi ricordo il punto esatto dove fu trovato, ma non la gioia che si sprigionò in casa. Di orti ne avevamo due: uno a est della casa, appunto l’orticello, e un altro a ovest: più grande, dove le colture consistevano principalmente in patate, finocchi, carote, aglio, leguminose e verze, di cui mangiavo con avidità i tutoli; nell’orticello invece si coltivava insalata, prezzemolo, sedano, pomodori, melanzane e peperoni. Due orti tenuti dai nostri genitori come fossero giardini. La rovina dell’orto grande erano le “porseète”, i grillotalpa, che divoravano patate, carote e ogni altra radice. Erano piacevoli da vedere quando raramente uscivano da sottoterra e non sapevano quale direzione prendere; ed era la loro fine perché le rincorrevamo e con la vanga tagliavamo loro la testa. A tal riguardo mi ricordo le faticacce che io e Galdino sostenavamo per dare acqua agli orti, traendola a secchi dal pozzo, annaffiando le aiole che erano alte e l’acqua che si disperdeva sui viottoli, e noi scalzi che ci impiastricciavamo nel fango. Come non bastasse, tutte le sere papà ci faceva scopare il cortile con una scopa di “sàndana” e una di saggina; entrambi tentavamo di accaparrarci quella di “sàndana”, più dura e adatta alla terra, mentre quella di saggina era meno pratica. Prima però bisognava annaffiare il cortile, ma qualche volta, per evitare lo sforzo di trarre l’acqua dal pozzo, lo scopavamo senza bagnarlo, sollevando una polvere incredibile, con i relativi rimbrotti dei genitori; da notare che eravamo fortunati ad avere un pozzo tutto nostro, perché a quel tempo alcuni pozzi erano situati sul confine e servivano due o più famiglie, o si trovavano in qualche contrada. Nel bosco di Capeòn ci andai una volta con altri ragazzi di Azione Cattolica. Tra gli alberi e le macchie ci divertivamo con giochi organizzati dai nostri animatori, come quello della caccia al tesoro. Rivedo un nugolo di ragazzini seduti in cerchio e i “capi” che si davano da fare per richiamare quelli che si intrufolavano nel bosco, forse per esplorare il luogo. Sempre con “l’Azione Cattolica” si percorrevano in bici distanze ora inimmaginabili per dei bambini: andammo alle grotte di Frassanelle, nel comune di Rovolon, dopo Padova. Di quella pedalata, oltre il fatto di esserci andato, non ricordo altro niente. Ma anche da soli macinavamo chilometri con la bicicletta, come quella volta che andai con Graziano, Elide e Sandra a Sottomarina. Ricordo che Elide, una bella ragazza, si vergognava ad indossare il costume perché era bianco e si intravedeva il pube; io le dissi che non si vedeva niente, anche se in effetti si scorgeva la macchia nera; sta di fatto che non provavo la benché minima eccitazione: a me interessava che venisse in acqua per giocare a palla. In queste occasioni non avevamo l’ombrellone e si rimaneva al sole per l’intera giornata, così da tornare a casa con la schiena rossa da fare paura; qualche volta seguiva la febbre e dopo qualche giorno nostra madre ci “levava la pelle”, la pellicola bianca che si formava sul dorso. Quando doveva ancora sorgere la Corea, ricordo un aquilone colorato che volava alto sopra la ferrovia e ancora non sapevo cosa fosse un aquilone; fu una emozione intensa e paurosa, continuamente distraevo lo sguardo. Mi si disse che era l’aquilone dei “Tiraresso”, che abitavano al di là della ferrovia, parenti di Giulio, la famiglia che abitava vicino a noi. In seguito questi Tiraresso vennero ad abitare anche loro in Corea, quasi davanti alla nostra casa. Dietro al caseggiato dell’osteria del nonno era annesso un bocciodromo. Per livellare il campo si usava un largo tubo da pozzo, che era in disparte pronto all’uso. Là io e Galdino ci divertivamo a nasconderci dentro quando nessuno ci vedeva, o lo facevamo rotolare con uno di noi all’interno. Qualche volta il nonno od altri si accorgevano e ci sgridavano per il pericolo a cui potevamo andare incontro; ma per lo più quel posto era sempre deserto e noi, di ritorno dalla scuola, sgattaiolavamo a lato dell’osteria senza farci vedere, andando a fare le nostre bravate. Galdino, che frequentava la scuola elementare con il maestro “Arcisèto”, una volta fu sospeso per tre giorni per avere attaccato briga con “Pupo”, un bambino che abitava al di là della ferrovia, rompendogli la testa; papà si arrabbiò ed emise una sentenza, cioè che se Galdino il giorno dopo non fosse stato riammesso in classe sarebbe dovuto andare con carriola e vanga a raccogliere le “boasse” (sterco di mucca) sul viale della chiesa. Ricordo che il giorno dopo, mentre andavamo a scuola, vedevo mio fratello tranquillo, mentre io ero preoccupato per lui e per me perché, senza una ragione, mi sentivo responsabile di quel che era accaduto. Fu accettato e la carriola e la vanga rimasero al loro posto. Una sera (faceva già buio) tornando dall’osteria, seduto sul ferro della bici con mio padre che portava una sega sul manubrio, facendo la curva per immetterci in strada andammo a finire direttamente nel fosso: colpa della sega che si era impigliata bloccando la sterzata; la sega era di quelle con la lama tesa da una corta tavoletta attorcigliata da un cordino, che veniva bloccata sul telaio dell’attrezzo. Piangevo e a casa mia madre mi disse che dovevo avere delle costole rotte; io mi inorgoglii per avere subito una così grande ferita e per saper soppoprtare tanto male, e non piansi più. Si usava bere l’acqua nei bicchieri dove vi si versava la “roba che boje”, la citrosodina, così da renderla effervescente, e gli sprizzi freschi e dolciastri bagnavano il naso a noi figli che la osservavamo da vicino; invece le bottiglie da litro, se non i bottiglioni, venivano riempiti d’acqua, con una bustina o due di “Invernizzina”, altra sostanza effervescente che ci dava refrigerio d’estate, che bevevamo a temperatura ambiente per la mancanza del frigorifero. Le case di Sàtana e Bugno erano situate a circa duecento metri ad est del ponte sul Cornio, un fiumicello su cui passa la ferrovia. Stavano una di fronte all’altra e in mezzo scorreva l’acqua; le univa un ponticello di legno fatiscente che nei più lontani meandri della memoria ricordo di avere visto. “Nini Bugno”, il capofamiglia, era un accanito comunista che partecipava in prima fila alle sfilate del primo maggio con la bandiera scarlatta in mano cantando Bandiera Rossa. Queste sfilate, oltre al valore politico, avevano anche quello folcloristico, per i “compagni” festanti e colorati, con il fazzoletto rosso al collo che, cantando e qualche volta suonando la fisarmonica, avanzavano a piedi per le strade principali dei paesi, con due ali di spettatori che applaudivano. Nel mese di maggio si usa, ma si usava ancor di più una volta, recitare il rosario nelle varie contrade, in corrispondenza dei capitelli: era il cosiddetto fioretto. Noi ci postavamo al capitello di “Patanàche”, ma solo per chiacchierare con le ragazzine. Ci mettevamo defilati e invece di ascoltare il rosario ridacchiavamo incuranti dei rimproveri delle donne, oppure ci sistemavamo a fianco della ragazzina che ci interessava pregando, ma allo stesso tempo ridendo sotto i baffi. Non vedevamo l’ora che il rosario finisse, per dedicarci ai nostri sollazzi; mi ricordo le litanie che non avevano mai termine e quando si invocava “Regina Pacis” la reputavamo la migliore di tutte, perché era l’ultima. A quel tempo tenevamo anche delle anitre, che si usava “incocconare” (ficcare a forza il cibo in gola) perché ingrassassero prima. Vedevo mia madre seduta su una sedia davanti casa con il grembiule addosso, che teneva l’anitra, o oca che fosse, per la testa, e tenendo aperto il becco vi premeva in bocca il poltiglione preparato con semolino, ortiche e “pedòco”, il tarassaco. Doveva essere una tortura per queste povere bestie e ancora mi domando come facevano a respirare quando la gola veniva così riempita. Possedevamo pure due maialini che erano il divertimento di noi figli, per i quali io e Galdino andavamo a raccogliere la “broèja”, l’erba sottile che si aggrovigliava dappertutto, specialmente sulla rete metallica dei nostri orti, che papà ci faceva togliere con nostra grande insofferenza. A proposito dei maiali, eravamo a casa solo io e Galdino quando arrivò un finanziere per controllare se fossero stati denunciati; ricordo che il giorno dopo mio padre andò a registrarli e a pagare le tasse. Ho in mente la scena di un maialino mentre veniva sgozzato da mio padre; l’animale si dimenava sopra il mesoto o qualcosa del genere ed emetteva grida soffocate per un cordino che gli era stato stretto sulla bocca, non ricordo il momento preciso della iugulazione. Ricordo invece due pertiche che pendevano dal soffitto a cui erano appesi “una infinità” di salami, non so se siano stati proprio il frutto di quel maialino ucciso. Se tenevamo due maiali significava che non soffrivamo la fame, nonostante la guerra fosse finita da pochi anni. Sapevo che la guerra era una cosa orrenda e che ci si moriva; ma la cosa non era così tragica per me se fosse successa ancora, perché avevo trovato un espediente semplice semplice per salvarmi: mi sarei infilato in un largo tombino di qualche passo carraio e sarei rimasto là al riparo finché la guerra non fosse finita; nessuno mi avrebbe scoperto e le bombe non sarebbero riuscite a colpirmi. Trovavo la cosa tanto ovvia e mi domandavo come mai tutti gli altri non avevano fatto come avrei fatto io, cosicché qualcuno era rimasto ucciso. II Avevo quattro anni e a quest’età risale il ricordo più tragico della mia infanzia: fu la vista del corpo martoriato di Bruno Piovan quando scoppiò la bomba sul ponte del Brenta in cui morì anche Gabriele De Marchi. Quell’otto giugno del 1952 mi trovavo nel cortile di casa con accanto mio padre e altre due figure che non ricordo; ad un tratto sentimmo uno scoppio tremendo che ci fece trasalire; mio padre si rivolse subito verso di me e mi fece bere un bicchiere d’acqua per lenire lo spavento. Nessuno sapeva cosa fosse successo, ma veniva dal ponte e lui, mentre ci diceva di stare tranquilli, inforcò la bicicletta, dirigendosi deciso in quella direzione. Qui finisce la prima scena che ricordo, la seconda riguarda la madre di Bruno che in bicicletta corre piangendo disperatamente verso casa; e poco dopo la vista del carretto guidato dal padre, con il povero Bruno sopra, immobile, ritto, grondante sangue dalla testa ai piedi, ridotto ad una massa informe che a stento pareva umana. Il carro, il mezzo di trasporto più usato, procedeva lentamente verso l’ospedale di Piove di Sacco, con i curiosi che si erano riversati in strada per vederlo; sembrava che Bruno andasse all’impiccagione. Da quella vista fui scosso in modo tremendo e scappai, andandomi ad infilare sotto la culla di Silvana, nell’unica camera che avevamo, e restai là per non so quanto tempo. Certamente il corpo non dovette essere stato così intriso di sangue e tanto meno immobile come me lo ricordo, anche perché venni poi a sapere che all’ospedale il padre aveva sgridato il figlio per la sua dabbenaggine, non sapendo della gravità delle sue ferite e che il giorno dopo sarebbe morto. Nel 1954, proprio davanti casa nostra, avvenne la fondazione della “Corea”: un gruppo di sette casette, due davanti e cinque dietro, costruite dal Comune per alloggiare la gente del “Lazzaretto”. Io questo Lazzaretto non l’ho mai visto, si trattava comunque di un grande fabbricato situato nei pressi del municipio, che dal nome sicuramente doveva servire ai suoi tempi come ricovero degli appestati. La Corea ci occultò così la vista del boschetto e del grande prato. Ma di questo non mi preoccupavo, anzi gioivo vedendo l’attività del cantiere quando queste case stavano per essere costruite, rallegrandomi che gente del centro venisse ad abitare proprio davanti alla mia casa. Il ricordo ora passa all’asilo parrocchiale dove, a differenza di tanti altri bambini, non piansi il primo giorno che lo frequentai; però rimasi in disparte, avvolto nei miei “pensieri”. Quando dal cortile, dov’erano piantati otto grossi pioppi, vedevo mio nonno passare con la Guzzi rossa caricata di stoffe sul portapacchi posteriore (faceva il commerciante), che si girava verso me e mi salutava, io rispondevo al saluto e allo stesso tempo mi domandavo come facesse a correre così forte, restando per tanto tempo girato nella mia direzione senza andare fuori strada. In quegli anni non era raro il caso in cui i bernoccoli crescevano in testa, causati da una botta o una caduta o qualche sasso preso in piena fronte. A proposito di questo, “Vito Rocco”, un bambino di una famiglia che abitava proprio vicino all’asilo, non frequentava la scuola e quando eravamo nel cortile lo vedevamo al di là della recinzione e lo prendevamo in giro perché si distingueva per i “paèri”, cioè il moccio che gli colava dal naso; un giorno mi trovavo a capo di un gruppetto di compagni che costeggiava la mura dell’asilo parlando di avventure, quando lo vedemmo: cominciammo a prenderlo in giro e poi, nel colmo dell’eccitazione, proprio io gli scagliai un sasso da notevole distanza e lo colpii alla testa; ne uscì un rivolo di sangue. Andai subito a nascondermi nel ripostiglio della legna sotto la scalinata dell’asilo e là rimasi finché una suora non mi scoprì, trascinandomi nella cappella del terzo piano a pregare con lei per il male che avevo fatto. Poi, se ben ricordo, mi obbligarono ad osservare Vito con una fascia sulla fronte. Su quegli stessi banchi, dove avevo fatto il disegno sulla lavagnetta, sentivo il refrigerio che dava il piano smaltato di nero sulla guancia quando la poggiavo per fare il pisolino, e una volta svegliatomi ammiravo sul pianale il vapore acqueo causato dal mio viso caldo. La giostra nascosta dell’asilo era per me qualcosa di misterioso e irraggiungibile: tutti ne parlavano, ma nessuno l’aveva mai vista, era come un sogno proibito. Mi immaginavo che fosse qualcosa di fantastico, rotonda, alta, con la quale ci si poteva divertire un mondo. Era rinchiusa in uno dei tanti sgabuzzini, ma non si sapeva quale. Mi vedo lavarmi le mani nel bagno di fronte alla porta di uno questi, che era chiusa a chiave, e per questo la giostra per me doveva essere là dentro; quasi piangevo per non poterla vedere e sicuramente avrò sbirciato attraverso il buco della chiave. Non ho mai saputo per quale motivo questa non fosse mai stata messa a disposizione di noi bambini; rappresentava proprio un mistero, un tesoro agognato e mai scoperto. Ricordo che un anno, in occasione della festa dell’Epifania, ci fu una piccola festa in asilo; ci avevano radunati in atrio per l’arrivo della befana, improvvisamente sentii un colpo che somigliava a un tuono; era la Befana che aveva aperto la “porta” del camino, ci dissero le suore, allora ci precipitammo giù in “sotterranea” dove trovammo dei lunghi tavoli imbanditi. Poi mi vedo a mangiare squisitezze mai assaggiate, ma quel che più mi è rimasto impresso è stato, oltre al rumore, la vista di batuffoli di filo come dei bozzoli che non so descrivere e tanto meno a cosa servissero, certo erano ninnoli; ebbene, mi ricordo che un bambino mi rubò il mio e io, dopo aver mangiato i dolciumi, stetti ad osservare amareggiato gli altri che giocavano con questo oggetto. Mi è rimasto pure impresso l’aroma (non posso definirlo odore, né sapore e tanto meno profumo) che regnava in quell’ambiente durante la festa: lo stesso aroma che per un attimo qualche volta in talune circostanze sento ancora, magari nei pressi di qualche casa mentre preparano da mangiare. La sensazione di questo ricordo mi commuove ogni volta che mi torna in mente e davvero ritorno a quel periodo, rompendo la barriera del tempo. Facevo già certamente parte dei “grandi” quando si andò in gita all’asilo di Bojon, il paese oltre il Brenta. Mi ricordo l’attraversamento del fiume, con la suora che dalla riva di Campolongo chiamava il “Passatore” che si trovava sulla sponda opposta. Poi rivedo la scena di lui che ci portava sulla barca remando con la pertica e, se la memoria non m’inganna, una lunga corda era stesa come guida da una sponda all’altra del fiume. Una volta giunti all’asilo, noi bambini salimmo un enorme scalone e all’improvviso mi si parò davanti un grande affresco, che mi è rimasto sempre impresso, forse per le sue dimensioni, forse per la bellezza. Tempo fa ebbi occasione di andare in quella scuola e, con grande meraviglia, rividi lo scalone e un affresco restaurato, che certamente doveva essere quello di quel tempo; ancora una volta, come per Madre Lisa, non provai le emozioni dell’infanzia. Le passeggiate usuali erano quelle che dall’asilo ci portavano lungo il viale costeggiato da grosse robinie, verso la chiesa; là pregavamo. Qualche volta facevamo un giro più lungo e tornavamo per la stradicciola, che ora è Via Lago di Misurina, e l’euforia si sprigionava da noi tutti. La gente che ci osservava certamente si deliziava nel vedere questi bimbetti, con il grembiule azzurro sopra i calzoncini corti e i colletti bianchi; ricordo tuttavia che non vedevo l’ora di andare alle “elementari” per indossare quello nero, segno che ero diventato grande. Eravamo in fila indiana o per due, che parlottavamo, sorvegliati da una suora vestita di nero davanti e una dietro. Respiravamo l’aria primaverile godendo di quel diversivo e giunti nei pressi della chiesa mi auguravo che si ritornasse senza entrarvi, o quanto meno che la funzione durasse poco. Un altro neo di questo diversivo era dover prendere per mano la più bruttina o bruttino dell’asilo e portarselo appresso fino al rientro. Sempre all’asilo, una sera fu inscenata in cortile una rappresentazione teatrale con tanto di palco e quinte; c’era anche mia sorella Silvana e mia cugina Lucia che recitavano; rivedo sul palcoscenico dei bambini immobili e delle bambine con le gonne colorate larghe. La meraviglia fu che intervenne anche la televisione per riprendere l’evento, con un’antenna “gigantesca” che ricordo come un traliccio, che si ergeva in un angolo del cortile, con la cabina di regia sotto e tanti monitor sparsi per il cortile. [continua] Contatore visite dal 22-02-2011: 4580. |
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