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Il tempo e l’amore - Un racconto d’amore sulla Messina dei Vespri
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Rita Randazzo - Il tempo e l’amore - Un racconto d’amore sulla Messina dei Vespri
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 80 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-2406
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In copertina: Innamorati © Danik63 – Fotolia.com
Prefazione
Eros e thanatos s’intrecciano indissolubilmente in questo breve romanzo di Rita Randazzo, nel quale la struggente storia d’amore tra Ida e Jean palpita appassionata e mortale sullo sfondo di una Sicilia pastosa e corale, mirabilmente descritta dall’autrice nella sua bellezza resa quasi coreografica da un’eterna luce dorata e azzurra che illumina trascolorando il mare, il cielo, lo stesso volto arcano dei protagonisti.
La pregnanza dei profumi, degli aromi, degli effluvi e dei sapori forti, unita alla suggestione dell’idioma siciliano, con la sua sonorità rapsodica e liquefatta, imprimono una realistica suggestione narrativa all’affabulazione, nella quale i sensi sono coinvolti direttamente e senza filtri.
Ha sapore fortemente pittorico l’insieme delle immagini naturalistiche, suggestive e potentemente visive, che accompagnano la vicenda dei due tristi amanti nel contesto duecentesco dei Vespri siciliani.
Essi amano perché altro ineluttabilmente non possono fare, amano incondizionatamente, spinti da un “furor” a loro stessi sconosciuto e fatale, presso un mare mitico, insondabile e opalescente, archetipo infinito, avventuroso e minaccioso dello stesso sentimento che lega Ida e Jean, e che infrange con le sue possenti onde le barriere sociali, culturali e xenofobe che da sempre affliggono l’umanità, in ogni epoca e in ogni luogo, seminando sventura, violenza e cieca ingiustizia.
Rita Randazzo, esamina con lucida e appassionata analisi il contrasto tra intimità individuale e necessità storica, ne coglie la tragica essenza, l’antitesi disperata e disperante: Jean è, in effetti, simbolicamente il diverso, il nemico politico, lo straniero casualmente usurpatore, colui “che non s’ha da amare”, ma che non si può che amare, per destino, per empatica affinità, per atavica memoria dell’anarchia del cuore che governa l’eros, al quale, nessuna dilazione, remora ed esitazione sono concesse.
Nel tumulto violento della rivoluzione, che non risparmia nulla e nessuno, i personaggi prendono anima e vita propria, descritti con un senso di “pietas” tenera e affranta dall’autrice, sempre attenta ai tratti emotivi e psicologici dei diseredati, degli umili, degli sventurati.
Sembra quasi che Rita Randazzo partecipi all’essenza vitale del loro dolore, della loro accettazione olimpica del male della vita, ma anche della sua salvezza e del suo riscatto catartico, nei personaggi di Michelino, storpio e abbandonato fin dalla nascita per tale diversità, che lotta tuttavia valorosamente per la libertà della sua Sicilia, cercando invano contemporaneamente di salvare l’unione amorosa tra Ida e Jean, o Giovannino, bambino affamato e derelitto che vive grazie all’elemosina di un popolo già povero, Giovannino che con la sua infantile ingenuità sarà come accade spesso nelle tragedie greche, l’involontario colpevole della morte di Jean, o il mitico Colapesce, immerso nella leggenda marina tramandata da secoli.
In questo intenso affresco corale nel quale due mondi diversi, uno francese e l’altro siciliano, si uniscono in un legame che diventerà mistico per la nuova vita che genera, quale simbolo di speranza, Rita Randazzo esplora il misterioso e magnetico binomio amore e morte, con soave e al contempo enigmatica lucidità, ricordandoci che “amor omnia vicit”, e che la sua fulgida, o triste, o lenta vittoria, è un simbolo salvifico per l’umanità intera, poiché nulla dell’amore va perduto, e tutto dell’amore risiede luminoso nella sua immortale sacralità.
Alessandra Crabbia
Nota dell’Autrice
Nella prefazione alla storia popolare del Vespro del 1882 Gaspar Amico scriveva: “Gli italiani leggono poco i volumi dei nostri scrittori; e così, mentre le storie nazionali, scritte per uso del popolo o delle scuole, riboccano di gloriuzze toscane, o lombarde, o piemontesi, o romane … poco o nulla in quei libercoli s’inserisce delle grandi epopee, che quasi in ogni tempo si compirono in questo classico lembo del bel paese, e che sono pur tanta parte della storia nazionale.”
Col desiderio di rinnovar memoria dei Vespri siciliani, per questo racconto ho scelto come scenario un capitolo di storia patria e isolana di grande significato e rilevanza per l’identità popolare della città da cui provengo.
All’epoca dei fatti da me narrati Messina era una città vivace e fiorente. Il suo porto aveva un rilievo che oggi non ha più: tutte intorno ad esso, c’erano a quel tempo fortificazioni, chiese e dimore nobiliari che sono andate ormai perdute per sempre o delle quali rimangono soltanto esigue, minute tracce.
Fu un tempo felice quello per la mia città, e decisamente più glorioso di quello che sta vivendo adesso: per quanto occupi una posizione strategica sul mare, e costituisca un luogo di grande fascino paesaggistico, ed unico nel suo genere, sembra infatti attraversare una fase di sorniona e lenta decadenza.
A Messina è tuttavia possibile rintracciare ancora oggi segni tangibili che riportano indietro nel tempo all’epoca dei Vespri siciliani: basti guardare le vestigia di alcuni monumenti antichi o ascoltare con attenzione i racconti e le leggende delle tradizioni popolari per rendersi conto di come fatti, accaduti molti secoli fa, possano vivere ancora e perpetrarsi immutati nel tempo ad insaputa di molti.
Sul colle della Caperrina dove sorge, per esempio, il santuario di Montalto (al posto dell’antica chiesa di Nostra Signora della Vittoria che andò distrutta nel 1295), si dice che una bianca colomba avesse delimitato l’area su cui fu poi eretta la nuova chiesa, a testimonianza della leggendaria apparizione della Madonna in aiuto dei messinesi. L’aiuto della Vergine, ma ancor più la benedizione contenuta nella lettera che, secondo la tradizione, Ella mandò ai messinesi nel 42 d.C., fondano la nota devozione popolare che ancora oggi culmina nella processione per la festa della Madonna della Lettera, patrona della città, il 3 giugno, e nella grandiosa e toccante processione della Vara, il giorno di Ferragosto.
Dina e Clarenza, le due storiche eroine della città, fanno sentire ancora ai messinesi il rintocco delle campane del Duomo: rappresentate da due grandi figure bronzee, che affiancano l’orologio meccanico del campanile del Duomo, le due donne scandiscono ogni giorno le ore e i quarti.
Una torre superstite del castello Matagrifone è ancora oggi visibile dove sorge il Sacrario di Cristo Re, che sovrasta, con la sua magnificenza, tutta la città; e rimangono ancora “in vita” le tre absidi della chiesa di Santa Maria degli Alemanni, e una parte delle navate prive di copertura, sopravvissute al passar dei secoli e ai numerosi terremoti che ne hanno scosso più volte le fondamenta.
Un’eco lontana di fatti storici accaduti durante gli anni dei Vespri rimane ancora nella tradizione locale. Io stessa quand’ero ancora bambina ho appreso da mio padre un fatto che ho utilizzato per lo sviluppo narrativo di questo racconto, di cui poi, crescendo, ho trovato anche notizia nei testi di storia: si narra infatti che, durante i Vespri, alcuni francesi, per sfuggire al pericolo di vita, si camuffarono da popolani siciliani, ma gli abitanti del posto per metterli alla prova, costrinsero tutte le persone sospettate a pronunciare la parola “cìciru” (che in siciliano vuol dire cece), sapendo la difficoltà che avevano i francesi nel riprodurre il suono della lettera “c”. Un canto popolare dell’epoca, che rievoca quell’episodio, recita infatti così: “Oggi, a cu’ dici kìkiru in Sicilia – si ci tagghia lu coddu, ppi sò gloria”.
Non è legata, invece, alla storia dei Vespri siciliani la leggenda di Colapesce, citata da me nel racconto, magistralmente rappresentata nel dipinto di Renato Guttuso presente sul soffitto del Teatro Vittorio Emanuele, di notevole pregio e certamente degno di una visita da parte di tutti quei viaggiatori erranti che volessero scoprire a Messina qualcosa di bello, passando da quelle parti.
Ci tenevo, infine, a ricordare il meritevole contributo che diedero le donne durante la rivolta e per tutto il tempo dell’assedio. Ed è proprio con una poesia del Duecento, testimonianza del loro apporto determinante, che mi piace concludere adesso queste brevi righe, con l’auspicio che coloro che si accingeranno a leggere la mia storia possano prestare ascolto con maggiore curiosità e attenzione ai fatti che fra poco racconterò:
Oh, com’egli è gran pietate
delle donne di Messina,
veggendole scapigliate,
portar pietre e calcina!
Dio gli dea briga e travaglio
chi Messina vuol guastare!”
Il tempo e l’amore - Un racconto d’amore sulla Messina dei Vespri
A Messina,
mia città natale,
con l’augurio
che nulla – né evento naturale
né opera dell’uomo –
abbia mai a deturpare
così tanta bellezza
e a distruggere la vita
di un’antica comunità
che ha saputo reagire,
negli attimi estremi,
alla viltà del dominio
o alla durezza del destino.
Prologo
Se il tempo non esistesse,
allora sarebbe per sempre.
Se il tempo fosse reale,
allora non ci sarebbe mutamento.
Non è il tempo, è la morte che ci separa.
Suppongo che la gran parte di voi non abbia mai visto Messina. Bene, lei è là, distesa come una fanciulla addormentata sulla sua striscia di terra a forma di falce, tra l’azzurro delle acque dello Stretto e il verde brunito delle sue montagne.
Se un viaggiatore sconosciuto un giorno vi giungesse molto stanco, dopo un lungo e periglioso viaggio, direbbe che quella terra è stata creata per lui, perché possa finalmente riposare e godere di tanta tranquilla bellezza. Arrivando al mattino molto presto, dopo un breve ma intenso piovasco, potrebbe essere colto dalle prime luci del sole che restituiscono colore all’azzurro velato dei monti, disegnando sulle acque brillanti dello Stretto un lungo e ben distinto arcobaleno. Allora, pieno di commozione, il nostro viandante avvertirebbe che le sue gambe stanno per cedere: si ritroverebbe con le ginocchia piegate a pregare Iddio perché preservi quello spettacolo per sempre.
Una volta lì, quest’uomo peregrino restituito alla vita saprebbe godere delle sue gioie quotidiane: amerebbe il celeste tenue del mare che si sposa al rosa del cielo all’orizzonte, in un preciso momento del tramonto. E di notte resterebbe a lungo a sedere sulla spiaggia, lì dove le due opposte rive quasi si toccano, e alla luce della luna assisterebbe al lento procedere delle navi che magicamente si dissolvono nelle tenebre nero-azzurre.
Eppure questa stupenda e appagante fanciulla che si direbbe tanto assorta e tranquilla, da secoli convive con i suoi bellicosi vicini. Primo fra tutti il temibile gigante dalla bocca di fuoco, che di tanto in tanto apre le sue fauci per inghiottire uomini inermi, divorandoli insieme ai loro beni e persino alle loro rassicuranti dimore.
E poi ecco i mostri del mare, dall’aspetto attraente ma infido, che da sempre risucchiano con il loro carico intero navi dirette verso l’est luminoso di speranze.
Nonostante questo, lei continua a restare là, immobile, ancorata alla sua lingua di terra, e sembra proprio riposare: conserva le sue forze per quando sarà il momento di usarle, di combattere per continuare ad esistere.
Così mantiene il suo cuore fiero, non teme i suoi paurosi vicini, sa che al momento giusto saprà sconfiggerli e che se proprio non ce la farà, allora sarà quello che Dio vorrà. Ma Dio vorrà mai troncare i sogni di quell’intrepida fanciulla, nel cui sguardo sfatto si riflette tanta molle bellezza?
Le acque del mare ondeggiano, a volte furiose, per lo più dolcemente, come fiammelle tremule, in questa nobile città di antiche origini.
Un giorno lontano arrivarono i greci, da lungi avvistarono terra e vollero raggiungerla. Sbarcarono là, sulla fine spiaggia di Naxos, a tratti annerita dall’ira repentina del gigante. Colà si stabilirono. Conservavano dentro il ricordo della terra natia, ma questa nuova patria li conquistò. Vollero farla sede della loro antica cultura e qui impiantarono germi che ben presto fruttificarono nella sua terra generosa. Schiere di fanciulle incolonnate portavano le loro chiome adorne lungo il mare, per propiziare quella nuova vita e dedicarla alla divinità da cui traevano forza. Sorsero templi, teatri e nacquero nuove città, alcuni dei cui figli fecero grande il nome della Sicilia in quel piccolo mondo che si espandeva. Seguirono i Romani e i Bizantini, poi vennero gli Arabi, i Normanni e gli Svevi, tutti fatalmente attratti da quella ricca e assolata terra. Quindi fu la volta degli Angioini, vili usurpatori, cui il Parlamento dell’isola non volle cedere, incoronando re lo svevo Manfredi. Ma la forza delle armi diede ragione allo spregiato Carlo.
Ora immaginiamoci una storia. Le scene passano mute davanti ai nostri occhi, nella Messina del tardo Medioevo. Noi abbiamo il compito di animarle, di dar loro vita. Con la nostra sensibilità moderna immaginiamo una storia antica. Non per dovere di cronaca, ma per ricerca di verità. Perché è probabile che questa storia sia realmente accaduta e che sia giunta fino a noi attraverso le inesauribili onde del tempo.
Prima parte
Il mare… com’è bello il mare! La sua superficie tremula e brillante attrae, ma nasconde un altro universo nelle sue profondità. Il mare suscita gioia. Sarà perché concede a chi lo solca l’ebbrezza di essere sospeso su un mondo da svelare insieme al fremito dell’attesa, l’attesa di raggiungere un’altra terra, un nuovo confine da oltrepassare.
È una bella mattina di fine febbraio del 1282. Il sole è appena sorto all’orizzonte e sta iniziando il suo lento cammino verso i monti dell’opposta sponda. Sulla spiaggia adiacente il porto c’è ancora fermento: le ultime barche di pescatori si avviano a prendere il mare, per tornare verso mezzodì cariche di pesci di ogni sorta.
Lo Stretto è ricco di varietà ed è generoso con chi ogni giorno lo solca senza timore, sfidando i suoi gorghi. Certo a volte pretende le sue vittime, di tanto in tanto sulla spiaggia accesa dalle luci del tramonto le donne aspettano invano il ritorno dei loro uomini. Ma è il prezzo, il prezzo che al mare bisogna pagare per tanta generosità. Le donne piangono, si stringono nei manti colorati, poi qualcuno ricorda loro i sacrifici umani imposti dalle divinità nell’età antica. È la vita, bisogna accettare, è l’umanità che andrà avanti, trascinandosi oltre le sue perdite.
Così si celebra ogni giorno il rito della partenza. Le donne accompagnano i loro uomini, e non appena le barche oltrepassano la battigia, porgono loro le ceste, le reti, il pane e l’acqua per il pasto; gli uomini sono già su, pronti ad iniziare il loro duro lavoro tra le risa, i canti e gli scherzi. Sarà l’aria frizzante del mattino, sarà l’odore di salsedine che riempie le narici, sarà la speranza di un carico abbondante, sarà che bisogna darsi coraggio anche quando le acque del mare non promettono nulla di buono, ma difficilmente si assiste ad uno spettacolo diverso.
Adesso il sole si è leggermente scostato dalla linea dell’orizzonte e il luccichio delle acque e della sabbia inizia ad essere più intenso; adesso si comincia ad avvertire un lieve, molto lieve tepore che sfiora la pelle e circonda i corpi.
L’ultima barca sta prendendo il mare, mentre i suoi uomini intonano un canto propiziatorio che si tramanda da secoli e si perde nel tempo.
Sulla spiaggia, ad assistere alla partenza, come succede da qualche tempo, da quando non è più considerata una bambina, c’è la quattordicenne Ida. Sta correndo con i suoi piccoli piedi nudi sulla sabbia, come spesso le piace fare, in particolare quando la giornata si preannuncia molto bella.
La sua è una corsa lenta, che non si perde in lunghe distanze, ma disegna percorsi circolari. Mentre corre, Ida ride spensierata e, come in segno di saluto, sventola il fazzoletto colorato che poco prima portava legato alla testa. Anche i suoi lunghi capelli neri svolazzano liberi al vento e la sua veste si gonfia, alzandosi leggermente.
Le altre donne la guardano sorridendo, la lasciano fare: Ida è ancora poco più che una bambina, la sua gioventù commuove chi ha già un’età avanzata e un destino del tutto segnato. Le lasciano godere quei pochi attimi felici, di una felicità ignara, la lasciano sognare ancora un po’.
“Ida, Iduzza, tu sì ‘na sognatrice, ma la vita non è un sogno!” Quante volte glielo ha ripetuto la madre, ma Ida ride e si abbandona alla sua fervida immaginazione.
Oggi su quella spiaggia Ida sogna, mentre disegna cerchi correndo. Vorrebbe viaggiare, conoscere terre lontane… In quell’epoca è veramente un sogno, ma quel mare le suggerisce una speranza. Anche se le sue acque sono circondate alla vista per più di tre quarti da terraferma, c’è un punto all’orizzonte da cui parte il mare aperto, e questo sembra fornire una possibilità di fuga, uno sbocco a cui approdare dopo essere stati protetti e cullati da quella materna conca.
Il mondo sta cambiando a poco a poco, lentamente si sta aprendo a nuovi confini. Forse un giorno, pensa Ida, potrà solcare il mare sulla nave di un mercante; il mercante la incontrerà sul porto, mentre lei passa da lì per le sue quotidiane consegne. Incrocerà gli occhi di Ida, occhi senza tema, occhi sfacciati, anche un po’ maliziosi, e ne resterà catturato. Le proporrà di andare per il mare con lui, verso quelle terre in cui si producono beni preziosi e ricercati dai nobili delle città. Ida è robusta, nonostante le sue esili forme, sa sorreggere carichi che sembrerebbero sproporzionati rispetto alla sua figura, saprebbe lavorare sodo per quel mercante, questo non le fa paura. In cambio vedrebbe luoghi sconosciuti su cui si favoleggia in quelle sponde, conoscerebbe uomini dai volti misteriosi e potrebbe fors’anche amarne uno, portandosi dietro il suo ricordo per sempre…
Ida spera, spera di poter vivere a lungo, di poter superare i quarant’anni, di invecchiare lentamente, non come quelle popolane che ha visto avvizzire dopo i venti, sfatte dalla fatica e dalle gravidanze, ma capisce che sarà il destino a scegliere per lei. Spera una vita diversa, anche se sa che non potrà mai aspirare alla ricchezza e ad una condizione sociale differente: è una figlia del popolo e non potrà mai sfuggire alle sue origini. Ma questo non le importa, ciò che vuole è vivere la vita e per questo intende portare sempre una speranza nascosta in un angolo del cuore. Sarà, ma Ida a modo suo è già grande e, grazie alla sua sensibilità, ha una maturità superiore alla sua esperienza.
“Ida, annàmu, si fici taddi!”, una voce levatasi dal gruppo di donne tronca per il momento i suoi sogni, riportandola alla dura realtà quotidiana.
Così comincia la solita lunga e dura giornata di lavoro delle donne. Si dovrà ripulire la casa, spazzando la cenere e gettando via i rami bruciati, preparare il pane, andare al torrente per lavare i panni, tessere e filare, quand’occorre, inerpicarsi sui monti a raccogliere legna, allattare i bambini…
Quotidianamente Ida prende parte alle attività delle donne, poi, quando gli uomini rientrano dal mare, ha il compito delle consegne. Non ha tempo per trastullarsi e pensare ai suoi sogni, il suo destino di popolana non gliene ha concesso, ma lei sa che non può essere diversamente, sa che può solo approfittare di qualche attimo quotidiano per fare di quella vita dura qualcosa per cui valga la pena. D’altra parte la sua vita si completa così, è un tassello, un tassello del mondo, lei è solo un membro della sua società statica e ineguale.
Ma là, sui monti a raccogliere legna, Ida si sofferma più volte ad ammirare, con lo sguardo che si perde nello spazio, quell’azzurra distesa di acque solcata da mille velieri e tale spettacolo la riempie di gioia. In quei momenti compiange persino le nobili donzelle che, chiuse nelle loro dimore ad affinare lo spirito con il canto e le arti, non hanno la possibilità di godere di una simile visione. E quando si reca al torrente chiacchiera, scherza e ride con le altre donne. Conosce un gran numero di fanciulle e ogni tanto, appartandosi dalle maritate, scambia con loro qualche stornello, qualche breve racconto d’amore.
Poi, passando dal porto con il suo carrettino carico di pesce, tutta quella vitalità e varietà di colori, suoni, odori, addirittura la stordisce… C’è un via vai di uomini che caricano e scaricano merci di ogni sorta, mercanti ben vestiti, anche alla foggia orientale, che incontrano clienti di un’eleganza sfarzosa. E allora comincia a sognare il suo lungo viaggio… Non è difficile farlo quando davanti alle pupille passano tali immagini… Ma subito dopo deve rientrare con la mente nel lavoro delle sue consegne.
Nei pressi della dimora del Governatore, come ogni giorno, incontra le sue sentinelle. Ce n’è una, in particolare… quel giovane francese da qualche tempo sembra guardarla con insistenza, per questo Ida lo ha notato, altrimenti non sarebbe stata colpita da lui.
È certamente bello, forte ed esile al contempo, con lunghi capelli dorati che scendono ad onde sulle spalle. E la sua corazza è splendente di luce, il suo elmo è imponente. Ma per Ida i suoi occhi chiari hanno qualcosa di molle e slavato, ricordano l’acqua del fiume che scorre: mancano di profondità. Ida crede di poter conoscere gli altri guardandoli negli occhi, e in quegli occhi qualcosa sfugge. Chi sarà quel francese? Cosa vorrà da lei? Ida non vuole averci a che fare.
In realtà non è per i suoi occhi, il motivo vero è che si tratta di un francese. Ricorda la prima volta che lui la guardò con insistenza. Ricorda il brivido di paura e di repulsione che provò in quel momento. I francesi, gli odiati francesi… Altezzosi, arroganti usurpatori che costringono il popolo ad un più duro lavoro e si prendono beffa dei suoi sentimenti e del suo onore, molestando le donne! Ogni scusa è buona per mettere le loro sporche mani sulle donne… e così, quando vedono una giovane e prosperosa fanciulla, tanto più se accompagnata dal fidanzato o dallo sposo, cominciano a palparla per accertare, dicono, che non nasconda armi. Se ne irridono dell’ira degli uomini trattenuta a stento! In quel momento tornò alla mente di Ida il giorno in cui al torrente le donne raccontarono il triste episodio arrivato per bocca di un marinaio. Mentre parlavano i loro volti traboccavano di sdegno: nella vicina Catania una giovinetta di nome Gammazita, aveva preferito salvare il proprio onore gettandosi a capofitto in un pozzo, piuttosto che cedere ad un soldataccio francese che pretendeva di avere il diritto di possederla prima delle nozze… a tal punto era arrivato quel misero popolo nelle mani di cosiffatti dominatori! L’umiliazione brucia sui volti delle donne, l’ira infiamma il viso degli uomini che non potranno sopportare per sempre…
Un giorno il francese le è passato accanto, l’ha quasi sfiorata, ha sussurrato qualcosa… Ida si è irrigidita, non ha capito, è quasi fuggita, trascinando a fatica il suo carrettino. Ma un episodio del genere non si è più ripetuto, piuttosto Ida avrebbe fatto in modo di non passare più di là, anche se quella è la via più breve.
In seguito il francese si è limitato a guardarla, e pian piano Ida si è abituata a quello sguardo, a tal punto da considerarlo amico, da cercarlo ella stessa. E quel giorno, quel bel giorno di fine febbraio il francese per la prima volta le sorride. Ida prosegue per la sua strada cantando.
Anche per oggi le consegne sono state ultimate. Si è fatta quasi sera e la fatica comincia ad essere tanta. Ma Ida non ritorna subito a casa, prima vuole parlare con Michelino.
Michelino è un caro figliolo, è quasi un fratello e, anche se ha appena solo qualche anno più di lei, ha una saggezza tutta sua, quella saggezza di chi ha dovuto lottare da sempre per sopravvivere. Ida gli vuol bene, a lui racconta i suoi pensieri, ed è sempre pronta a difenderlo quando qualcuno tenta di schernirlo. Sì, perché Michelino è per tutti “Michelino u sciancateddu”, un povero infante trovato in una cesta, abbandonato forse proprio per quella storpiatura al piede sinistro che non gli consente di camminare e correre come gli altri. E allora spesso qualcuno si diverte, riversando su di lui umiliazioni e rabbie nascoste. Ida non sopporta questi scherni, reagisce per lui, che invece tende ad allontanarsi, a nascondersi, perché la sua condizione è come una colpa…
È venuto su da solo, Michelino, si è salvato grazie alla pietà dei popolani che lo hanno accolto, dall’ostessa che lo ha allattato al fabbroferraio che non appena ha potuto lo ha messo a lavorare. Poi si è affiancato ai pescatori, che lo hanno preso con loro per il mare. Lì, sulle barche, non occorre camminare o correre, piuttosto serve essere veloci con le mani ed anche con la vista.
Ida arriva quasi correndo davanti alla casa di Michelino, un’abitazione che è poco più di una malsana baracca, in un angolo buio della città lontano dai bei palazzi signorili. Non è ancora arrivata e già lo chiama con foga, “Michelino! Michelino!” Michelino appare sulla soglia. Ida lo afferra per le maniche della sottana, concitata. “Oggi il francese mi sorrise!” “Madonna Santissima!” esclama Michelino, segnandosi con la croce. “Ma tu sì divintata paccia! … farti sorridere da un francese?!”
Michelino è colto da un sentimento confuso che gli prende lo stomaco e gli infuoca il viso. Avverte che da un momento all’altro potrebbe afferrare il coltello con cui sviscera pesce tutto il santo giorno e conficcarlo nel ventre del francese. Cosa crede di fare quello lì? È vero, possiede armi che lui non può avere, ma quanto conta la furia a lungo repressa di un uomo? Michelino lì per lì non sa riconoscere quell’ira rabbiosa che sente ribollire dentro, lui è generalmente un giovine sorridente e tranquillo, ma in un attimo capisce che è odio misto a gelosia, e forse ne ha paura. Così cerca di calmarsi: “Signur’Iddio, Iduzza, ma cosa ti prende? nun sai quanto son fetenti ‘sti francisi?” Vuol farla ragionare, vuole che lei prometta per il proprio bene che non passerà mai più davanti al palazzo del Governatore.
Ida, messa alle strette, promette, ma va via con un peso sul cuore. Aveva sperato tutt’altro, aveva sperato di sentire per bocca di Michelino che quel francese era diverso, era un giovane gentile, come può essere qualsiasi uomo innamorato della sua età, non un semplice nemico. Ida ha promesso, ha promesso a Michelino, ma in cuor suo sa che ha già scelto.
Certo una fanciulla di quell’epoca, di quella condizione non può scegliere, ma Ida sente di avere forza sufficiente a sfidare un destino. Lo ha scoperto a poco a poco, così come si è innamorata del bel francese, giorno dopo giorno, incontrando i suoi occhi. Certo farà tutto quello che le è imposto, che la società e la sorte pretendono da lei, ma i suoi sentimenti, quelli no, non potranno mai cambiare. Quelli vivranno anche in conflitto con tutto ciò che vuole svilirli. Ida è Ida per questo, così come il mare è il mare per le sue azzurre acque, e Messina è una città fiera della sua ricchezza e della sua storia. Chi potrà mai cambiare tutto questo?
Chi oserà tentarci, sfiderà le ire di un dio; alla fine potrà solo annientare, mai sottomettere, restando oltretutto a sua volta annientato.
[continua]
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