Un ringraziamento speciale all’amica pittrice
Celesta Botti per aver plasmato la reticenza
della materia alla propria arte, fino a
sintetizzare la verità nelle immagini,
trasformando il nero inchiostro delle parole
in magmatica cromia.
Dedicato ad Umberto Montefameglio
“Per fortuna, la sopravvivenza e la fama di opere poetiche migliori, non dipende dai giudizi dei dotti. Grazie a Dio, quel che è buono e utile si è sempre preservato da solo, mentre anche i tentativi più zelanti di valorizzare grandezze morte, raramente hanno avuto successo”.
(Herman Hesse)
“Le poesie sono cristalli che sedimentano
dopo l’effervescente contatto dello spirito
con la realtà”.
SCARPE
Ognuno possiede una storia
imbastita col filo rosso del cammino
tratteggiato da scarpe sicofanti
degli anni che davvero si hanno.
Cuoio traspirante al quarto di luna
in forma di lussuoso vagabondo,
satura nel miele selvatico
richiamo per vanitose sfingi.
Scarpe musicanti uno stormire di tulle
sopra il lago dei cigni,
stiletto di venere da copertina,
incudine di guerra nella cadenza
dei militi eruditi a sanguinare.
Scarpe come orpelli del piede
nel daffare quotidiano,
liberazione di mani,
perno di sagome erette
ed orientate nel senso delle stelle,
appoggio di falcate che
s’accorciano pestando malferme
contro il dilatare del tempo.
Fino a quando allentano i lacci
e l’ultimo paio
– lucidato a champagne –
si dà in pegno per un palco
al perduto teatro d’Ellenia
dove nessun figurante calza
più alti zoccoli per sovrastare
lo spazio dei corpi mortali.
RILEGGERSI NEGLI ANNI
Scriveva al passato,
dal quinto piano
della casa di suo padre,
sopra un lunario dalle tinte reticenti
e le pagine in odore di chiuso.
Taccuini appesi alle capriate
così alti da non potersi rileggere.
Pinturicchiava notturne effervescenze
di lingue e posture
da sciogliere nell’oscurità.
Aveva istinto d’ape, buono
per stringere composte amicizie
con creature vestite a strati,
come le millefoglie
che edulcoravano gli appunti.
Accerchiava il mondo di parole,
col fermacarte tratteneva
il desiderio tardivo di vivere di attimi.
Sulle vesti dell’angelo profugo
passava la pietra abrasiva.
La memoria dell’alveare cucciolo
era solo il pretesto
per scindersi dalla fiaba ovale
che la terra quotidiana riscrive
piroettando intorno al sole.
I 100 NATALI DI PETER PAN
Di questo secolo compiuto
senza crescere mai
Conservo le forcine
Cadute dalla chioma
al seno azzurro delle fate.
S’alzavano a Natale
in volo radente
Rapinando i malati sogni
Dagli occhi verdi
d’un parente bambino.
Anche stamani i mercanti di neve
hanno sparso trappole di pane
Per assistere al tumulto dei passeri.
Ripiego in braccio a Barrie
a soffrire l’eclisse delle luminarie
E di pudica indigenza
addobberò il mio arbusto
Con le fibbie di fata.
Ali che battono
al tempo della giovinezza
Il cielo spariglia un’altra sera
su questa pausa di mondi
Ricuciti all’isola che non c‘è.
Meravigliosa avventura forbire
quanto resta del destino
con sapone di cenere.
L’EBBRO SOMMELIER
Niente resta alla taverna dove
capitola il mio risentimento,
secretato dietro uno steccato
di gotti e banconote gualcite.
Sulla bocca, una striscia di carta
assorbente vocaboli raffermi,
un compasso a cerchiar di grafite
l’apicale singulto della carne.
Tra oscuri campiti corre l’uomo
dalla bifida lingua di ventosa
che più non sa dire del fortunale
plasmatore di pascoli e nubi.
In lui brucio i miei colori, come
la protea nell’ora germinale,
né dimestico il dio carpentiere
d’inferriate per frugoli rapiti.
La grandine risiede nella polla
più stretta del cielo sfinito, dove
l’arcangelo fustella mandragole
e ne spreme il tossico siero.
Trapelo accolite vertigini
che cagliano sull’ossidata cute
come rugiada sul tetto dell’auto,
alcova di sesso in contropelo.
Lavo le moine del paraninfo
dal mio palato d’ebbro sommelier,
degusto l’addiaccio dell’agra notte
elusiva messinscena del sonno.
I CAMALEONTI
Sai quanti uomini si sono
arrampicati sino ai tralci
più bassi dell’invasiva realtà
ed hanno dipinto l’anima propria
coi colori del fogliame?
Una cavezza di carta velina
li ha addestrati alla vita
e calzano guanti di velluto
per schiaffeggiare il vento, quando
trasporta l’effluvio degli stenti.
C‘è solo città nei loro corpi
accalcati sulla scala mobile
diretta al paradiso e fanno colazione
con sciroppo d’ortica senza
badare al sonno giusto delle api.
Quando imbattersi in un’alba
corrusca è solo inutile vicenda
vuol dire che i cardini
del tempo iniziano a cigolare.
Io so ancora declinare l’azzurro
che si barattano mare e cielo
e sollevare le ciglia sino
alle stoppie dei sepolcri.
Non devo chiedere il permesso
di essere, cometa senza fragore
o cicala dal raspìo monocorde,
comunque effimero come
il gusto della neve sul palato.
VENEZIA
Certi giorni
il mare di Venezia
colora di mercurio,
senti solo le voci annerite
delle bocche di porto
dove i camalli scaricano
le munizioni della loro sopravvivenza.
Sono i giorni
dell’oblio accumulato
su questa perla salmastra
e ritornare alla laguna del Canaletto
è un attimo di poesia
che traluce nel senno
dell’ultimo gondoliere.
Carnevale, e Venezia s’orna di specchi,
appare un diamante impazzito
che riverbera infinito
il galleggiante portamento di San Marco
in un vetro alitato di Murano.
Venezia, come una fata,
sbocciata dalle risate del mare,
sparpagliate su cento e più calli.
Se, un giorno,
dai tuoi frammenti
poseranno un mosaico al lèmure,
volgerò lo sguardo altrove
e conterò le mie impronte
tra velme e barene
ammiccando alla città anfibia
sconfitta dai sogni.
RADIOFONIA NOTTURNA
Lasciami ancora rapire
da una lemma senza volto,
è l’eco dell’uomo solo
impaurito dal silenzio.
Per lavoro osteggia l’invisibile,
usa la bocca a guisa di cerniera
tra parodia e verità rinviate
ai precari rimpalli dell’etere.
Nostromo delle onde corte,
stucca sui vicoli una guerra
tra schioppi di legno e cerbottane
puntati sulla polla
di un fumoso domani.
In un separé di cristallo
distilla la colonna sonora
del vespro sonnambulo
e la cuffia lo preserva
dall’arruffato sottofondo delle falene.
Parole, a caldo consumate,
screpolano i battenti
dell’ultimo metrò,
variegato bouquet
d’amore e stanchezza.
Sulla scansia dove archivia
il malessere imploso,
un obsoleto transistor
– come perla nella spazzatura –
alza la gonna al mondo.
LA PENA DI CREDERE
Altri fratelli sono passati
per la cruna della guerra
nel nome di religioni cromate dal sangue
ma ho già dato le spalle al video
che farnetica di opulenti deserti
e sabbia negli occhi di dio.
Un sorso d’avvelenata astenia
mi darà la forza per ascoltare
il verso dello sciacallo,
poi stenderò una terra di riporto
sui crisantemi prescelti per costellare
i sagrati di nuove croci.
La mia casa è senza camini
perché niente di ciò che mi è caro
possa finire nel fumo, inaudibile
come una pausa del destino.
Ebbene sì, ho paura di sentirmi odiato
per aver rinnovato le pedisseque
intenzioni del catechismo;
trasalgo al sibilo del treno
che imbocca la tronca rotaia
e trepido di morire nel profetico
eccidio di un emblema rinascimentale.
Per questo lapsus di terrore
ho commissionato al Figlio del falegname
una gradinata che mi conduca
dallo stillicidio del nulla
fino alla pena di credere
oltre il rantolo estremo.
IL PREZZO DELLA FANTASIA
Un ceppo di pino fatato
zampilla sulfureo
in questo pianoro
di uniformi entusiasmi.
Otto sassi di fiume
ridanno un sorriso
alla statua di neve.
Sotto gli evanescenti ombrelli
di un coro di meduse
lambicca il tempo
sulla cosmesi di un istrione.
Sono cresciuto tra le lamine
di un calendario di sogni
con la vocazione dell’ossimoro.
Ho un pastello di torba
per imprimere il prezzo
della fantasia
sulla forma del vento,
fodera invisibile ai miei gesti.
MONOLOGO AD OCCHI SPENTI
Anche il nero ha un suo aroma.
Basta chiudere gli occhi
e zittire l’avidità delle immagini,
confidando nel fremito del buio
che rischiara i frantumi protervi
della città e s’esprime col fruscio
di una goccia di pioggia.
Lo scrutinio dell’indice
disseppelisce la voce dal viso;
è lettura clandestina e dolente,
spartiacque tra la notte che inzuppa
questa vita ed un muco di candela
che si spalma nella bugia
d’un mielato ansimo di fiamma.
Soltanto in sogno si riscaldano
le mani intorno ai pastelli
che dipingono umbratili sporgenze
dove l’anima s’impiglia e riparte
nell’orgasmo leggero di sottrarsi
alla ruggine del tramonto.
Un marsupio di solitudine
è quanto filtra dalla feritoia
di queste palpebre, tendaggio sulle
ustioni d’una realtà vacante.
Resta un tempo scricchiolante
per costruire l’immagine propria,
puntellata alle efelidi
d’una reversibile figura.