LATENTE ISPIRAZIONE
Deja-vu sulla fettuccia d’asfalto
disdegnata dal traffico che bordeggia
inviolabili confini di canali e colture.
Qui è più semplice illudersi di risolvere
la precipua semantica della poesia
e rimettere in circolo la scrittura,
quella che sublima un cespuglio d’ortica
e non affonda in un frasario lezioso.
Vengo da una stagione di latente ispirazione,
il lirismo non ha muscoli né sangue,
e passa per un capzioso scandaglio di stile.
Ora vorrei essere la primula
che lede l’oblio, ritrovando l’ideale
lallazione per descrivere il sapore del vento.
Forse dovrò prepararmi alla visita
della nebbia e rannicchiarmi nella solitudine
del fiume che mormora verso valle.
Come derviscio fletterò il mio scheletro
sino ad afferrare il rigoglio dell’oggi,
unico giorno in cui posso rinnovare
intenzioni esistenziali, strette
nella morsa tra l’indelebile ieri
e un’azzardata scommessa sul domani.
ACCADDE AL GIRO
Il mio nome è Wouter e,
come il più inutile degli eroi,
sono caduto prima di vedere il mare
nell’unica pausa d’una tortuosa discesa
transennata di tifosi.
Duplice il dileggio del fato,
dapprima mi elesse a vicario
del compagno infortunato
e, con la veste guerriera del gregario,
mi invitò ad avverare
il sogno rosa del mio capitano.
Poi mi spinse tra le braccia di Dio
nella ricorrenza della mia unica vittoria
volturando la fanfara nel silenzio
fuori ordinanza di una tromba bersagliera
mentre lo sciame variopinto
colmava l’aria, per un giorno,
col solo rimbombo delle catene.
A mia moglie, nel cui grembo
cresce un orfano, lascio il compito ingrato
di assolvere la bici da ogni colpa,
la impalmi a sposa bambina
e insieme pedalino sulle onde
oltre l’isola dell’apocalisse.
Io guaterò da viali celesti senza curve
dove potrò voltarmi per controllare
il vantaggio sugli angeli inseguitori
senza timore alcuno di raschiare il perno
contro un parapetto assassino.
LO ZODIACO DELLE OMBRE
Ogni ombra è figlia del fuoco, sosia
atona e plumbea di refrattarie materie,
fascino informe che adescò Caravaggio,
apologo di platonica spelonca, guitta
silhouette di arcaici teatri orientali.
Spettacolare è il distacco dell’ombra dal mare,
polifonia di marosi che paiono cibarsi
delle mutue spume, diafana sostanza
pensata per rifrangere il firmamento
e dare un soprannome a questo pianeta.
S’anima in aria un intrigante rimpiattino
tra il capolino di astri dietro gli eclittici
coni e nubi birbanti come veli dinanzi
al calor bianco, forse in Paradiso sono
angeli le vigili ombre sul riposo di Dio.
Terra è lo strame dove si sdraiano le ombre
giocando sull’omotetia, così leggere
da non lasciare calco, negative condannate
a replicare l’esteriore ma accreditate
d’immunità nell’emulare pianti e risate.
FIABA DELL’IMBRATTATO STIVALE
C’era una volta una stirpe di sognatori,
virtuosi cerimonieri naturalmente inclini
al ricetto, abitanti una plaga di miele
variopinto, saldata al continente
da un diadema di giovani montagne,
protesa fra quattro porzioni del melitense
mare e coriandoli di magma, quasi un monito
alla spietata bellezza del suo rachide.
Serve una bussola al polso per misurarne
la cronografia di paradigmi imperiali
e ieratici avamposti, quintessenze di geni
viziosi emendati in perfetti retaggi.
Sotto un lucernario tricolore si ostenta
un secolo e mezzo di geografica unità,
spurio blasone per quella prosapia adesso
ammorbata di scandali, aberranti sevizie
e guerre che non la ineriscono.
Provato da questa china tra etica povertà
e perfida cafoneria, convoglio sinapsi
verso un nugolo di eversiva gioventù
disposta ad adottare l’imbrattato stivale
e rigenerarlo dalla gromma del presente
con lesina e setole di estinti ciabattini.
SILENZIO
Non esiste il silenzio assoluto, perfino
le stelle si parlano attraverso il vento.
E’ antinomia del nulla che vegeta fra acri
di pleonastiche parole, un’arma bianca
che osteggia la più invasiva tracotanza.
Il silenzio non ha cardini, è opzione
dello spirito che aspira ad immoti scenari
gravidi del respiro di Dio.
Il silenzio, clima d’aderenza all’arte,
pesa come un capello senza bulbo
ma sopra i suoi sedimenti poggia talvolta
l’impalcatura della misantropia, un leggio
che blandisce il dizionario del diavolo
dal dorso miniato di catrame.
Sull’auge che fagocita rumori il silenzio
s’erge a mito dissenziente, di cui le umane
convenzioni non hanno mezzo per vendicarsi.