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Lario misterioso: streghe, folletti e altre diavolerie
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Rosa Maria Corti - Lario misterioso: streghe, folletti e altre diavolerie
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 160 - Euro 13,00
ISBN 9791259512000
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In copertina: “Strega” fotografia dell’autrice
All’interno fotografie dell’autrice
PREFAZIONE
a cura del professor Giorgio Terragni
In quest’ultima fatica letteraria Rosa Maria Corti ritorna ad argomenti ben conosciuti dai lettori; le streghe, infatti, sono sicuramente ancora presenti nell’immaginario collettivo a ricordo di qualcosa d’importante accaduto nel passato. Grazie alla penna della scrittrice prende così vita un insieme di storie, basate su un fondo di verità, il cui fil rouge è il ricordo di donne ammazzate senza colpa e un meditato e reverente omaggio a una tradizione che non ci è ancora del tutto estranea. Un tuffo, dunque, nella storia, che l’autrice ben conosce, non limitato all’area lariano-intelvese, ma anche a quella valtellinese, engadinese e ticinese.
Parafrasando il grande Carducci, non si vuole parlare solo di “diavoli goffi con bizzarre streghe”, ma esaltare la “rustica virtù” di quella popolazione che è sullo sfondo delle storie raccontate, dall’“Homo Selvadego” di Sacco in Val Gerola (Sondrio), che avrebbe insegnato ai pastori l’arte casearia, ai simpatici folletti di Bosco Vecchio, capeggiati da Zicarlìn, che ci aiutano a comprendere la magia della natura e dell’invisibile nella foresta del Monte Generoso, ai mitici “Bragˆola” la cui tradizione, tipica della Valle Cavargna, si è quasi perduta.
L’autrice propone anche alcuni itinerari a sfondo magico che sconfinano in territorio elvetico, a Vicosoprano, in Val Bregaglia, (per visitare il Palazzo Pretorio, dove si possono vedere antichi strumenti di tortura e la radura di Cudin dove neppure l’inesorabile passare del tempo ha distrutto le colonne patibolari dove erano uccise le streghe), a Gandria e a Rovio nel ridente Ticino, dove si trovano il “Sass dèla Predescia” o il “Sasso delle streghe” e il “Tavulin di strii”, un enorme masso di dolomia che nel romanzo “L’eretico di Soana” di Gerhart Hauptmann (premio Nobel per la letteratura nel 1912), è il luogo dove le streghe celebravano i Sabba con il demonio.
Tralasciando ora di esaminare storia per storia, va detto che il substrato culturale dell’autrice, abituata a una puntuale analisi storica, traspare spesso in modo deciso, altre volte, volutamente, viene lasciato da parte per permettere al lettore di volare sulle ali della fantasia senza peraltro far uso di belladonna o di giusquiamo, la pianta utilizzata dalle streghe come ingrediente di unguenti che, spalmati sulle parti più indicibili del corpo, portavano al sabba “in spirito”. Il libro è corredato da alcune interessanti immagini fra le quali il mitico “Basilisco”, che troviamo fra gli animali fantastici di Palazzo Besta a Teglio (forse la più bella dimora rinascimentale della Valtellina), l’intrigante Melusina di Como, in via Odescalchi al numero sedici, usata come chiave di volta per un arco e quella nella frazione di Bolvedro in Tremezzina. In copertina ammicca invece una strega del Vallese, dove ogni anno in gennaio si svolge una delle più grandi e insolite gare di sci: gli sciatori sono, infatti, tutti travestiti da strega e indossano maschere selvagge.
PREMESSA
a cura dell’autrice
Streghe, fate, diavoli, folletti, “confinati”, “caccia selvatica” e animali fantastici, come il mitico “basilisch”, popolavano un tempo, nelle lunghe sere invernali, i racconti dei nostri avi desiderosi di tramandare tradizioni, valori e insegnamenti pratico-moralistici. A me piace la storia fine a sé stessa, ho solo il desiderio di intrigare il lettore invogliandolo a girare pagina per scoprire cosa succede poi, a immergersi nelle storie raccontate come in un sogno lasciandogli la facoltà di cogliere i fili misteriosi che esistono tra le cose e di immaginare magari un destino diverso per alcuni protagonisti che sono diventati suoi compagni di viaggio. Non si vuole individuare il percorso che passa dalla sacralità, attraverso il numinoso o meraviglioso, alla demonizzazione, alla caccia alle streghe, ma permettere al lettore di viaggiare nel tempo per rivivere un passato non molto lontano quando vive erano ancora le pratiche magiche, invogliandolo a scoprire un Lario del mistero e a raggiungere, con una serie di “Itinerari Magici”, non solo i luoghi dove streghe e stregoni si riunivano per il grande Sabba, ma anche gli edifici un tempo sede dei tribunali di valle in cui oltre a riscuotere pedaggi si estorcevano confessioni agli imputati con la tortura e a visitare i Musei che racchiudono la “memoria” del territorio, come quello Etnografico di Casasco Intelvi, quello del latte di Cerano Intelvi o quello dedicato all’Uomo Selvatico” a Sacco in Valgerola. Un libro che vuole essere dunque anche “occasione” e spinta propulsiva per una intelligente riscoperta delle vallate a due passi da Como, per avvicinarsi a tutto ciò che di meraviglioso esiste nel mistero della vita in un abbraccio che non conosce la polvere del tempo.
Buon cammino a tutti i lettori!
Lario misterioso: streghe, folletti e altre diavolerie
In memoria dei miei genitori
che mi hanno insegnato il valore delle radici
“Se ta vöo viif e sta ben
ciapa ‘l mund cumè che ‘l vegn”.
Se vuoi vivere e star bene, prendi il mondo come viene
(Detto popolare lariano)
IL SANTO INQUISITORE A CASTIGLIONE
Per tutto il mese di settembre in Valle Intelvi aveva piovuto. Una pioggia insistente non aveva lasciato alle castagne, vero pane per la povera gente, la possibilità di ingrossare. Stavano lì, nei loro ricci striminziti, infreddolite, non si decidevano ad abbandonare la scorza spinosa.
Anche Angiolina da giorni non usciva più di casa. Dopo la morte della nonna si sentiva svuotata di ogni energia. Lo sguardo si posava sulle poche cose che la vecchina le aveva lasciato in eredità; ricordava con chiarezza le ultime parole sussurrate a stento dalla morente: “Ti lascio, ti lascio…” mentre additava un antichissimo volume pieno di strani disegni, senza titolo, con una copertina ormai gualcita. Le pesava sulle spalle questa ennesima partenza. Dopo la madre, che se ne era andata partorendola, quando era poco più di una bambina, era stata la volta del padre. Lo rammentava nitidamente mentre si allontanava sul ripido sentiero della fattoria con il muto compagno del suo calvario, una specie di baule dal telaio di ferro, ricoperto di tela greggia, scura, forte. La nonna vi aveva riposto qualche indumento, alcune cornici lavorate a mano, tabacchiere, piccole trappole che il babbo aveva costruito con le sue mani e che sperava di poter vendere.
Aveva detto di voler tentare la fortuna in Francia, forse anche in Russia. Andare per il mondo però non è come salire sulla cima del Monte Gordona o del Calbiga; la Russia, lo dicevano in molti, divorava la gente.
E Giovan Antonio che fine aveva fatto? Era morto? Era ancora vivo? Di lui non si era saputo più nulla. Angiolina per tanto tempo aveva sperato di vederlo ricomparire in fondo al prato, là dove siepe viva e siepe morta si confondevano, era solita immaginarlo aprire il piccolo cancello di legno ed iniziare la salita con il suo passo lento ma fermo e sicuro, la mano serrata sul bastone di nocciolo da lui stesso intarsiato con pazienza durante la cattiva stagione.
“Verrà, oggi verrà…” ripeteva talvolta Angiolina, come se quelle poche parole, pronunciate come una formula magica, avessero avuto il potere di materializzare il padre. Ma non era tornato. Le stagioni si erano succedute, tanti inverni erano passati, tanta neve era caduta e mentre Angiolina cresceva robusta e sana, la nonna si incurvava sempre di più sotto il peso degli anni e degli strapazzi. Poi la malattia aveva costretto a letto l’anziana donna e relegato lassù sui monti la giovane che non aveva avuto cuore di abbandonarla, neppure per un breve istante.
In paese l’avevano rivista solo per il funerale della vecchia e avevano stentato a riconoscerla tanto era cambiata. In un’estate era sbocciata come una rosa, il più bel fiore di un giardino, gli occhi azzurri come l’acqua di fonte, i capelli ramati dai riflessi caldi, le forme piene e sensuali. Gli uomini l’avevano guardata in chiesa di sottecchi e poi ancora al camposanto senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso; le donne invece avevano tenuto lo sguardo fisso all’altare, poche in verità accomiatandosi dopo il mesto rito, le avevano sussurrato parole di conforto.
“Meno male che non è morta in inverno, altrimenti chi si sarebbe preso la briga di andare a prendere quella vecchia ostinata lassù, in mezzo ai monti?”.
“Eh, certo, alla sua età, sola in quella baita con una ragazzina inesperta… una vera pazzia” aveva replicato un’altra.
Le due donne in verità non si erano mai sentite sole. La nonna sapeva raccontare tante storie, sempre diverse, sempre avvincenti e poi c’erano i lavori dell’orto, la raccolta della legna, delle erbe, gli animali da accudire. Angiolina amava parlare con i suoi animali, aveva dato loro un nome; Tota la mucca da latte, Nerina e Narcisa le sue due caprette; anche gli animali selvatici, come i ghiri che facevano il nido nella legnaia, lo scoiattolo che saltellava sul pino e il barbagianni che gufava sul vecchio noce, erano considerati membri della famigliola.
Adesso certo per Angiolina sarebbe stato tutto più difficile, la malinconia aveva già cominciato ad assalirla con fitte dolorose cui seguivano momenti di spossatezza. Sempre più spesso il fuoco finiva per languire e si sentivano i muggiti della Tota che reclamava il suo fieno o si lamentava per le mammelle gonfie di latte.
“Va a riattizzare il fuoco e metti la minestra a bollire”.
Angiolina si scosse all’improvviso, le era parso di udire la voce della nonna e aveva sentito vicino a lei la sua presenza. Si guardò in giro, ma tutto era tranquillo, si affacciò alla finestrella della cucina ma non vide che i lastroni di pietra bagnati del cortile e la concimaia, orbita ormai vuota. Allora si fece il segno della croce, riattizzò il fuoco, mise l’acqua a bollire e, preso un secchio ed il lume, andò nella stalla accanto alla cucina. Mentre mungeva Angiolina pensava: “Domani scenderò al villaggio, le notti stanno diventando troppo fredde, presto la neve ricoprirà i prati e le provviste ormai scarseggiano. Domani, sì, domani me ne andrò” ripeté Angiolina più tardi mentre allungava la minestra con un po’ di latte ancora tiepido e sbocconcellava un pezzo di formaggio.
L’indomani molto presto Angiolina raccolse le sue poche cose, mise con cura in un sacchetto di ruvida canapa le erbe ed i fiori raccolti durante la bella stagione, chiuse la porta della baita e si avviò con i suoi animali lungo il sentiero che conduceva al villaggio di Blessagno.
IL POTERE DEL SEGNO
Angiolina avrebbe sperato in un po’ di sole, invece fu costretta a compiere il viaggio sotto la pioggia, così respirò di sollievo quando, dopo l’ultima curva, in fondo alla mulattiera, comparvero le prime casupole del villaggio, raccolte e unite nel piano, quasi a volersi sostenere l’un l’altra, contornate dai campicelli lavorati con pazienza e sacrificio.
Da lontano si vedeva fumare qualche camino. Angiolina cercò con lo sguardo la sua casetta, isolata, un po’ discosta dalle altre, sul limitare del bosco.
Stava ancora pensando se imboccare una scorciatoia e attraversare il torrente o scendere in paese e risalire lungo il prato che quasi non si accorse del Pin che saliva verso di lei.
“Oh, Angiolina, finalmente vi siete decisa a scendere in paese?”.
“Eh, sì, Pin, come vedete”.
“La mucca è bella e anche le capre”.
“Fino ad ora l’erba e il fieno grazie al cielo non sono mancati”.
“Già, ma con questa pioggia si annuncia un inverno lungo. Sotto la neve pane, sotto l’acqua fame”.
“Ditemi Pin, come sta vostra madre?”.
“Non bene purtroppo, le fanno ancora male le gambe e la schiena sembra voglia spezzarsi… E già, sono i regali dei nostri monti… Troppe fatiche. Chissà, solo vostra nonna era riuscita a rimetterla in sesto, lei aveva il segno ma ora non c’è più e io non ho certo i soldi per il medico”.
“E vostra moglie?”.
“Mia moglie sta meglio, anche se a furia di badare a quei sei diavoletti che le ho fatto fare è sempre affaticata; solo la lingua non le si stanca mai, voi la conoscete. Ma venite a trovarci, la mamma ne sarà contenta. Ora devo andare, sto cercando il mio cane da caccia. Sarà andato ad inseguire le capre come al solito; è un buono a nulla ma tiene compagnia ai più piccoli”.
“Arrivederci allora”.
Angiolina per alcuni giorni non pensò più all’incontro col Pin. Aveva tante cose da fare. Sbrigate le incombenze della stalla e quelle domestiche, si dedicava all’intreccio di ghirlande e alla composizione di mazzolini con i fiori secchi che aveva portato dall’alpe. Mentre accostava con gusto cromatico alle bacche rosse della rosa canina rametti di ginepro e di agrifoglio, pensava che avrebbe potuto ricavarne qualche soldo al mercato che si sarebbe tenuto in capo ad un mese. Alla sera mentre si riposava vicino al fuoco consultava il volume della nonna; conosceva molte delle specie officinali raffigurate ma si rendeva conto che aveva ancora molto da imparare per sfruttarne appieno i loro pregi.
La nonna le aveva insegnato quali macinare, quali spezzettare per farne decotti nel vino, quali usare fresche e via discorrendo. Con quegli insegnamenti vivi nella memoria, Angiolina decise di recarsi così dalla madre del Pin, l’Agnese per offrirle un po’ di sollievo.
Ben presto in paese la cosa si riseppe.
“L’Angiolina è andata a segnare l’Agnese”.
“Ha fatto il rito delle candele”.
“L’Agnese questa mattina si è alzata, sta bene”.
Il Pin non stava più nella pelle dalla contentezza, l’Agnese ora poteva dare una mano alla nuora che forse avrebbe smesso per un po’ di brontolare e, presa una formaggella, certo non la più grossa, dopo averla nascosta sotto il mantello, ché la moglie glielo avrebbe impedito, prese a salire verso la casa dell’Angiolina.
Finalmente venne il giorno del mercato. Era il 20 ottobre 1606.
Angiolina cercò nella cassapanca l’abito più decente, prese una cesta, vi infilò delicatamente tutte le sue composizioni floreali, qualche panetto di burro, funghi, delle uova e si avviò al mercato.
Il borgo al centro della vallata distava pochi chilometri dal suo villaggio e lungo la strada Angiolina incontrò molte persone.
In paese dopo la visita all’Agnese era scesa poche volte ed erano in molti a ricordarsela in modo diverso. Angiolina pensava alle provviste: farina, lardo, orzo e non si accorgeva degli sguardi invidiosi delle donne e di quelli concupiscenti degli uomini.
Una giovane donna bella e sola, orfana, priva di protezione maschile, era un elemento debole della società, sotto certi aspetti un potenziale pericolo, ma Angiolina non se ne rendeva conto.
La piazza intorno all’antica chiesa brulicava di mucche, pecore e capre. In bella mostra sulle bancarelle rotoli di tela bigia, forse tessuta nei conventi delle Umiliate dell’alto lago, pentole di rame, attrezzi agricoli. Angiolina decise di accostarsi. Gli uomini parlavano forte, le donne agitavano le braccia, allungavano il collo, scuotevano la testa. Alcune soddisfatte degli acquisti e ancora rosse in viso per l’eccitazione della contrattazione, si rivolgevano all’Angiolina e acquistavano con gli ultimi spiccioli un mazzolino.
A mezzogiorno la giovane donna poteva dirsi soddisfatta; la moglie del notaio, donna Giulia, aveva comperato le ultime composizioni, tutto il burro, i funghi e le uova. Così, col cuore che le cantava, Angiolina decise che era tempo di provvedere ai suoi acquisti.
Si avviò dunque guardandosi intorno e ascoltando il cicaleccio della folla.
“Dovevate vedere che accoglienza, che archi trionfali, che processione! Tutti quei panni colorati alle finestre, le donne con i veli bianchi in testa, gli uomini con i costumi delle confraternite…”.
“Dite, dite Caterina, e il Cardinale?”.
“Ah, un sant’uomo, uno sguardo dolce per tutti. Pensare si arrampicava su per i sentieri a piedi come noi… instancabile. In piazza a S. Nazzaro c’era ad ascoltarlo anche quel bestemmiatore dell’Andrea. È stata vista anche la Fiora, quella che cura con le erbe”.
“A proposito, Caterina, voi che ne dite della Fiora? Sarà proprio una…?”.
Angiolina non riuscì a sentire l’ultima parola perché la donna aveva improvvisamente abbassato la voce; avrebbe voluto trattenersi ma ormai la venditrice le stava consegnando il suo involto; pagò e si allontanò ripensando a certe storie udite a proposito di donne della Valle Cavargna dedite al “barlot”.
La nonna, alla quale aveva chiesto spiegazioni in merito, aveva però sempre sviato il discorso lasciando inappagata la sua curiosità.
Accade così spesso che la fantasia supplisca alla realtà, anche se talvolta l’immaginazione coincide o addirittura supera il vero. Angiolina che sapeva ascoltare e aveva fantasia si figurava uomini e donne che cantavano e danzavano seminudi in cerchio, intorno ai fuochi, mentre scorreva il vino e le fiamme si levavano alte nell’oscurità che avrebbe protetto ogni sorta di follia di quei convegni paganeggianti.
Una notte senza regole dunque, a conclusione della quale c’erano molte teste doloranti per il troppo vino, facce pallide e mani tremanti, sguardi misteriosi e sorrisi soddisfatti.
Una voce querula distolse Angiolina dalle sue considerazioni. Lì vicino una contadina che ancora portava il segno del lutto, stava vendendo la sua mucca. La donna aveva la faccia grinzosa e le mani ossute segnate dalle macchie dell’età, si vedeva che era stanca ma si sforzava di sorridere.
“Fatemi un’offerta generosa” disse rivolta al commerciante.
“Quanto volete donna?”.
“La mucca vale molto, guardatele i fianchi, la schiena, le corna e poi è quieta come un agnello”.
La contadina ce la metteva tutta per vendere al meglio la sua bestia, ma col mercante non ci fu nulla da fare; alla fine, pensando che non aveva più fieno in cascina, disse:
“È vostra” e accarezzò la mucca come fa chi si separa da una persona cara.
Angiolina proseguì. Il vecchio arrotino che da sempre vendeva falci, vanghe, zappe, stava chiedendo ad un bambino: “E tu cosa vuoi?”.
“Un falcetto”.
“Per te ci vuole questo, non ti romperà le tasche e non lo perderai”.
Angiolina ravvisò nel bambino che se ne stava lì beato a rimirare il suo falcetto nuovo di zecca, dalla lama lucente e dal manico rosso, il penultimo figlio del Pin ed egli sentendosi osservato si volse e, riconosciutala le disse: “Me lo sono proprio guadagnato, eh sì, ne ho raccolte di felci e di foglie, ne ho portato tanto di letame sui prati!”.
Angiolina gli fece una carezza e tutti e due alzarono il viso come segugi che hanno fiutato le peste della lepre.
Nell’aria si diffondeva l’aroma della trippa che soltanto Rita, la moglie dell’oste, sapeva preparare così bene.
Angiolina decise di concedersi quel piccolo lusso e si avviò alla locanda. Al suo ingresso il brusio, l’acciottolio delle stoviglie cessò di colpo. Gli uomini misero da parte i dadi e le carte e non ebbero sguardi che per lei, quasi se la mangiavano con gli occhi. Le poche donne presenti accanto ai loro mariti, dopo la sorpresa iniziale, si scambiarono uno sguardo di intesa: in quel luogo, una ragazza sola…
Fu lì che la vide per la prima volta il Titta. Era tornato dopo alcuni anni dalla Germania. – Un ragazzo d’oro – dicevano in paese. Solo, a venticinque anni aveva già preparato i sassi per la casa, amava il lavoro e i soldi non se li beveva all’osteria. Prima di partire si vedeva con la Maria del Nin, ma ora dopo tanto tempo se l’era dimenticata. Lei invece non riusciva a toglierselo dal cuore.
Il Titta fissava l’Angiolina come abbagliato dal sole, parendogli la ragazza il trionfo della giovinezza e dell’amore.
Se ne accorsero tutti mentre Angiolina, chini gli occhi sul piatto, terminava il suo pasto in fretta ormai conscia di essere al centro dell’attenzione e desiderosa di andarsene al più presto.
NOTE
[continua]
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