Oltre il confine
Protagonisti di questo racconto una frontiera e un branco di cavalli Che cos’è la frontiera? Un concetto, una delimitazione spazio-temporale propria solo dell’uomo civilizzato. Ma per gli animali esistono frontiere? No, certamente, l’animale è l’essenza stessa della libertà e dell’autonomia e, a questo proposito, vorrei narrare una di quelle che Guareschi chiamava “favole vere”, una storia che è accaduta e ancora sta accadendo sul confine Italo-Svizzero, tra la Valle Intelvi (italiana) e la Valle di Muggio (ticinese), avendo per sfondo luoghi ben conosciuti dai contrabbandieri, quegli “sfrusadüu” che in tempi lontani portavano in Italia notizie di libertà e di “risorgimento” che solo in Svizzera era possibile stampare e, in tempi più vicini a noi, sfidando anche bufere di neve lungo impervi sentieri, i generi cosiddetti extra-doganali come caffè, sigarette e cioccolato.
C’era una volta un branco di cavalli avelignesi che viveva felice in prossimità della vetta di un monte dal quale si godeva un’ampia visuale sul lago di Como e si scorgevano in lontananza altre montagne molto elevate fra le quali il Monte Rosa e il Cervino. Un giorno, purtroppo, il loro proprietario morì e nessuno si preoccupò più della loro sorte. Gli animali presero a vagare liberi pascolando sulle montagne circostanti, incuranti dei cippi di confine, riuscendo a trovare non solo riparo nelle vaste abetaie ma, grazie ad alcuni inverni particolarmente miti, anche cibo a sufficienza. Non essendoci più predatori e mantenendosi a quote piuttosto elevate, lontano dai villaggi e dalle zone frequentate dall’uomo, i cavalli iniziarono anche a riprodursi e ci furono nuove nascite. Il branco si divise allora in due gruppi capitanati rispettivamente da uno stallone e una mula che si era aggregata al gruppo e da un’avelignese detta “ la Bionda” e un altro stallone. Il potente maschio dominante che guidava il gruppo della “Bionda”, una bellissima giumenta dal manto fulvo e dalla criniera di un biondo quasi bianco, decise di guidare il suo branco in prossimità di un paese, un tempo molto frequentato dai mitici “sfrusadüu”, dove si trovavano piante da frutto. Non l’avesse mai fatto! L’altro gruppo, che era solito sostare in una località detta “Praa de la stria”, scese invece verso il lago e fu presto in vista d’un piccolo cimitero dove fece strage di tutto il verde commestibile. “Toccata e fuga” sembrava essere diventato il motto dei due gruppi, in altre parole, passaggi veloci e di grande agilità nonostante la mole non indifferente di alcuni esemplari! Con l’aumentare del freddo, nel cuore dell’inverno, dopo un’eccezionale nevicata che coprì interamente la zona di pascolo, i cavalli furono costretti a migrare in prossimità dei centri abitati in cerca di cibo e dovettero imparare a collaborare fra loro. I più anziani incitavano i meno esperti quando si trattava di superare strette e profonde gole, sentieri particolarmente ripidi o ampie zone franose e gli “scapoli” offrivano protezione ai più piccoli. Il sentimento della gelosia però non è appannaggio solo degli uomini e da uno dei due capibranco fu scacciato un giovane stallone, dal portamento fiero e slanciato, avvertito come un rivale all’interno di quella comunità allargata. Coda folta e criniera lucida, muso prominente e ben delineato, zampe lunghe e affusolate, il giovane era davvero un magnifico esemplare che suscitava meraviglia e ammirazione ovunque. Fu così che venne notato anche dai proprietari di un’azienda agricola che cercarono di acciuffarlo con l’intenzione di destinarlo alla vita di scuderia. Il cavallo, capite le intenzioni degli uomini, incominciò a scalciare e a dimenarsi e ci volle del bello e del buono per calmarlo. Costretto a capitolare per carote e biada, il giovane stallone disse addio per sempre alla prateria, all’erba verde, talvolta così alta da solleticargli il mento, disse addio alle corse con la criniera al vento in mezzo a fiori di ogni specie e colore, disse addio alle montagne, ai faggi secolari, agli abeti, ai larici che d’autunno si tingono d’oro, ai caprioli, ai cervi, ai camosci, e a tutta la minuscola popolazione del bosco, dei rami e degli arbusti. Le cose intanto si mettevano male anche per gli altri cavalli. Lo stallone della “Bionda”, assente da parecchi giorni, era stato trovato morto in fondo a un burrone e la sua compagna, che nel frattempo aveva dato alla luce una magnifica puledrina, aveva bisogno di cure. Sempre più affamati e stremati gli animali si avvicinavano ai paesi in cerca di cibo suscitando timori fra la popolazione e gli escursionisti. Ritenuti pericolosi, furono ripetutamente scacciati e qualcuno pensò anche di catturarli per macellarli. Ma una vigilia di Natale il miracolo avvenne: si costituì, infatti, un comitato per la libertà dei due branchi ad opera di alcune associazioni animaliste e furono pubblicati i primi appelli per una raccolta di fondi. Oggi, finalmente, i cavalli hanno trovato una sistemazione sulle pendici di una montagna “generosa”[1] grazie a un privato che ha messo a disposizione un vasto pascolo non più utilizzato per lo sfalcio dei fieni e non è insolito vedere durante l’estate gli stalloni che, come teneri padri, si portano dietro la prole durante le ricognizioni che non conoscono confini, spostandosi liberamente dall’Italia alla Svizzera e viceversa. I piccoli sembrano gradire l’avventura e galoppano a cielo aperto percorrendo molti chilometri il giorno, sicuri di trovare anche durante l’inverno cibo a sufficienza in un grande recinto dotato di ripari e mangiatoie.
Nota
Concorso per aspiranti fattucchiere
Sopra l’abitato di Mezzegra, precisamente al Pràa de la Taca, si tenne in un tempo ormai lontano un importante concorso per apprendiste fattucchiere. La località, nota per varie grotte scavate dalla natura nel sasso calcare, per una vista mozzafiato sull’incantevole Tremezzina, ma soprattutto per i sabba stregoneschi con tanto di impronte sulla roccia anche di trenta centimetri, lasciate da chi si può ben immaginare, si riempì presto di bellissime fanciulle con zoccoletti adorni di stringhe rosse, lunghi scialli neri, scope ultimo modello e conocchie per filare sotto il braccio. Vennero fatte le presentazioni: v’era una folta delegazione proveniente da Lezzeno, tre concorrenti da Rovenna (Cernobbio), un numeroso gruppo dalla Valle Intelvi, rispettivamente dal Belvedere di Pigra e dal Monte Gringo di Schignano, due apprendiste da San Nazzaro in Valle Cavargna, un gruppetto dalla Val di Pola (Mezzegra) ed infine, oltre naturalmente alle “padrone di casa”, due fattucchiere elvetiche, una proveniente da Gandria, in località Caligiano, che aveva casa nei pressi di un masso cupelliforme enorme detto Sasso della Predescia o Sass de la stria e l’altra da Rovio, sulle pendici del Monte Generoso, che alloggiava nei pressi della cascata della Sovaglia, altro importante centro di raduno per i sabba.
Dopo una prolusione ad opera di streghe di chiara fama toccò alle apprendiste fornire un succinto resoconto delle loro malefiche imprese.
“ Ho maleficiato una fanciulla ed un putto, impedendo loro di mangiare” disse una strega dall’aria stralunata. “Io mi sono recata al barlotto sul monte di Belasio e ho toccato la mano al demonio alla roversa replicò un’altra. “Io ho fatto perdere il latte alle vacche della mia vicina” proferì quella di San Nazzaro. “ Noi abbiamo fatto innamorare con la semenza della felce maschio molti giovanotti di Lenno riducendoli magri e sfiniti come saracchi per il mal d’amore” dissero due sorelle di Lezzeno. Una della Valle di Villa (Lezzeno), che aveva casa presso un canalone diruto, inciso profondamente dalle piene del torrente ed era di colorito verdognolo come le muffe che ricoprivano il suo tugurio, disse invece d’aver fatto franare un pezzo di montagna distruggendo un casa ed un mulino. La transfrontaliera di Rovio, che sosteneva d’aver trasformato uno zelante giovane sacerdote in un uomo “naturale”, libero, innamorato del frutto della vita, al punto tale da sconfessare il cristianesimo in nome di un panismo vitalistico, suscitò l’approvazione compiaciuta delle decane.
Altre raccontarono d’essersi trasformate in bisce ed in gatte; altre ancora d’aver impedito il passaggio delle cavalcature che scendevano alla Valle dei Mulini in Valle Intelvi, fra Castiglione e Cerano, per la macinazione dei grani e delle castagne, di aver acceso le dita della propria mano come zolfanelli, di aver filato chili di lana in una sola notte, ecc. ecc…
Da ultimo venne ascoltata una bruttina che era arrivata in ritardo, tutta spettinata ed affannata, quasi trascinando una grande sacca di pelle dove diceva di aver imprigionato tutti i venti che soffiano sul Lario per poterli, ovviamente, usare a suo piacimento. Subito corse un mormorio di impressionato rispetto fra le novizie mentre un sorriso di approvazione apparve sul volto rugoso delle decane. Tutte le convenute, infatti, sapevano quanto fosse tenuto in conto dalla popolazione il vento che tutto porta, tutto rapisce, tutto conosce, dai sentieri, dalle impervie gole e dai valichi dei monti all’intimità delle case, dei focolari, dei ricordi, dei sogni. Tutte sapevano quanto le acque del lago rispondessero subito ad ogni soffio di vento e quanto i pescatori, ma anche contrabbandieri, commercianti, viandanti, temessero le insidie del “Bellanasco”, dell’“Argegnino”, della “Bergamasca”, per le loro barche, per il carico trasportato, per la loro stessa vita. Se, infatti, con il “Tivano”, l’aria che nella notte scende dai monti della Valtellina e la “Breva”, la brezza del pomeriggio che come un brivido increspa l’acqua e la mantiene in tumulto, le gondole ed i grandi comballi dal fondo piatto potevano alzare la grande vela rettangolare ed in breve tempo portare felicemente a destinazione il loro carico di sabbia, pietre, bestiame, con i venti di origine temporalesca, tipici ad esempio della rümada de San Peder, occorreva lottare per impedire ai propri batèl, naf o navèt di affondare, risucchiati da gorghi schiumanti in una sarabanda di tron e stralüsc.
Appena la ritardataria ebbe spiegato per sommi capi come fosse riuscita nella sua impresa, la diffidenza, la gelosia e la curiosità, che caratterizzano anche le streghe, prevalsero fra le malefiche apprendiste e così la più ardita fra loro chiese una piccola ma efficace dimostrazione. Un mormorio di approvazione si levò unanime perché si sa che “fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”, inoltre lì non c’era in ballo la solita targhetta dei concorsi ma una vera e propria patente di strega, un riconoscimento certificato dal “bollo” del capo supremo.
Fu così che la streghetta in questione, subito soprannominata Mentolina per via del mento decisamente molto sporgente, prese la sacca e, molto cautamente, aprì uno spiraglio. Subito ne uscì un soffio di vent marin che sgattaiolò fuori curioso e si diresse verso lago e monti facendo salire repentinamente la temperatura.
Di quel che successe poi le streghe sopravvissute si tramandarono memoria fino ai giorni nostri.
Mentolina, infatti, di gracile costituzione, non riuscì a richiudere prontamente la sacca , a contenere l’impeto di tutti quei venti che premevano per uscire ed il “Menaggino” riuscì a venirsene fuori, spaventoso e violento come sempre. Fu un turbinare di vesti, un rotolare di conici cappelli, uno spezzarsi di magiche bacchette quali teneri fuscelli, un vorticare di carte della giuria, un rimbombare di tuoni, un rincorrersi spaventoso di lampi, mentre uno stormo di neri cumuli scese dal monte al lago e dal cielo si rovesciarono cateratte d’acqua. Fu un fuggi fuggi generale, tanto delle seguaci del demonio quanto dei buoni cristiani che popolavano quelle plaghe e che mai dimenticarono quella sera di tregenda allorché dalla profondità delle acque del Golfo di Lenno salirono i rintocchi della campana della chiesa sommersa che sempre suona facendo accapponare la pelle quando lo stratempo sul lago miete le sue vittime.
Note
Racconto 2° classificato al Premio Letterario internlingue Montagne d’argento 2007
L’AVVENTURA DI RI.S. 8
Un giorno un’astronave in ricognizione captò un segnale proveniente da un pianeta sconosciuto.
Il pilota, un giovane androide il cui nome era RI.S.8 (Ricognitore Stellare numero otto) e che forse aveva il suo destino scritto nel nome, (come dicevano i latini “nomen est omen”, ovvero il nome già contiene un presagio), con alcuni semplici tocchi alla consolle dei comandi, grazie al sofisticato sistema di rice-trasmittenti di bordo, ben presto riuscì ad intercettare meglio l’indicazione acustica.
Subito si diffuse nella cabina una voce entusiasta che diceva: “Grand randonnée pedestre et après menu special dans l’un des derniers paradis naturels”, purtroppo subito interrotta da una serie di piccole scariche.
Il pilota però, che aveva inserito l’ “Erre C”, ovvero il radio convertitore per traduzioni simultanee, aveva sentito abbastanza per essere preso dalla curiosità, per volerne sapere di più, non tanto circa la gita e tanto meno circa il menu, lui era abituato a nutrirsi con pillolette colorate dalle formule quasi impronunciabili, come “FeKP” o “VtCMg”, quanto a proposito del luogo che veniva definito come uno degli ultimi paradisi naturali.
E così, alcuni nano secondi più tardi, ecco che la navicella, che si era avvicinata molto alla stratosfera, vene inghiottita da un cumulo di nubi scure e minacciose.
Quando all’improvviso queste ultime si squarciarono, agli occhi del giovane androide apparve un panorama magico, grandioso: il sole inondava una splendida corona di montagne che sembravano abbracciare una meravigliosa conca verde dove brillava un laghetto color cobalto.
Il pilota, a questo punto, decise di curiosare più da vicino.
Mentre cercava nel mare di velluto verde punteggiato di fiori colorati che si stendeva oltre il parabrezza dell’astronave il punto più adatto per atterrare, i suoi grandi occhi stroboscopici intravidero la scritta “Parc Régional du Queyras”, scritta che venne subito decodificata grazie ad un altro sofisticato strumento inserito nella consolle di bordo.
Quel luogo dunque, quel paradiso, aveva un nome.
Effettuato l’atterraggio, l’androide scese dall’astronave deciso ad esplorare la zona e, grazie alle sue capacità sensoriali quasi umane, fu subito colpito dall’aria pura, frizzante e rigenerante della montagna e dall’armonia che regnava nella valle. Improvvisamente fu preso allora da un qualcosa che non aveva ancora sperimentato fino a quel momento, uno scombussolamento che, lì per lì, lo spaventò. L’analizzatore che portava al polso, però, non segnalava nulla di anomalo. Rassicurato, con molta prudenza, cominciò ad avvicinarsi ad un piccolo nucleo di costruzioni in pietra e legno, attento ad eventuali voci e rumori sospetti.
I suoi sensibilissimi sensori però non captarono nulla all’infuori di un’invitante traccia olfattiva, seguendo la quale finì per trovarsi davanti ad una porta sulla quale spiccava la scritta: “Pain et spécialités fromagères”.
Il decodificatore portatile, messo prontamente in azione, sfornò subito la traduzione con la seguente specifica che riportiamo per intero.
“Formaggio: alimento sano e gustoso, derivato dal latte di vacca, di capra e di pecora, esistente in numerose varietà ciascuna dotata di una sua propria personalità”.
Poiché non c’era nessuno in vista, ( forse tutti gli abitanti del luogo avevano partecipato alla grande gita con pranzo), l’androide decise di entrare in quell’antro piccolo e scuro dove scoprì che l’ irresistibile profumino proveniva da un cesto ricolmo di bastoni dorati dall’aspetto croccante.
Accanto al cesto, su un grande asse di legno rivestito di canniccio, era esposto in bella mostra un assortimento incredibile di forme, ciascuna contrassegnata da un cartellino con un nome: Tomme de Savoie, Reblochon, Crottin, Sainte-Maure, Chabichou, ecc. ecc.
Lo sguardo di RI.S.8 venne attratto dapprima da una sfera di color bianco avorio posata su una grande foglia verde, poi da un triangolo venato di blu, all’altezza del quale stava un grosso parallelepipedo con muffe verdi. Subito dopo i suoi grandi occhi si posarono sopra un piccolo cilindro grigio con un bastoncino dentro, vicino al quale spiccavano un tronchetto piramidale di color grigio azzurro ed una forma tonda di color giallo arancio.
Quel trionfo di forme, di colori, quel concerto di profumi, mandò in tilt gli automatismi dell’androide il quale, venendo meno alla propria programmazione, all’improvviso distese il sensibile prolungamento del braccio robotico fino ad afferrare una piccola forma tondeggiante, in tutto simile alla sua astronave, che sottopose immediatamente all’analizzatore da polso.
Sul display comparvero i seguenti dati:
“Forma tondeggiante/ colore giallo/ superficie vellutata/ consistenza morbida ed elastica/ cuore cremoso”.
Purtroppo la memoria di RI.S.8 non era in grado di avvicinarlo alla comprensione della scritta visualizzata, comprensione che risiede nell’esperienza dei sapori e che, a sua volta, è data da un insieme di conoscenze: conoscenza del pascolo, degli animali e delle loro abitudini, conoscenza del tipo di latte utilizzato, del tipo di lavorazione e, per finire, dei tempi di stagionatura.
A quel punto l’androide, compiendo un altro gesto non programmato, addentò un grosso boccone di formaggio. Subito una dolcezza incomparabile, un sapore delicato, leggermente aromatico, con sentori erbacei, vennero registrati dai suoi sensibili sensori ed archiviati nell’holocron portatile, associati all’immagine e al nome che figurava sulla targhetta posta accanto alla forma.
RI.S.8 a quel punto fu preso da un’incontrollabile smania e incominciò a fare altri assaggi.
Fu un’esperienza indimenticabile: la butirrosità, la cremosità ed il profumo di erbe di montagna, esaltati dalla fragranza del pane sul quale i formaggi erano stati posti, fecero sperimentare al giovane sensazioni mai provate prima d’allora.
I sensori di RI.S.8 si misero a vibrare come impazziti, producendo un “Bit” “Bit” “Bit” continuo.
L’androide aveva scoperto che mangiare è un’operazione ben diversa dal trangugiare qualche pilloletta preparata in laboratorio; quel cibo genuino, di montagna, quale dono che la natura e la sapienza degli avi ci hanno tramandato nei secoli, era diventato anche per lui pensiero.
Occorreva mandare subito comunicazione di ciò al pianeta base.
RI.S.8 guadagnò l’astronave dove provvide a trasferire dal suo holocron il flusso di ologrammi registrati ai ricetrasmettitori dell’iperspazio che li avrebbero subito inoltrati a destinazione, poi si rimise in cammino chiedendosi quali altre gustose sorprese gli avrebbe riservato il meraviglioso pianeta sul quale era atterrato: la Terra.
Racconto vincitore di Scrivi una fiaba diverrà un cartone animato 2008
ADUNATA
Era una formazione straordinariamente compatta quella che in molti videro avanzare nel cielo, a ridosso delle Alpi, in un tiepido mattino d’autunno. Considerata la stagione gli adulti dedussero che si poteva trattare di beccacce, ma i bambini, che hanno la vista più acuta, si accorsero subito che non si trattava di uccelli. Eh sì, proprio così, quella che avanzava verso oriente era un’enorme schiera di copricapo, tutti quanti guarniti da penne nere, (forse erano state proprio queste ultime a trarre in inganno i grandi).
Ora dovete sapere che una bambina, forse più curiosa di altri o, semplicemente, più sola, decise di unirsi a quell’insolito stormo e, prova e riprova, dopo essersi infilata nell’abitino di lana dai mille colori una penna qui e una penna là, (le gazze vanitose le cambiavano spesso nel suo giardino), aperta la finestra della sua cameretta, cominciò a sbattere le braccia nell’attesa di un potente soffio di zefiro, il vento di ponente, che l’avrebbe portata in quota.
Così avvenne e Iris (così si chiamava la bambina che in verità già da un po’ si esercitava a volare) in poco tempo raggiunse la formazione.
Quando i cappelli la videro non si stupirono più di tanto poiché raramente avevano pronunciato la parola “impossibile”. Uno di loro, in quel momento si trovavano al confine tra Francia ed Italia, a questo proposito, raccontò del suo tenente che, nel lontano 1896, invitato scherzosamente dai Francesi a brindare, con un balzo superò il tetro burrone largo cinque metri che separava le due nazioni; poi, vuotato il calice e salutati militarmente i Chasseurs des Alpes, con una bella rincorsa rifece quel salto incredibile e ritornò sul suolo patrio.
Mentre i cappelli così chiacchieravano amabilmente tra loro e si spostavano verso la Svizzera, Iris guardandosi intorno si accorse che non erano affatto tutti uguali. V’erano, infatti, cappelli di feltro nero di forma tronco conica, guarniti da una fascia di cuoio nero, da una stella a cinque punte di metallo bianco e da una coccarda tricolore; altri, invece, al posto della stella avevano un’aquila incoronata appoggiata su una cornetta sovrapposta a due fucili. La maggior parte però erano di feltro grigio verde con un’aquila in volo ricamata in filo ed una nappina di vari colori: bianca, verde, rossa. Tutti, proprio tutti, avevano una penna nera, in verità spezzata in due, mozza.
Questo fatto stupì un poco Iris che però non osò fare domande ai nuovi amici sembrandole di essere indiscreta.
Intanto vola e vola i cappelli erano transitati per il passo del San Gottardo, avevano passato lo Spluga e si avviavano a scendere in Valtellina. Il paesaggio era come quello delle fiabe, con i monti incappucciati dalla neve, le baite raggruppate a proteggersi reciprocamente, un laghetto azzurro ed una moltitudine di piccoli fiori che avevano i colori dell’autunno.
I cappelli che avevano il cuore tenero avrebbero voluto raccoglierne un mazzolino e donarlo alla bambina ma non c’era tempo, allora, per consolarla, intonarono una bella canzone che subito il vento, attraverso gole dirupate e balze ripide, portò giù nella valle, disperdendola sui sentieri fino alla pianura. Le parole vennero udite da altri cappelli che prontamente si levarono in volo e si unirono al gruppo. Fra questi ve n’erano alcuni un po’ frusti, sfilacciati, bucati e Iris, preoccupata, chiese loro se stessero bene.
“Sai come succede…”, rispose l’ultimo arrivato, “quando nel bosco un tronco pesa e fa male alle spalle, sotto il cappello! Quando sui ripidi pendii pesa la gerla, sotto il cappello! Quando i bambini giocano alla guerra e tutti vogliono fare il comandante ma uno solo è il cappello, chi va di mezzo? Il cappello! Ma non preoccuparti, abbiamo le ossa dure che hanno sopportato ben altre fatiche e sventure.
Poi il cappello tacque. Nella sua mente si erano affacciati tanti dolorosi ricordi: gli automezzi fermi, bloccati dalla neve, le marce a piedi, il gelo condensato in ghiaccioli attorno alla bocca, le incursioni dei carri armati russi, gli scontri tra le isbe, le grida di chi invocava aiuto, la fame, la stanchezza, lo sfinimento…
“Il vecio, il capo, Toni Cantore!”
Queste parole, pronunciate all’improvviso, con foga, quasi gridate, distolsero il vecchio cappello dalle sue riflessioni ed egli, prontamente, si spostò per fare largo ad una “penna bianca” appena arrivata. Era una sorta di leggenda questo cappello e tutti lo guardavano con rispetto.
“Avvanti, avvanti, non perdete tempo a guardarmi, facciamo presto, andiamo!” disse con il suo inconfondibile accento e si mise alla testa della colonna come era sua abitudine di comandante, quando trascinava gli Alpini con l’esempio ed il coraggio.
Sorvolarono l’Engadina, Innsbruck, il Brennero, Bolzano, Trento, Bassano; furono infine a Gorizia, a Redipuglia, il luogo del raduno.
Planarono dolcemente, la penna tesa come una bandiera e si mescolarono a tanti altri cappelli.
“Sono proprio tanti”, pensava Iris, “una massa enorme”.
In effetti, tutti i battaglioni, tutti i reggimenti, tutte le divisioni erano presenti. Qualcuno aveva dovuto volare più di altri (si sa, la steppa russa ed il deserto africano sono lontani) ma erano arrivati tutti ed iniziarono ad avanzare compatti come una valanga.
Sfilarono le penne nere della sfortunata battaglia di Adua; sfilarono le penne nere che furono in Libia sulle brulle colline di Derna, a Sidi Garbaa, a Cirene; sfilarono le penne nere della grande guerra e, mentre i saggi “veci” e gli irruenti “bocia” avanzavano, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, lacrime del cielo per coloro che avevano combattuto in mezzo alla tormenta e al rombo del cannone, dopo aver marciato nella neve, trascinato i pezzi dell’artiglieria a forza di braccia lassù dove nemmeno i muli riuscivano ad arrivare, dopo aver trasportato persino i sacchetti di terra per costruire un riparo dove la montagna non ne offriva di naturali.
E mentre il Col di Lana, il Monte Nero ed il Monte Ortigara rivivevano in quei cuori, monumenti perenni ad una storia scritta col sangue su tutte le cime delle Alpi, nel silenzio, davanti all’enorme cimitero di guerra, rimbombò come il tuono della valanga il richiamo del generale Martinat, rivolto agli uomini della Tridentina, della Julia, della Cuneense: “Alpini, con me, avanti”.
E gli Alpini avanzarono con il loro passo eguale, cadenzato, da montanari, ricordando il tremendo fango albanese, il fronte greco, il Ponte di Perati, la Vojussa insanguinata. Passarono quelli del Cervino, più numerosi seguirono quelli del “secondo” Cervino, caduti nella steppa russa, a Rossosch. Passarono i battaglioni del primo, del secondo, del terzo, del quarto reggimento. Passarono i lombardi del quinto, Battaglioni Morbegno, Tirano, Edolo, il meglio delle valli lombarde. Sfilarono proprio tutti e sembravano dimentichi del loro calvario, del gelo, della fame, dello sfinimento, della disperazione, alla ricerca di una via d’uscita dalla maledetta sacca in cui i russi li avevano intrappolati, sembravano dimentichi della prigionia nei lager, del disprezzo del nemico. Si motteggiavano, parlavano di contrabbando, di prati da falciare, cantavano canzoni in cui si mescolavano il dolore, l’amore, la nostalgia della casa, il ricordo di un bacio, della ragazza lasciata in valle, delle battaglie combattute.
Quanti canti ascoltò Iris quel giorno, poi, le voci tacquero, l’adunata terminò e tutti i cappelli si apprestarono a fare ritorno nel “Paradiso di Cantore”. Sapendo che a casa non avrebbe trovato nessuno ad aspettarla (i genitori erano sempre più impegnati dal lavoro), la bambina non voleva rassegnarsi ad abbandonarli. Aveva sentito le loro voci, aveva dato loro un volto, preciso, vero, aveva conosciuto in poco tempo emozioni, sentimenti, parole nuove, il senso della solidarietà.
Si arrovellava il cervello alla ricerca di un modo per rimanere per sempre con loro. Si ricordò che per i suoi amici niente era impossibile e allora con le sue manine si avvinse stretta all’ultimo cappello che si stava levando in volo.
Alla fine il prodigio si compì. Iris sentì il suo corpo bagnato dalla pioggia che diventava leggero, si allungava, si tendeva, si curvava. Chiuse gli occhi e quando finalmente trovò il coraggio di riaprirli si accorse che i suoi piedini erano rimasti sulla terra, lontani, la testa invece toccava le nuvole in cielo ed il suo corpo era un ponte colorato che univa questi due universi.
Iris sorrise mentre il vento asciugava il suo vestitino di mille colori e le sussurrava: “ D’ora in avanti i messaggi degli Alpini sarai tu a portarli a tutti i bambini”.
Racconto pubblicato in “Una fiaba per la montagna” G.S. Editrice 2003
MAMUSCA
Era l’inverno del 1942: dopo una lunghissima marcia di trasferimento eravamo finalmente giunti al nostro caposaldo, in riva al Don.
Davanti agli occhi non avevo che le rovine di un villaggio, il bianco della neve, il grigio delle canne palustri irrigidite dal gelo; nella mente, nel cuore, il profilo delle mie amate montagne della Valle Intelvi, dove falciavo prati e custodivo mucche. Ogni tanto facevo anche qualche “viaggio” oltre il confine. Per questo motivo nel mio battaglione, il Morbegno, gli alpini mi avevano soprannominato sfroos e, la sera, mentre tenevamo d’occhio il caposaldo dei russi sull’altra sponda del fiume e insieme fumavamo una Milit, raccontavo storie di bricolle, di strüse, d’inseguimenti, di ragazze che ci tenevano bordone, fino a quando si facevano sentire i morsi della fame. Allora uscivamo dai camminamenti e andavamo a frugare, speranzosi, nei rifugi davanti alle isbe bruciate, dove i contadini russi proteggevano dalla luce e dal gelo patate, cavoli e barbabietole da zucchero.
Il più delle volte non si trovava nulla e allora non ci restava che sognare le nostre baite, il latte appena munto, un bicchiere di vino fresco di canvetto e una fetta di polenta calda.
Fame e freddo sembravano aumentare ogni giorno di più, anche se erano sempre meglio delle pattuglie russe che tentavano azioni di sorpresa, delle pallottole di mitragliatrice che ci piovevano addosso come grandine e dei colpi di mortaio che sbriciolavano il terreno e bucavano l’acqua ghiacciata del fiume. Che sconquasso quando rispondeva la nostra artiglieria con i suoi mortai!
Si andò avanti così fino a quando i Russi, dopo aver sfondato le linee rumene ed ungheresi, riuscirono ad intrappolarci in un’enorme sacca. Cominciammo allora a ripiegare cercando di rimanere uniti e di portare con noi quanto più possibile di viveri e di munizioni. La debolezza, il gelo, il nemico, ci azzannavano con i loro artigli ogni giorno di più, costringendoci ad abbandonare molto materiale e purtroppo anche i nostri compagni caduti nella neve che gridavano e ci chiedevano aiuto che, seppure col cuore straziato, non potevamo dare loro poiché non avevamo slitte su cui poterli caricare.
Andavamo avanti attraversando balche, paludi e fiumi gelati, seguendo la colonna col volto coperto da un passamontagna che non riusciva a difenderci dal gelo, ombre scure in un inferno bianco dove, ormai, ci si poteva riconoscere solo per la voce. Quando dalla steppa si levava il vento forte di tormenta si barcollava come ubriachi, si gemeva come punti da sciami di vespe. Una notte mi accorsi di essermi perso nella bufera. Disorientato e solo, con i piedi doloranti, tanto da camminare a stento, andavo avanti col pensiero di potermi riposare, di poter mangiare, senza altra certezza all’infuori di quella che la mia baita sui monti di Ponna, la mia casa, mia madre, erano lontane.
Pensavo alla cartolina con l’immagine del presepe e di Gesù Bambino che ella mi aveva spedito per Natale e alle parole che mi sussurrava quando ero bambino: “ Nella legge del monte è scritto che ogni fatica abbia un premio” e piangevo. Mi rivedevo bambino mentre salivo l’erta del prato con la gerla così carica di concime che sembrava voler spezzare le gambe. Dopo, quando finalmente arrivavo in cima e la scaricavo, tornava leggera ed io, senza l’oppressione del peso sulle spalle mi precipitavo giù a corsa pazza sentendomi come le ali ai piedi. Anche in quei momenti avrei voluto correre ma riuscivo soltanto a trascinarmi stancamente mentre pensavo: “Mio Dio, fai che resista ancora” e avrei voluto buttarmi sulla neve a sognare il caldo del focolare, il suono dei campani, il profumo del fieno appena tagliato, lo scrosciare del torrente. Ma andavo avanti, anche se sempre più lentamente, tormentato dal dolore ai piedi, oppresso dal freddo tagliente, dalla stanchezza, dalla fame.
All’improvviso, dopo aver superato a fatica un avvallamento, mi trovai davanti ad una piccola isba dove brillava un incerto lumino. La raggiunsi. Bussai. Si affacciò sulla porta una donna russa, osservò per un istante il mio cappello d’alpino con la penna, poi mi sorrise e mi fece cenno d’entrare. Aveva il sorriso di mia madre. Entrai e la mamusca in silenzio mi aiutò a svestirmi. Si prese cura di me come di un figlio; disinfettò i miei abiti, mi diede da mangiare frittelle di patata e zuppa calda e infine mi porse un paio di valenchi, i famosi stivali di lana pressata, senza cuciture e molto caldi che volli subito infilarmi nonostante i dolori. Poi mi sdraiai sul pavimento dove vi era della paglia e, finalmente, nel caldo dell’isba mi addormentai sognando la capanna del presepe ed il Bambino nella sua culla di legno che dormiva col viso illuminato da un raggio di luna.
Dormii molto a lungo e quando mi risvegliai cercai invano la mamusca. Provai a chiamarla ma nessuno mi rispose: era scomparsa.
Ripresi allora la ritirata col pensiero a quanto era avvenuto quella notte. Mi sembrava di avere sognato ma avevo i valenchi ai piedi e, anche se il freddo era ancora insopportabile, l’ansia e l’angoscia erano scomparse.
Menzione per il simbolo universale della maternità 2° Premio Letterario Nazionale “E. Trione”
Il cantore di Natale
Un velato sole di Dicembre era ormai scomparso da un pezzo e nell’aria fredda le ombre erano scese a fugare la pallida luce dell’ovest che aveva indugiato sui muri delle cascine.
Allora dal minuscolo campanile della chiesetta di Erbonne si propagò il suono dell’Angelus e i rintocchi salirono attraverso la Val Breggia fino all’Alpe e al passo di Orimento e si diffusero anche oltre il confine svizzero verso Scudellate e Muggio.
In quell’inverno del 1915 la neve era venuta presto e ce n’era talmente tanta che per andare alla fontana del lavatoio bisognava camminare dentro una bianca trincea orlata di lucenti merletti e cristalli che parevano capolavori di traforo. Così per andare di casa in casa, per raggiungere l’unica osteria.
Ma, in quell’ora di attesa, di Vigilia, quei sentierini stretti scavati dentro un bianco candore s’erano di colpo svuotati: anziani, donne e, ultimi, i ragazzini con le guance arrossate dal gelo, si erano ritirati nelle loro abitazioni lasciando fuori degli usci i primi fiocchi di neve che vorticando scivolavano lentamente verso terra.
Nel silenzio greve di malinconia che era calato sul piccolo paese nemmeno la presenza amica del Monte Generoso sembrava di conforto a coloro che avevano figli o mariti al fronte. A tutta la comunità sarebbe mancata in particolare la presenza di Pietro che aveva il dono di saper consolare tutti e una bellissima voce; senza di lui il canto della mezzanotte sarebbe sembrato spento e l’armonium sarebbe rimasto muto.
Sandro e Maria nella loro baita all’Alpe di Gotta, al centro di una grande conca prativa situata a circa 1200 metri di altitudine, sorridevano finalmente contenti per essere riusciti, invero dopo aver molto insistito, a convincere la loro mamma a lasciarli scendere a Erbonne dai nonni paterni. Fra questi ultimi, d’origine svizzera, e i nonni materni, d’origine italiana, c’erano stati in passato forti screzi per via di un campo di patate e di un bosco maldivisi. Anche se non erano una novità queste storie in quel piccolo lembo di terra dove tutti erano imparentati fra loro, (pochissimi, infatti, erano i cognomi che si potevano leggere sulle lapidi del piccolo cimitero, per lo più Cereghetti e Puricelli), la giovane donna non riusciva a metterci una pietra sopra. Ma, si sa, anche in guerra vengono ordinate delle tregue e per la notte di Natale Teresa decise di accontentare i figli che volevano vedere il presepe fatto dal nonno e speravano in una licenza miracolosa per poter ascoltare le dolci melodie del cantore di Natale. Pietro, infatti, che sapeva suonare l’armonium, aveva una voce sonora che incantava tutti, grandi e piccini, ciascuno nel suo canto udiva le parole desiderate, il conforto sperato ed era come se, dimenticata ogni offesa ed affanno, tutta la comunità si allacciasse in un unico abbraccio.
Nel primo pomeriggio dunque i bambini partirono contando di giungere dai nonni prima del tramonto del sole. La mamma sarebbe rimasta nella baita per accudire all’ultimo nato, mentre il padre avrebbe badato alle mucche, alle pecore, alle capre, che abbisognavano d’altrettanto amore e che producevano tante cose necessarie alla famigliola che era destinata ad ingrandirsi ancora.
Arrivati al valico detto “Barco dei Montoni” Sandro e Maria, che avevano percorso la ripida salita a passo sostenuto, si fermarono a prendere fiato ma, recuperate in breve le forze, incominciarono a giocare.
Il sole faceva luccicare la distesa immacolata del pascolo e fu divertente osservare le evoluzioni di uno scoiattolo sui rami di un larice, leggere sulla neve, come fosse il sussidiario di scuola, le orme dei selvatici e seguire quelle di un capriolo forse alla ricerca della corteccia di maggiociondolo, per lui gustoso nutrimento dell’inverno, imitare il “crit crit” dello scricciolo, gettarsi l’urlo ed ascoltarne l’eco mentre si perdeva lontano.
Quando Sandro si accorse che s’era fatto tardi decise di prendere una scorciatoia che, dopo aver superato alcune radure dove nel mese di luglio egli andava con la sorellina a raccogliere mirtilli, s’inoltrava in ripida discesa nel bosco.
Al posto di vedetta sopra il Gavia, il giovane alpino Pietro in quella vigilia di Natale osservava la vallata sottostante bianca di neve e pensava ai suoi cari, alla sua casa, al suo villaggio, piccola frazione del comune di San Fedele Intelvi, in cui ci si conosceva tutti, dal bambino più piccolo al pastore più anziano. Com’era lontano ciò che amava di più e che gli apparteneva. In quei mesi in cui s’era assoggettato ad ogni sorta di fatica con la stessa umiltà con cui si avviava alle fatiche dei campi e dell’alpe, aveva però imparato a comprendere il senso tragico della vita e il pensiero della morte gli si affacciava alla mente senza procurargli angoscia.
Una cosa gli dispiaceva: di non poter occupare in quella notte santa il suo posto in chiesa, accanto all’armonium. Gli sembrava di vedere il banco dove sedevano le donne del coro, di sentire il fruscio delle loro vesti, i bisbigli dei bambini, ma era solo la voce del vento che annunciava l’arrivo della tormenta. Così, quando Pietro si sporse dal suo appostamento per controllare se stessero salendo i portatori con i muli carichi di rifornimenti e le lettere dei parenti lontani, confuse quella voce col sibilo della pallottola che lo colpì in fronte.
Sandro e Maria scendevano velocemente sulla neve ghiacciata che scricchiolava appena sotto il peso leggero dei loro corpi quando ad un tratto una nebbia grigia prese a discendere dalla pineta del Monte Generoso che s’erano lasciati alle spalle e fu subito un mulinare di fiocchi, di grani di neve rabbiosi che picchiavano con forza sul viso. In breve le nuvole furono ai piedi dei due piccoli, li avvolsero e oscurarono tutto.
“Così ci perderemo” disse Maria con un accenno di pianto nella voce.
“Non avere paura” rispose Sandro aggiustando alla sorellina il passamontagna di lana grezza fatto dalla nonna, “presto arriveremo ad Erbonne”. In realtà non ne era così sicuro. Si sentiva colpevole per essersi attardato nel gioco e gli tornavano alla mente certi spaventosi racconti fatti dai pastori più anziani, senza contare che tutto quel buio lo aveva completamente disorientato.
Continuarono a camminare senza sapere se quella seguita fosse la direzione giusta. Intanto le ore passavano.
“Sandro”, piagnucolò Maria, “ho le mani e i piedi gelati”.
“Non preoccuparti, adesso ci ripariamo in quella grotta che ci ha mostrato papà dove un tempo si rifugiavano gli orsi con i loro piccoli e facciamo quella “conta” che ti piace tanto”.
Sandro però sapeva che la grotta era molto più in alto, lontana da loro che si erano sicuramente persi nella bufera di neve.
All’improvviso, come ad una muta invocazione d’aiuto, davanti ai due bambini si materializzò un’ombra possente.
“Oh, ma è Pietro” esclamò Maria, “Siamo salvi!”.
Intanto come se qualcuno avesse tirato un immaginario tendaggio la nebbia scomparve e nella vallata tornata limpida e illuminata dal chiarore delle stelle i due bambini poterono scorgere il piccolo campanile di Erbonne.
Si precipitarono allora correndo verso la chiesa facendovi ingresso proprio mentre il parroco di San Fedele che quella sera aveva parlato molto di amore, invitando a pregare per chi era lontano, al fronte, intonava il Credo.
I bambini, raggiunto il banco dove stavano i nonni, unirono la loro voce al canto sul quale si levò altissima e piena di tono anche quella di Pietro, mentre il suono dell’armonium risuonava nella piccola navata fumigante d’incenso con note ora dolci, ora tristi, ora alte e solenni, ora basse e fievoli, proprio come fanno i fiocchi di neve che dopo aver sfarfallato nell’aria come risucchiati verso l’alto si posano dolcemente a terra.
Quando canto e suono si spensero i due bambini corsero con lo sguardo all’armonium ma ciò che videro fu solamente un raggio di luna che illuminava la tastiera proprio là dove erano solite posarsi le mani di Pietro, il cantore di Natale.