QUELLA VOLTA SUL TRENO
Il mondo dell’infanzia in pochi ricordi. Nonostante siano trascorsi settantasei anni, ce l’ho ancora nel cuore quella volta sul treno. La memoria si fa più precisa: mi rivedo alla stazione di Porlezza nel lontano 1934.
Un violento nubifragio s’era scatenato durante la notte e le acque del Rezzo s’erano ingrossate paurosamente, tanto da investire il fabbricato dell’officina della stazione ed anche il locale degli attrezzi per la manutenzione della linea che sorgevano a pochi metri dal letto del torrente.
Fango acqua e confusione ancora alle undici di mattina e richiami grida muggiti, insomma una gran babilonia che aveva fatto venire il mal di testa alla zia la quale continuava a ripetermi, eccitato com’ero per la novità del viaggio e dell’accaduto ma indifferente all’inclemenza del tempo, di stare quieto, di mostrarmi disciplinato, di non fare il giavàn, di comportarmi come si conveniva.
Eravamo arrivati a Porlezza col piroscafo proveniente da Lugano ed attendevamo il treno per raggiungere Menaggio sul Lago di Como. Dalla mia postazione, una vecchia panchina scolorita, osservavo la stazione che si andava riempiendo di viaggiatori e di semplici curiosi. Accanto a turisti eleganti v’era gente di fatica, un suonatore d’organetto, donne con ceste ricolme di verdura e uomini con bagaglio a spalla, dove facevan capolino rami scintillanti, seguiti da alcuni ragazzini che ripetevano cantilenando: “L’è chi el magnàn ch’el vegn de luntàn, ch’el vegn de Purlèza, ch’el stagna, ch’el peza”. All’improvviso si udì un fischio ed una locomotiva a vapore con le carrozze verdeolivascuro si fece avanti adagioadagio con l’aspetto e l’andatura di un grosso e lento bruco, la sigla S.N.F. sulle carrozze ed una targa in ottone, con il nome di uno scultore ticinese che il nonno nominava spesso, sulla facciata esterna del cassone che conteneva l’acqua necessaria alla locomotiva. Su un apposito vagone vennero caricate legna da ardere e fascine destinate ai fornai di Como, poi anche noi potemmo accomodarci e finalmente, dopo un fischio prolungato, le ruote del treno si misero in movimento. Bello osservare come in un film il paesaggio che sfilava davanti agli occhi: le placide acque d’un umbratile e solitario laghetto circondato da canneti, un’imponente massicciata, un cavalcavia in mattoni e pietra, alcuni ponti in ferro, numerosi torrenti, un’allegra stazioncina con i gerani alle finestre, il cielo ancora imbibito d’acqua ma sempre più chiaro.
Alla terza fermata vidi salire sul treno due carabinieri con un uomo abbastanza giovane che aveva le manette ai polsi. La zia, che dormicchiava sotto l’effetto di un cachet per l’emicrania, l’avrebbe sicuramente definito un barabba, un canaja, uno scia-gu-ra-to. Qualcuno nello scompartimento sussurrò: l’è un cuntrabbandee, un sfrusadüu. Ci avrei scommesso, pensai io, vista l’agilità con cui quest’ultimo era salito sul predellino e considerato che quella che stavamo attraversando era una zona di contrabbando per vocazione; inoltre in quel periodo allo zio era capitato spesso di leggere articoli di cronaca riguardanti il fermo di questo o quello sfrusadüu. Mi chiesi se l’uomo salito sul treno fosse per caso quel “Ment”[3] che era stato soprannominato il “duca della montagna” e che io immaginavo come un cavaliere medioevale, forte, generoso e temuto. Nel frattempo le forze dell’ordine con il prigioniero erano entrate nello scompartimento dove mi trovavo con la zia. Mi bastava sporgere il busto un po’ in avanti e guardare in diagonale per vedere il volto di quell’uomo. Sobbalzai quando colsi il suo sguardo attento fisso su di me ed un brivido mi percorse per una inequivocabile strizzata d’occhi. Quale messaggio lo sconosciuto aveva voluto indirizzarmi? L’uomo non mi sembrava cattivo, forse intendeva dirmi di non temere, che nulla mi sarebbe accaduto di male comunque fossero andate a finire le cose. Eh, sì, pensai, la situazione poteva certo cambiare, sicuramente qualcuno avrebbe tentato di liberare il prigioniero. Ma in che modo? Con un agguato in galleria? Mettendo forse un grosso tronco sui binari? Chissà cosa avrebbero escogitato i suoi compari! E se invece fosse stato proprio uno di questi ultimi a tradirlo, magari per invidia, per ambizione di primato o per inesperienza?
Alcuni mesi prima avevo sentito lo zio commentare un articolo di cronaca apparso su un importante quotidiano riguardo ad una soffiata che aveva permesso di sventare un grosso colpo. Una colonna di cento spalloni guidati dal “Ment” era stata attaccata dai finanzieri, ma nelle mani di questi ultimi erano rimasti soltanto un contrabbandiere e novantasei bricolle, per lo più piene di caffè. Lo zio aveva detto che la storia, la fuga rocambolesca e tutto il resto, sapeva tanto di invenzione giornalistica, di fantasia. I titoli più son colorati meno bisogna prestarci attenzione. Le parole dei giornali, si sa, sono come i piccoli oggetti colorati dei caleidoscopi che cambiano significato in modo variabilissimo ad ogni spostamento…Per me invece nulla era impossibile. Immaginavo il mio eroe percorrere insidiosi sentieri di montagna, sfidare la tormenta ed il pericolo delle valanghe, sfuggire alle trappole delle pattuglie con carichi pesantissimi sulle spalle. Del “Ment”, infatti, si diceva che fosse in grado di trasportare due bricolle contemporaneamente e che, con passo felpato, riuscisse a passare quasi sotto il naso delle guardie, a pochi passi dai loro punti d’avvistamento, grazie ai mitici pedüu d’invoi che garantivano la massima silenziosità e che si adattavano meravigliosamente ad ogni tipo di terreno. Quando però scesi con lo sguardo dal volto alle gambe del prigioniero e dalle gambe ai suoi piedi, con delusione non scorsi che un paio di Superga blu; non c’era nemmeno l’ombra del mitico fulcin, la piccola roncola da cui un vero contrabbandiere non si separava mai. Ma forse il fulcin era ben nascosto nella tasca della giacca di fustagno e alla prima occasione il prigioniero se ne sarebbe servito per sorprendere i suoi guardiani e fuggire sulla montagna di cui era incontrastato signore. Pensai che fosse venuto il momento buono quando il trenino, poco prima dell’ultima stazione, quella di Menaggio, sembrò spostarsi all’indietro e tutti si alzarono in piedi e si affacciarono ai finestrini per scoprire il motivo di tale stranezza. Si trattava invero di una manovra detta del “regresso”, come poi mi spiegò lo zio, per superare una grossa pendenza. Ero ancora tutto preso dalle mie fantasticherie quando, come da un mondo infinitament e lontano, sentii giungere la voce della zia: “Forza, muoviti, siamo arrivati!” Ancora imbambolato scesi i gradini della scaletta e, se non fosse stato per il parapetto di ferro, sarei certo caduto dalla banchina sulla via sottostante. Senza trovare il coraggio di voltarmi, vergognoso, mia avviai verso l’uscita a lago seguendo la zia. Mi sembrava di aver tradito un amico, avrei voluto che il treno continuasse il suo viaggio, che si trasformasse in barca. Una volta in acqua forse mi sarebbe stato possibile aiutare il mio eroe, ero un provetto nuotatore, vincitore di medaglie… Una vettura di piazza, purtroppo, era già pronta per trasportarci a Cadenabbia dove avremmo trascorso il resto delle vacanze di quella lunga estate che segnò la fine della mia infanzia.
Il ricordo ch’era salito alla superficie della coscienza, come un pesce che dal fondo dell’acquario dov’era nascosto sotto un corallo venga a schiacciare la sua boccuccia contro il vetro che noi stiamo ad osservare, dopo il vagabondaggio della mente, adesso svanisce lasciandomi la testa leggera leggera.
Note
1° classificato Premio Letterario Internazionale Antonio Fogazzaro 2010