Aria di vacanza
A Bolsena, d’estate, sin dal primo mattino, all’alzare della cresta del gallo, sotto la luce rossa del sole, la natura si desta lentamente, risvegliando la vita dal torpore della notte.
Gli usignoli escono dal nido, salterellando tra tronchi e foglie verdi, ancora bagnati di rugiada, e se ne vanno a testa in giù in cerca di muschi e larve, ignari poveretti dell’agguato d’un gatto vagabondo che se ne sta accovacciato con una zampetta stesa e gli occhi fissi sui rami, pronto a catturare gli sventurati uccellini che, al bagliore del giorno, stanno cinguettando allegri in attesa di beccar qualcosa per sfamarsi.
Al loro canto spalanco la finestra, m’affaccio sul davanzale per ammirare il paesaggio singolare: tra colline e prati avviluppati dall’azzurro cielo, s’estende placido il lago tremolante in cui rispecchia la deliziosa casa in stile provenzale del nonno Vincent. La tenuta resta nascosta tra maestosi alberi di pino nell’immenso parco verde ed è la residenza estiva in cui tutti gli anni assieme alla mia famiglia vado a trascorrere meravigliose vacanze.
La casa, di forma circolare, è sorretta da robusti pilastri in marmo e corredata da due scalinate, una sinistra e una destra, che conducono all’ingresso principale da cui s’accede al grande salone rotondo.
I miei genitori hanno tirato fuori tutto il loro estro creativo per arredarla finemente con divani in pelle, tavoli bassi in cristallo e lampade moderne.
Al primo piano della casa ci sono il soggiorno e la cucina e ampi corridoi che portano alle camere da letto e ai bagni. Dal salone si esce sul terrazzo che affaccia sul lago, dove si contempla una vista incantata e si possono vedere tramonti surreali. Dalla scala interna a chiocciola, si scende al pianoterra nella sala hobby e nell’immenso parco all’inglese, ricco di piante esotiche. Proprio qui il nonno ha voluto che fossero disposte poltrone, tavoli, comodi dondoli e amache, per poter sonnecchiare durante il pomeriggio al venticello che trasporta l’odore inebriante dei fiori.
Dai viottoli snodati s’arriva in piscina dove, assieme alle mie sorelle, nuotiamo per ore e prendiamo il sole a pancia in su, rilassate e sicure.
La proprietà è protetta ai lati da tre grossi cancelli automatici e dalla natura rigogliosa che cinge orti, vigneti, castagni, alberi secolari di pioppo e salici, che hanno formato robuste e fertili radici tutt’intorno. Lo spazio della villa s’estende al margine della vegetazione su campi aperti, fino ad arrivare alla sponda opposta del lago.
È in questo meraviglioso regno che noi cresciamo, tra echi e monellerie, tutte le estati.
Un anno, per evitare i nostri pianti e strepiti all’addio dei compagni e degli insegnanti, la mia famiglia decise di portarci al lago di Bolsena senza attendere i risultati degli scrutini.
– Angelica, alla buon’ora! – mi urlò una mattina mia madre. – Pensa seriamente che fra qualche giorno dovrai lasciare le tue valigie cariche di ricordi e dire addio al collegio elementare.
Era finalmente arrivato il primo sabato di giugno e di lì a poco anche quell’anno scolastico si sarebbe concluso, e saremmo partititi per le vacanze estive.
Eravamo quasi al completo: papà, mamma e le mie due sorelline color rosa pallido, Marta e Ginevra, e la baby-sitter Luisa, che viveva con noi da quando ero nata. Mancava soltanto il nonno Vincent che ogni sabato, appena sveglio, usciva presto di casa per essere da noi prima di colazione. E il nostro risveglio infatti profumava di cornetti caldi con la crema.
Nondimeno, quel giorno erano le dieci e ancora non si vedeva. Ero tanto in pensiero, cosicché domandai alla mamma: – Ma quando arriva tuo papà?
Non finii la frase, che sentimmo: Drin! Drin!
Arrivò il nonno gagliardo più che mai, ci abbracciò e ci baciò: – Su… su… bambine, preparatevi! Andiamo a “Villa Edvige”, lo sapete che è stata chiamata così in onore di vostra nonna? Santa donna, che Dio l’abbia in gloria!
La mamma lo guardò di traverso, fece una smorfia e senza dir nulla alzò le mani verso l’alto.
Solo a quel punto si strofinò il naso e, con fare scettico, strepitò: – Prendete il trasportino di Lilla e mettetela dentro, altrimenti facciamo tardi!
Ognuno di noi trascinò svogliatamente il proprio trolley. Mia sorella Ginevra ne aveva uno rosso, con il viso di Barbie con la chioma bionda svolazzante; sullo zainetto giallo di Marta, la mia sorella più piccola, spiccava Violetta, personaggio Disney che lei adorava.
Io, mi portavo dietro una grande sacca grigia con le facce sorridenti di Hello Kitty.
– È bella! La tua valigia con i gatti – fece nonno Vincent.
– No! – risposi seccata – Hello Kitty non è un gatto, è una bambina graziosa e vivace.
– Una bambina… ma se ha perfino i baffi? – e intanto col dito la indicava goffamente.
– È un’antropomorfizzazione – intervenne mamma. – In realtà, Hello Kitty è una bambina spiritosa, sta in piedi e non a quattro zampe, e non ha la pelliccia. Per festeggiare i quarant’anni dalla sua nascita, al Japanese American National Museum di Los Angeles presto s’aprirà una mostra in suo onore.
– Andiamo a Los Angeles a vedere la mostra di Hello Kitty! – gridò Marta.
– Chissà! – rispose il nonno. – Magari il prossimo anno!
Nel frattempo, Luisa e Rudolf caricavano in macchina bauli di roba con dentro accappatoi, costumi interi, bikini, zoccoletti, pinne e occhiali.
– Bambine, datemi i vostri bagagli – fece la baby-sitter, prendendo quelli delle mie sorelle.
– Caspita, quanto pesa! – esclamò Rudolf, sollevando la mia valigia. – Cosa hai messo dentro: i sassi?
– No! – risposi con aria saccente. – Ci sono solo i miei libri di racconti, perché devo leggere e ampliare le mie conoscenze.
Quando salimmo in macchina per andare alla volta di Bolsena, la Mercedes di papà era sovraccarica di roba. Non sembrava un’automobile, ma un cammello traboccante di mercanzie.
Presto, le mie sorelle iniziarono a bisticciare.
– Fatti più in là – strillò Ginevra spingendo, e Marta: – Mi stai addosso!
– Io sto al posto mio, allontanati tu e non mi scocciare! – rimbeccò Marta. Il litigio durò per un lungo tragitto e quelle due si tirarono persino i capelli. Finché mamma, infastidita, non le rimproverò aspramente: – Finitela! Altrimenti torniamo indietro e starete in punizione per due giorni.
Per calmarle, io proposi un passatempo: – A turno, uno di noi dovrà pensare a un soggetto, oppure a una cosa, e gli altri dovranno fare domande per indovinare il personaggio.
– A chi vince tre volte di seguito – aggiunse il nonno – offrirò il gelato!
– Ecco – esclamò mamma – ci mancava solo questa!
Iniziai il gioco pensando a un personaggio dei cartoni animati di “Lilli e il vagabondo”.
– È un maschio? – attaccò Ginevra.
– Un uomo – replicai io.
– Fa parte di un cartone animato? – insistette Marta.
– Sì! – precisai.
– È un cane? – chiese Ginevra.
– No! – risposi, soddisfatta per la loro partecipazione.
– Hai detto un uomo… – ribadì Marta, – perciò si tratta di una persona.
– Giusto! – controbattei.
Andammo avanti per un po’, poi mia sorella Marta strillò di aver capito chi fosse il personaggio. Cominciò a ridere ed esplodendo esclamò: – È Joe! Il cuoco del ristorante italiano, che assieme a Tony dà da mangiare a Biagio e Lilli!
– Bravissima! – gridai mentre nell’abitacolo dell’automobile tutti le battevano le mani.
– Eccoci qui, finalmente! – esclamò la mamma.
Appena arrivati alla villa, corremmo verso il sentiero che ci portava direttamente al lago, mentre Luisa ci intimava di fermarci.
– Signorine, aspettatemi! – La nostra baby-sitter urlava e camminava con difficoltà sulle pietre. Era alta e aveva un’andatura dinoccolata: pareva una giraffa. Noi ridevamo a crepapelle perché sapevamo che non poteva raggiungerci. Giunte sulla riva del lago, cercammo tra i sassi un po’ di pietre piatte da lanciare in acqua. Io avevo imparato da papà a tirare i sassolini e lo insegnai alle mie sorelle.
“Un sasso lanciato su un liquido immobile – pensai tra me e me – crea un movimento a reazione”.
Presi delle pietruzze e le gettai in acqua, sperando che propagassero i cerchi concentrici sulla superficie.
– Che divertimento! – gridarono le mie sorelle, correndo instancabilmente a destra e sinistra per cercare altri sassi piatti.
Eravamo felici all’aperto e respiravamo aria di campagna; tra gli alberi al fresco dei salici giocavamo spesso a nascondino e con le dita creavamo le ombre cinesi di cani, gatti e lupi, riproducendone perfino i suoni.
Marta mise il giacchino a coprire il capo e cominciò ad emettere ululati, intimorendo Ginevra, che all’inizio scappò verso me e si strinse abbracciandomi.
– Uuuuu… Uuuuu… – ululava Marta. – Sono il lupo mannaro…
– Lasciami in pace… lupo cattivo! – schiamazzò la piccolina, e gli fece la linguaccia.
Dopo qualche minuto, tutta trafelata, arrivò Luisa: – Basta monellerie… Smettetela di correre come furetti, altrimenti dirò ai vostri genitori di mettervi in punizione.
Non ci fosse stata lei a controllarci, avremmo rischiato seriamente di cadere giù nel lago.
Il padrone della villa era il nonno e, per farlo inalberare, di tanto in tanto mia madre lo beffeggiava: – Questa è la meravigliosa villa di Vincent, che è padre-padrone!
Il nonno sosteneva che quella casa l’aveva fatta costruire proprio per sua figlia Adelaide. Ripeteva continuamente che sapeva che un domani si sarebbe sposata e avrebbe messo al mondo dei bambini. A quel punto mamma, storcendo il muso, controbatteva: – Oh, papà, sei sempre stato lungimirante! Forse quando io ero ragazza, tu guardavi nella palla di vetro?
– Finiamo subito questo discorso, – esclamò di colpo il nonno, è meglio che esca a respirare un po’ d’aria pura.
Per il suo aspetto raffinato e per le sue origini inglesi, il nonno a Bolsena era soprannominato Sir Vincent. Era di carattere introverso, quasi mai egli parlava direttamente con la mamma e talvolta, utilizzava metodi bizzarri per farle arrivare messaggi in codice. E in questi casi si sforzava persino d’interagire con Lilla: – Tu, cara gattina – le ripeteva – ami soltanto la casa e non riconosci l’amore del padrone.
Indugiava così per ore e ore, impassibile, accarezzandola, come se coccolasse una figlia. E sembrava divertirsi perfino quando la gatta sollevava le zampe e lo graffiava: – Luisa, per favore, portami dell’alcol e metti Lilla in giardino.
Nonno Vincent aveva molta complicità con Michele, mio padre, il quale aveva perso da giovane i suoi genitori in un terribile incidente stradale. Rimasto solo, papà aveva riversato l’affetto sui suoceri. Spesso, nonno e babbo andavano insieme al mercato a comperare il pesce e a entrambi piaceva andare in cerca di prodotti particolari: infatti quando stavano a Roma facevano volentieri un salto da Eataly, supermercato specializzato nell’alta qualità, per comprare delle golosità.
Mamma, invece, con il nonno non aveva molta sintonia: lei era piuttosto petulante, lui ostile, e non facevano altro che polemizzare, perfino per un nonnulla. Anche se il nonno a modo suo voleva proteggerci, la mamma non apprezzava i suoi interventi.
– Soltanto io e Michele ribadiva – possiamo indirizzare le bambine, perché siamo i loro genitori.
L’ultimo episodio sgradevole capitò due settimane orsono. Marta, nei mesi invernali, frequentava l’accademia Kledy Dance di Roma, dove studiava danza classica. Per la chiusura dell’attività agonistica le insegnanti avevano preparato i bambini per la prova classica: “Il lago dei Cigni”. La coreografia era di Zarko Prebil e la musica di Tchaikovsky: le bambine erano vestite da cigni rosa e bianchi e i maschietti indossavano tute nere elasticizzate. Tutti assieme danzarono con armonia e stile e fu un successo strepitoso sia per i bambini sia per gli insegnanti, orgogliosi della riuscita. Al saggio finale era stato invitato anche nonno Vincent che, sebbene apprezzasse la danza classica e la musica, quella sera era infastidito. A fine serata, finimmo al ristorante “Checco lo Scapicollo”, dove si mangiava bene e c’era spazio all’aperto, per muoversi in libertà.
Eravamo tutti seduti e avevamo finito di ordinare, quando la mamma chiese al nonno: – Papà, ti è piaciuto il saggio? Marta è stata molto brava, non è vero?
– Sì – rispose il nonno, un po’ irritato, – è stata una performance eccezionale! La bambina è veramente preparata.
– Allora, perché fai questa faccia… – insistette adirata la mamma. – Cos’è che non va?
– Adelaide – le contestò il nonno – vorrei ricordarti che Marta ha la scoliosi e ballare sulle punte dei piedi incide sulla sua colonna vertebrale e non le fa bene.
– Papà – ribadì mamma con voce alterata, – ti ricordo che l’ortopedico le ha diagnosticato solo un leggero atteggiamento scoliotico, e che la danza a livello amatoriale non le è stata controindicata.
Quella sera si punzecchiarono per un po’, offendendosi l’un l’altro a voce alta e dicendosene di tutti i colori.
Papà provò a cambiare discorso per calmarli: – Guardate chi sta entrando! – esclamò. – Francesco Totti! Con l’intera squadra della Roma!
Le mie sorelle, sfacciate, andarono a salutare i calciatori giallorossi rimediando autografi e carezze sulla testa.
Rivolgendosi a mio padre, Totti gli fece i complimenti:
– Sono davvero bellissime, ma con tre femmine più sua moglie a casa non sarà facile!
La mamma parve calmarsi, tuttavia per il resto della sera non rivolse la parola a suo padre.
Qualche giorno fa, mia madre era in camera, e osservandosi riflessa allo specchio esplose: –̶ Non deve averla sempre vinta! Mi sento pronta per lo scontro aperto, faccia a faccia, come due pugili sul ring. Questo continuo conflitto finirà per annullarmi…
Poi, sfiorando il vestito verde di lino un po’ datato, continuò: – Sono inguardabile! È necessario che mi prenda cura di me! Ci vuole una ristrutturata, ho bisogno di scarpe alla moda e di un bravo parrucchiere. Occorre sfoltire queste sopracciglia unite, che mi fanno somigliare a Frida Kalho.
Era demoralizzata, la mamma: parlava, piangeva e borbottava.
– Basta con i doveri, prima d’ogni cosa devo soddisfare i miei desideri soffocati in tutti questi anni.
Seduta sulla poltrona si dondolava nervosamente, rimanendo a occhi chiusi per qualche minuto.
– Sono una donna sposata e libera, ho tre belle bambine e devo essere per loro esempio di una madre forte e matura. Troppe volte ho rinunciato ai miei sogni: devo imparare a soddisfare per prima me stessa, e poi gli altri.
Pensai che mia madre fosse inquieta: da quindici minuti stava parlando da sola come una matta. Era risentita per qualcosa, oppure qualcuno le aveva fatto un torto?
Alla fine, con gli occhi rossi di pianto, mamma piombò nella mia stanza.
– Angelica, verresti con me a fare shopping?
– Sicuro mamma, – risposi. – Con molto piacere!
Salii in macchina e cominciai a guardare fuori dal finestrino: era sabato mattina e le strade erano deserte. Lentamente le persone camminavano assorte nei propri pensieri.
La mamma avrebbe comprato qualcosa alla moda anche a me? Chissà! Avrei voluto tanto dei fuseaux gialli e una maxi maglietta con Hello Kitty.
Arrivati al negozio “Femmes Fatales”, lei si provò tanti vestiti. Era bellissima, la mamma: le dissi che somigliava a una diva.
– Quale attrice in particolare ti ricordo? – mi chiese.
– La bellissima Demi Moore – risposi stringendomi nelle spalle.
– Se qualcuno – ribadì la mamma – non mi avesse ostacolata quando volevo studiare teatro, sarei potuta essere come lei.
Era una donna intelligente, mia madre: lavorava molto e faceva di tutto per dividersi tra ufficio e famiglia. Era proprio una buona mamma, attenta ai nostri desideri: trascorreva con noi tanti bei momenti, portandoci a cena fuori o al cinema. Un giorno forse m’avrebbe parlato anche delle sue vere aspirazioni, della sua infanzia e dei sogni svaniti.
Quella mattina comprò due vestiti: uno di seta bianco a fantasia viola, scollato dietro fino alla vita, e l’altro di tessuto stretch. Dopo aver abbinato ai vestiti due paia di sandali con il tacco, andammo in profumeria. Lì, prese smalti di tutti i colori, rossetti, una trousse di ombretti e il profumo “Acqua di Parma”.
– Ti prego, fammelo sentire! Quest’odore è buonissimo, ha un aroma agre e delicato che mi rilassa – esclamai con un sorriso.
– È vero – riprese mamma – e poi piace molto anche a papà.
Guardai il suo volto raffinato e mi accorsi che somigliava parecchio a suo padre.
Da giovane, nonno Vincent doveva essere stato un uomo interessante. Molto alto ed elegante, vestiva abiti classici un poco datati, ma ben tenuti, e in testa portava sempre un cappello di paglia bianco a falda larga.
Aveva una personalità forte, ma non si sapeva mai a cosa pensasse. Estroverso per certi aspetti e introverso per altri, di certo l’empatia non era il suo forte.
– Sir Vincent – parola di mio papà – ha un carattere sui generis.
Tuttavia, per me, al di là del carattere difficile, dei suoi conflitti interiori e dei suoi difetti, il nonno rimaneva un uomo fantastico! Era il mio modello di vita, mi aveva insegnato a osservare tutto ciò che mi circondava, a disegnare usando i colori giusti, a scrivere i miei pensieri in quello che lui definiva “Il diario delle mini storie di Angelica”.
A entrambi piaceva dipingere all’aperto: la nostra gioia più grande era andare in riva al lago a ritrarre paesaggi. Uscivamo di casa al mattino presto, e a mezzogiorno, con i vestiti diventati variopinti, ritornavamo per pranzo.
Comunque, il principale interesse di Sir Vincent era scrivere fiabe meravigliose. Era stato insegnante di materie letterarie in un importante liceo classico di Roma. E sebbene ora fosse in pensione, coltivava i suoi interessi, continuando a leggere e scrivere appunti seduto sulle panchine del parco.
– Faccio le schede – ripeteva, senza distogliersi dal taccuino – e preparo le mappe concettuali per i miei racconti.
Un giorno, al parco, il nonno cominciò a sbriciolare un panino per terra: – Kuru… kuru… kuru… venite a mangiare le mollichine, care colombine.
Di lì a poco, arrivarono decine di piccioni che, dopo aver beccato, poco riconoscenti presero di mira il suo cappello bianco, che divenne a palline marroni, tra il suo cruccio e lo stupore dei passanti. Allora il nonno, indispettito, si tolse il cappello che tenne con le mani dietro la schiena, dirigendosi verso casa.
Il nonno era un salutista, sosteneva l’importanza di mangiare sano e tutti i pomeriggi ci invitava a far merenda con lui.
– I bambini devono nutrirsi bene, per crescere! – diceva sorseggiando il suo infuso, mentre si chiacchierava del più e del meno.
Una volta tirò un sospiro di sollievo, mi guardò negli occhi e impostando la voce disse: – Angelica, bambina mia, delle volte noi guardiamo le cose con negligenza, cogliendone soltanto alcuni aspetti. Invece è importante non solo afferrare la loro natura, ma i particolari più significativi.
Nel frattempo, io avevo distolto la mia attenzione verso il riverbero del sole che brillava in giardino e non afferrai il suo pensiero. Gli chiesi cosa volesse dire.
E il nonno mi chiarì il concetto: – Se osservassimo una bambola nella vetrina di un negozio di giocattoli, ne coglieremmo soltanto alcune aspetti, ma se invece l’avessimo tra le mani, allora potremmo scoprirne le fattezze, e tutti i particolari della creazione.
Sollevai la testa e, fissando i suoi immensi occhi azzurri, gli sorrisi per rassicurarlo di aver compreso. Lui si complimentò e mi abbracciò: – Brava, nipotina mia!
Lo invitai a una passeggiata per la campagna e dopo gli proposi una partita a dama, un gioco nel quale si vantava di aver conseguito medaglie e coppe. Ma tutte le volte che io andavo a dama, lui si rattristava.
– Caro nonno – gli dicevo soddisfatta – è un gioco, e bisogna saper perdere!
Il pomeriggio era trascorso serenamente, ed era già ora di cena; io non avevo voglia di mangiare e chiesi ai miei genitori il permesso per andare nella mia stanza a leggere. Avevo bisogno di rilassarmi e stare da sola: scrissi una lunga lettera alla mia amica Matilde, e poi, stanca, mi addormentai vestita.
La mattina seguente mi svegliai con una fame da lupo al canto di Martin, l’usignolo che viveva ormai dall’inizio dell’estate fra gli alberi del nostro giardino. Restava ore e ore a cinguettare, perlustrando a testa alta i pericoli della campagna. Sono sicura che, all’interno d’un cespuglio spinoso o su qualche tronco rovesciato, aveva creato una coppa con fili di arbusti avvolti l’uno all’altro con foglie secche e legnetti sottili. Era l’ideale per la cova della femmina, e il poverino da circa due settimane vi si aggirava con costanza per difendere il nascondiglio dai predatori, fin quando non fossero nati i pulcini.
– Quando arriverà il momento – pensai, – Martin volerà per procacciarsi il cibo: larve, insetti e bacche che serviranno a nutrire i piccoli appena nati, che non sono in grado di volare.
Ascoltando il suo dolce canto chiesi al nonno se gli uccelli sapessero della presenza degli uomini e dei bambini.
– Sicuramente! – mi tranquillizzò.
Martin sapeva tutto di noi; con il suo canticchiar felice, svolazzando di ramo in ramo, la mattina ci svegliava per partecipare alla nostra vita quotidiana. Ai primi rumori della casa e ai nostri schiamazzi, l’usignolo si drizzava sul ramo, alzava il becco in alto e curvava un po’ la testolina. Quindi girava gli occhi a destra e a sinistra, e puntando il petto carenato apriva le ali volando sul davanzale della finestra della cucina, dove raccattava, tutti i giorni, le briciole della colazione.
Stando vicina alla natura e agli animali, trascorrevo il mio tempo serenamente, e il lago era il posto in cui mi sentivo felice. Giocando con entrambe le mie sorelle: Ginevra, la più piccola, aveva solo cinque anni ed era ancora molto ingenua, mentre Marta, con la quale interagivo con più complicità, ne avrebbe compiuti otto, e ogni giorno diventava più perspicace e curiosa.
– Angelica – mi chiese, su due piedi – mi spiegheresti per favore la differenza fra realtà e apparenza?
–̶ Che bella domanda! – pensai, e non sapendo rispondere, le dissi che il nonno, al ritorno dalla passeggiata pomeridiana, le avrebbe spiegato bene il concetto.
– Realitas – attaccò Sir Vincent – proviene dal latino, ed è la condizione di ciò che è, ed esiste in natura. Noi possiamo comprendere con razionalità attraverso i nostri sensi gli oggetti: per esempio, con il tatto possiamo stabilire se una cosa è liscia o ruvida, e capirne dunque la materia, contestando così l’apparenza ottica che delle volte è fittizia e incerta.
A quel punto il nonno come un vero mago portò altri esempi, tirò fuori dalla tasca un fazzoletto bianco e vi nascose un vasetto viola. Quindi chiese a Marta di che colore fosse.
– È lilla – disse la bimba strizzando gli occhi – o forse celeste!
Allora il nonno tirò via il fazzoletto e ribadì: – Questa è la conoscenza incerta e apparente, perché il colore reale del vaso è viola.
E Marta concluse: – Quello che vediamo alla televisione non è certo reale!
– Bravissima! – proruppe il nonno, soddisfatto e orgoglioso.
Intanto, Lilla credette che Marta la stesse chiamando, e si precipitò come un fulmine verso di noi. Sbatté contro la tavola apparecchiata e trascinò a terra la tovaglia con la nostra merenda; buttò giù così bicchieri, succhi di frutta, panini, tazze, tè, biscotti e quant’altro.
– A mettere a posto – fece il nonno a voce bassa – e a pulire per terra ci penso io.
Luisa aveva sentito il fracasso e intervenne in nostro aiuto. In pochi istanti riordinò quel caos, frattanto la gattina impaurita si rintanò sotto il dondolo, mostrando soltanto gli occhi che emanavano bagliori scintillanti. Guardai fissa la mia gatta e scorsi nelle sue pupille un crepitante fuocherello.
Marta cresceva a vista d’occhio e con lei io e il nonno riuscivamo a fare discorsi da grandi. Invece Ginevra era ancora piccola, capricciosa e birichina. D’altronde, era nata prematura e cresciuta nella bambagia. E talvolta mi ricattava: – Devi giocare con me – strillava – altrimenti ti rubo le Barbie, le nascondo, e non le potrai mai più ritrovare!
[continua]