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Prefazione
Il romanzo «Il magico giardino» di Rosolino Jim Tatano è avvolto da un’atmosfera quasi surreale, come a ricercare un incanto dietro l’altro, in un susseguirsi di suggestioni, di profonde riflessioni sul significato della vita, sull’inevitabile ricerca del proprio essere, dell’autentica essenza che ogni essere umano ha dentro di sé.
La trama è decisamente raffinata e, pagina dopo pagina, alimenta un continuo fascino quasi a condurre il lettore nelle pieghe più nascoste d’una acuta osservazione del reale che sempre è contaminato dall’elemento magico e misterioso della dimensione che possiamo definire “invisibile”.
L’inizio è già avvolto da un’atmosfera irreale ed evanescente. Il protagonista, Arthur Goretti, in una notte tremenda, sotto un diluvio, un violento vento, tuoni e fulmini, si ritrova sul prato d’un giardino, quasi privo di coscienza e pervaso da un misterioso torpore.
Il maggiordomo di Elena Gadi, una donna dolce e compassionevole, lo trova in quello stato, lo aiuta a svegliarsi e lo porta in casa. Lei lo ospita, lo accudisce e poi il risveglio di Arthur che si rende conto di essere in un luogo sconosciuto anche se, dalla finestra della sua stanza, può vedere il fantastico giardino, teatro di quella fatidica notte terribile, che ora è pervaso da colorati e profumati fiori.
Tutto pare avere una nuova dimensione, una nuova luce. Ora, davanti a se stesso, si rende conto di essere un uomo caduto nell’abisso della solitudine, tra alcol e vizi, allontanatosi “dalla bellezza della vita” ed ormai ridotto ad uno spettro di se stesso. Nella sua mente il rimpianto “per ciò che era” e adesso un’infinita amarezza lo assale dopo tre notti d’agonia e vaneggiamenti.
Arthur è un artista, un pittore, che crea passando attraverso la sofferenza e sentendo sulla pelle ogni emozione, ogni lacerazione e dissidio della vita.
L’esistenza come una sfida continua che deve essere ingaggiata con coraggio, cercando di recuperare la capacità di sognare per rimanere veramente “vivi”.
È lo stesso autore de «Il magico giardino» che, ad un certo punto, scrive: “Tutto ciò che ci circonda, influenza le nostre emozioni, amplifica le sensazioni, le indirizza verso direzioni remote dell’essere”.
Ecco allora che ritrovarsi in un luogo fantastico dove si è desiderato stare può diventare una gioia e, allo stesso modo, se siamo limitati in un luogo desolante, una minima preoccupazione o un banale guaio possono diventare un atroce abisso.
L’arte curerà Arthur che ritornerà a dipingere ed Elena, la sua salvatrice, diventerà la sua modella, la sua Musa.
Rosolino Jim Tatano, ne «Il magico giardino», offre una serie continua di visioni affascinanti, sempre ponendo l’accento sul ruolo dominante dell’immaginazione, della fertile visione artistica, che diventano un rifugio, un’oasi mentale, unendosi e miscelandosi fino a rappresentare la salvezza per l’Uomo che si trova a vagare in un mondo instabile ed insicuro.
Nel gioco evanescente d’una narrazione che racconta la storia d’un uomo che è il simbolo del “viaggiatore” nell’anima, d’un uomo che ha camminato per molto tempo e in luoghi sconosciuti, l’autore recupera la concezione del sogno, dell’arte e della magia.
Tra un mondo metafisico dechirichiano e la “foresta incantata” pollockiana, quasi in preda ad una visione, ad una immane vertigine, le superfici si colorano delle manifestazioni della vita e di profonde riflessioni esistenziali: la coscienza e l’inconscio, la costante visione mistica, la concezione del tempo come l’arte del sogno.
La necessità vitale di una nuova luce che illumini il cammino, riproponendo nuovi colori della vita, mai dimenticando che è fondamentale “mettersi a lottare” per conquistare la magia della creazione.
Massimiliano Del Duca
Il magico giardino
Questa opera è dedicata alle ladies N. E. e M. N.
“Affinché questo giardino sia alla base di tanti nuovi e bellissimi fiori.”
Capitolo 1
Nel Buio E Tra La Pioggia
La pioggia battente aumentava d’intensità. Quelle infinite gocce bagnavano e si abbattevano su tutto: sui tetti delle case dai camini fumanti, sulle strade desolate ed infreddolite, sui passanti che cercavano di ripararsi in tutti i modi possibili, sugli alberi che si dimenavano in un modo convulso, sulle grondaie inzuppate fino a traboccare.
Nel cielo nero immense nuvole coprivano le stelle ormai da dimenticare per quella notte. Tutto suonava una musica monotona e agitata in un sol tempo, ricoperto da un odore umido e gelido.
Terribili lampi, per pochi attimi, abbagliavano ogni cosa. Il mondo sembrava cambiato in qualcosa di romanticamente surreale, come per un incanto effimero, tutto veniva coperto, di nuovo, dal buio pesto prima ancora che l’occhio meravigliato si accorgesse di quella luce che fa apparire ogni cosa mutata d’un fascino sconosciuto.
Continuava a precipitare la pioggia, a far percepire quella confusione che solo la Natura è capace di creare e l’uomo può solo ammirare sbalordito. Lo scroscio era continuo e imperterrito. Sembrava che tutta la pioggia di un anno intero stesse precipitando in una sola notte. Tuoni prolungati rimbombavano nel cielo e si espandevano creando un terremoto sonoro in tutte le case dai lumi spenti e dalle finestre barricate. Il vento soffiava irrequieto, seguito dal suo esercito di spifferi che agitavano le luci delle strade come un’orgia di spiriti terrificanti in una notte di sfrenatezza. Le fantastiche ombre facevano rivivere fantasmi secolari e scatenati. E il vento che sfiorava con violenza i rami degli alberi riproduceva il suono di un flauto naturale che stravolgeva la musicale calma in angoscioso rumore.
In quella nottata di diluvio, su un giardino odoroso di erba umida, accasciato senza sensi c’era un uomo. Dio solo sapeva come ci fosse andato a finire su quel prato bagnato e fangoso.
Un fulmine abbagliò tutto, una mano lo scosse, una voce agitata lo esortò:
«Sveglia, sveglia!»
Quell’ombra continuava a dimenare l’uomo addormentato e privo di coscienza; insisteva per far destare lo sconosciuto e invitarlo a tornarsene da ovunque fosse venuto. Quel prato non era il luogo adatto per passare la notte, per passare una notte di pioggia come quella.
«Sveglia, sveglia!» Insisteva la voce intirizzita dal freddo, adirata per l’ora tarda e il cattivo tempo.
Il temporale aumentava il suo impeto d’angoscia tra tuoni e lampi; tra lampi e tuoni il cielo tetro sembrava che stesse precipitando sulla terra per avere un impatto devastante. I bagliori, che nella mente creavano strani fotogrammi, agitavano sempre più la mano spazientita che scrollava l’uomo svenuto.
«Sveglia, sveglia!» La sagoma imperterrita continuava l’esortazione ormai senza bontà.
Continuava a urlargli affinché quell’individuo si svegliasse e andasse via da quel giardino inzuppato. Agitata quella voce riprendeva a scuoterlo. Credeva che fosse un cadavere abbandonato lì da chissà chi. Un morto sotto un cielo di pioggia, nero d’orrore, che solo al pensiero un brivido di terrore gli percorreva tutta la colonna vertebrale, le gambe iniziarono a tremare senza fermarsi e la voce si spezzava singhiozzante.
Un grande e infinito tuono terrificante fece tremare il mondo e fu proprio allora che l’uomo accasciato iniziò a prendere conoscenza scacciando via le paure di chi lo invitava a risvegliarsi e andare via da quell’inferno d’acqua.
«Sveglia, sveglia!» Ripeté con vigore la voce. E apparve per un attimo il suo volto abbagliato da un fulmine.
«Dove sono?» Disse stordito l’uomo ancora steso a terra. «Dove sono? Che ci faccio qui? Dove sono?»
La pioggia batteva e ribatteva. L’uomo provò a rialzarsi a stento: era privo di forze. Era tutto bagnato dal diluvio che si era abbattuto su di lui per tanto tempo. Gli tremavano le gambe e le braccia, indebolite e irrigidite, quell’uomo si sentiva molto debole e stanco. Con i capelli tutti inumiditi e con uno sguardo triste chiese aiuto a chi aveva provato a svegliarlo da quel misterioso torpore.
Il bagliore di un fulmine illuminò nuovamente il mondo per un brevissimo attimo ed egli vide con chiarezza il volto del suo aiutante, fissandolo bene nella sua memoria. Era il volto di un uomo, con occhi infreddoliti e vivi che davano un’impressione di bonarietà. Teneva un ombrello in una mano e con l’altra provò a far rialzare lo sfortunato abbandonato a terra. Lo fece alzare in piedi, non si reggeva molto bene, la debolezza era più forte di qualsiasi altra cosa in quell’uomo sventurato.
«Ecco, tenga il mio ombrello» disse il benevolo aiutante. «Si ripari da questa tempesta! Tenga, si metta il mio cappotto! Vada a casa e s’infili subito sotto le coperte. Lei è troppo debole e ha bisogno di tanto riposo per rimettersi di nuovo in sesto.»
Il benigno aiutante attese con ansia che il povero disgraziato se ne andasse, non vedeva l’ora di perdere di vista quell’uomo che chissà da dove veniva. Quell’uomo che chissà chi fosse! E cosa ci facesse prostrato sul quel prato! Quei pochi attimi gli sembrarono un’eternità di tormento.
Lo sciagurato provò a riacquistare lucidità, si scrollò la testa completamente infradiciata e si strizzò gli occhi gonfi: sembrava un deportato atterrito che avesse subito il supplizio dell’Inferno. La pioggia non si fermava un attimo. Fece i primi passi molto lentamente sull’erba limacciosa, tremava dal freddo, camminava piano e trascinando i piedi percorse alcuni metri zoppicando come un viaggiatore che avesse camminato per molto tempo e che venisse da posti molto lontani e sconosciuti. Cercò con tutte le forze, le poche rimaste, di combattere la sua debilitazione. Barcollò per circa altri due metri e improvvisamente si sentì un tonfo, crollò a terra, cadde sull’erba sbattendo il corpo come morto. Stramazzò sul soffice manto perdendo nuovamente i sensi. La sua faccia mostrava lo sfinimento che prevalse sulle sue striminzite energie e su tutto se stesso! Troppo debole era per tornare da dove era venuto; chissà dove doveva andare? Dove doveva tornare? Quanta strada doveva fare ancora? E chi era?
Erano troppi i quesiti misteriosi da porsi per capirne qualcosa di normale; ma quale era la cosa più giusta da fare? E chi poteva farla a chi? Uno sconosciuto può aiutare uno sconosciuto?
Quella sera sembrava che ogni cosa si ribellasse alla normalità. Il disordine di quella nottata prese il sopravvento sull’ordine e la calma paradisiaca che una notte può offrire.
Non era la notte giusta per far finta di non accorgersi di qualcosa che non andava. Ma in fondo, qual è la notte giusta per non dare una mano a chi sta male?! Se c‘è una notte giusta per fare qualsiasi cosa, buona o sbagliata che sia! E poi, come se non bastasse, ci si metteva anche il cattivo tempo a complicare le cose e a farle sembrare molto più orripilanti di quanto potessero essere.
Tutto ciò che ci circonda a volte influenza le nostre emozioni e le nostre sensazioni, le amplifica, le governa e le indirizza verso direzioni remote del nostro essere. Dove nulla può controllarle, dove si contorcono febbrili come creature frenetiche, dagli occhi rossi, che divorano i nostri più bei sogni e i nostri desideri accattivanti. Una piccola gioia può diventare estasi infinita se ci troviamo in un luogo fantastico che desideriamo sin dal giorno in cui siamo nati; ma ogni più piccola paura può diventare un mostro gigantesco e invincibile, se siamo circondati in un luogo angusto, solitario e spaventoso. Debole è la mente umana, molto più debole di un esile corpo. Si perde facilmente il controllo dei pensieri e dei sensi che si alterano per cercare e trovare qualcosa di nascosto nel buio più distante della mente. Così, senza avviso, inizia la lotta tra l’appagante lucidità e le affascinati visioni distorte dalla fervida immaginazione: rifugio e nascondiglio alternativo agli orrori della coscienza e del mondo, quel mondo che sempre più dà insicurezza a chi vive e vola tra sogni e fantasie che non possono altro che abbellire questo grigio globo.
Capitolo 2
Il Riflesso Di Un’anima
Il risveglio fu improvviso e confuso; quell’uomo abbandonato a se stesso, sotto la terribile tempesta, si era appena svegliato indolenzito su un letto caldo. In una casa, non in un luogo sperduto a cielo aperto. In una stanza di un posto a lui sconosciuto. Su un letto comodo e caldo che gli era stato offerto con misericordia divina.
Era tutto dolorante, si sentiva tutte le ossa a pezzi, non poteva muoversi bene e un gran mal di testa bloccò tutti i suoi pensieri, tutti i suoi dubbi e tutte le sue domande.
Si alzò molto lentamente, era ancora debole. Indossava un pigiama comodo e morbido e si indirizzò verso l’unica finestra che donava a quella stanza ombrosa una timidissima luce che non permetteva di vedere molto. Con scatto fulmineo aprì le tende e una fortissima luce lo abbagliò. Strinse forte gli occhi inerti di fronte l’attacco innocente della luce solare che regnava fuori da quella stanza. Lentamente riaprì gli occhi affinché si abituassero a quel bagliore inaspettato.
I suoi occhi si armonizzarono con lentezza all’immenso lume e finalmente vide ciò che c’era oltre la finestra. Il luogo che vide non era altro che un bellissimo giardino e una vasta landa di natura incontaminata. Il giardino era quello in cui si era abbattuto privo di sensi, ma lo scenario era totalmente cambiato, totalmente diverso.
I suoi occhi increduli videro un prato tempestato da fiori di mille colori, sembrava il diadema del Creato; un cielo azzurro come gli occhi di una dèa, un cielo così bello non lo aveva mai visto prima! Il sole invincibile faceva brillare le nuvole di un magico argento; sentì il canto spensierato degli uccellini che volavano come spiriti infantili e giocosi.
I suoi increduli occhi videro il cambiamento di quel giardino che mutò da orribile e pauroso a paradiso di beatitudine.
La sua mente continuò a volare tra il profumo inebriante di quel mantello, invitando tutti coloro che poggiavano gli occhi su di esso ad abbandonarsi a un piacere rilassante e ad entrare in totale simbiosi con ogni minimo suono, odore, colore che la Natura donava con tutta se stessa, senza nulla volere in cambio.
Si ridestò da quelle bellissime visioni di realtà rara. Si voltò ad osservare la misteriosa stanza che l’ospitò, e vide un’altra immensa bellezza, ma stavolta tutta opera delle mani raffinate dell’uomo.
«Ma dove mi trovo?» si chiese con infinito stupore e con uno strano senso di calma, ma pur sempre ancora un po’ stordito, confuso e sconvolto.
Era in una stanza bellissima, abbastanza ampia, arredata con sobrietà. Ad una parete c’era appoggiato il grande letto a baldacchino dove aveva riposato per chissà quanto tempo. Alle altre pareti c’erano dei quadri molto grandi: le laterali del letto erano abbellite da pitture con motivi floreali che ricordavano molto il quadro Ibisco con plumeria di Georgia O’Keeffe; e in quella di fronte, una copia sicuramente non originale del Bacio di Klimt. Tutto il soffitto era occupato da un affresco che rappresentava la vita vivace di alcuni angeli e dava al cuore una gioia che nasceva dall’angolo più lontano. Al centro vi era appeso un lampadario di gran valore, arricchito da una marea di prismi per dare alla luce un effetto magico e atavico. C’erano due porte, una chiusa che portava fuori da quella raffinatissima camera, l’altra socchiusa dava al bagno.
Entrò nel bagno per darsi una rinfrescatina, ne aveva molto bisogno. Si lavò, recuperò molte energie. Infine si risciacquò la faccia per dare l’ultimo tocco di freschezza, ma quando l’asciugò, guardandosi allo specchio, vide parte della sua anima, vide la sua decadenza: tetra dimensione dove era precipitato.
Si guadava fisso, con uno sguardo allucinato, allo specchio limpido e pensò: “È proprio vero, che ciò che più ci affligge è ciò che possiamo diventare.” Continuò parlando tra sé e sé: “Il sorriso delle tue labbra è stato strappato e devastato quello del tuo cuore. Guardati! Guardati!” Il suo sguardo si accese con un filo d’ira e proseguì nel soliloquio: “Guarda come ti sei ridotto. Guarda i tuoi capelli spettinati, lunghi e senza forma. Guarda la tua faccia ricoperta da quella barba incolta. Guarda i tuoi occhi infossati, i tuoi occhi che hanno fatto sognare molte donne. Guarda i tuoi occhi di cielo: dove è andata a finire la lucentezza di una volta? Dove è la luce di vita che emanavano?”.
I suoi pensieri si fecero sempre più gravi, scoordinati e profondi. “Ma ti sei visto? Magro, scarno, pallido da far paura a un morto. Ti rendi conto cosa sei diventato? Sei un uomo che ha toccato il Paradiso e ora striscia nel fango dell’abisso di un falso paradiso che illude e scorre in un fiume di alcool e vizi che ti fa sempre più degenerare in una vita priva di bellezza. Proprio tu, che della bellezza ne avevi fatto fonte infinita da esibire nella vita. L’inganno ti ha abbattuto e adesso vivi da perdente! Un influsso deleterio regna dispotico su di te, su di te che accettavi di essere governato solo dalla bontà d’animo! È proprio vero, che ciò che più ci affligge è ciò che possiamo diventare, se si cade nella rete del degrado!”.
Le sue parole, anche se solo pensate o sospirate, erano colme d’amarezza, rimpianto e rancore. Gli apparivano parole malinconiche come se guardasse Piazza d’Italia di Giorgio de Chirico. Qualcosa tormentava la sua vita. Qualcosa che non tutti potevano sapere. Qualcosa che non tutti potevano conoscere. Brutto il tormento dell’anima: serpente silenzioso e crudele.
Uscì dal bagno, uscì dallo scorcio di dolore interiore che l’aveva guidato in quello sfogo catartico. E proprio in quel momento entrò nella camera una donna, una donna vestita in maniera semplice e accattivante. Aveva i capelli biondi come le spighe di grano in Giugno, lunghi fino a toccare con delicatezza, timidamente, le spalle esili e raffinate. Il volto chiaro. Gli occhi neri come la notte mostravano un velo di dolore, ma il suo sguardo era fiero e ribelle. La sua silhouette era magra, ma affascinante e misteriosa. Le ricordava tantissimo il fascino occulto della donna immortalata nel quadro Piccante di Mel Ramos.
«Ah, è sveglio Signor Goretti!» disse la donna con voce pacata e candida. E continuando disse: «Lasci che mi presenti. Io sono Elena Gadi. Lei si trova nella mia abitazione. Nella notte di tempesta, guardando la pioggia battente cadere dal cielo tetro, la vidi che brancolava nel buio del mio prato. Sotto quel temibile acquazzone camminava a zonzo con passo sfinito. Finché si accasciò come morto sul selciato erboso. Allora chiamai il mio maggiordomo ordinando di venirle in aiuto per invitarla ad andare via. Ma lei era troppo debole per fare qualsiasi cosa, quindi mi sono presa la briga di ospitarla a casa mia…»
«Ma… come fa a conoscere il mio nome?» chiese lui interrompendo la donna, ancora intontito e curioso.
«Semplice!» disse ella sfoggiando un sorrisetto astuto. «Semplice, Signor Arthur Goretti! Ho controllato tra le sue cose, tra i suoi documenti, quando ho fatto pulire e stirare i suoi indumenti dal mio domestico. Ho cercato di rispettare il più possibile la sua privacy, soddisfacendo maggiormente le mie sane e prudenti necessità. Non posso permettermi di ospitare un criminale, quindi mi sono informata con le forze dell’ordine della sua condotta e lei risulta incensurato, immacolato come un’alba. Come credo lei ben sappia, tutti i pensieri sono sospettosi e le buone azioni lo sono anche di più.»
«Ma da quando sono qui?» disse Goretti con lo sguardo perso nel vuoto.
«Da tre notti.» Rispose seria lei. «Tre febbrili notti d’agonia. E delirante non faceva altro che farfugliare parole incomprensibili, come: “...le vostre anime! Le vostre anime!”. Lei smaniava in preda all’inquietudine, signor Goretti.»
L’uomo era più confuso che mai, tutto l’accaduto l’aveva portato in uno stato di debolezza. La tempesta, il risveglio, le notizie che aveva ricevuto, tutta questa stranezza rese le sue facoltà mentali impedite di fronte ogni pensiero. Si sentiva prigioniero in qualche quadro di quei pittori che immortalano scene fantastiche e del tutto fuori da ogni briciolo di realtà. Si sentiva intrappolato in qualche quadro di René Magritte o terribilmente impigliato nella Foresta incantata di Jackson Pollock. Si sentiva preda di qualche sogno chiuso nell’inconscio e sprigionato senza censura, nella vita non tanto ordinaria di tutti giorni.
«Adesso si rivesta Signor Goretti, i suoi abiti sono nell’armadio. Il pranzo è quasi pronto!» disse la donna facendo ritornare alla realtà l’uomo che sentiva le sue parole echeggiare nella mente annebbiata. «Le farò indicare dal mio maggiordomo la sala da pranzo, tra un po’ sarà pronto. Io adesso vado, ci rivedremo più tardi.»
La compassionevole donna andò via, l’uomo rimase solo nella camera, si rivestì. Si sedette sul letto e iniziò a pensare. S’immerse nei suoi pensieri più profondi per fare mente locale su tutto l’accaduto, ma era tutto inutile, la sua mente era più debole del suo corpo. Era come ricomporre un puzzle con un’infinità di pezzi. Si sentiva schiavo della libera prigionia del destino. Si sentiva colpevole per aver distrutto e condannato alla rovina eterna il mondo, un preziosissimo mondo, un bellissimo mondo: il suo. Sentiva un profondo senso di gratitudine nei confronti di quella gentilissima signora, che ha ospitato uno sconosciuto che si era precipitato dietro la sua porta in una notte di pioggia infinita e ora si trovava nella sua casa, ospitato nel malessere, curato e nutrito come un figliol prodigo che torna a casa, ma in una casa del tutto sconosciuta. Sicuramente era una donna fuori del comune per fare tutto questo. Ma forse, mentre tutto sembrava perso, ora si era mostrato a lui un timidissimo spiraglio di speranza che avrebbe potuto portarlo a migliorare la sua anima avvilita, sciupata, priva di colori, i colori che rivestivano ogni cosa con un velo di fascino infinito di fresca innovazione. Una luce nuova gli serviva adesso, una luce che facesse apparire mille nuovi colori, proprio tutti quei bellissimi colori che erano già sfumati via silenziosi. Ed ora una grande lotta lo attendeva per riconquistarli.
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