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In copertina illustrazione di Anita Ariola
Nel retrocopertina illustrazione di Margherita Andrea Bruno
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2021
Ringrazio la scuola Kennedy di Domodossola,
la mia maestra Michelina Anselmi Colnago
e la maestra Euridice Monteduro;
Anita Ariola per il disegno di copertina;
Margherita Andrea Bruno per il disegno
del retro di copertina;
Stefania Gianfrancesco e Paola Colnago
per la prefazione e postfazione;
le mie sorelle, mia mamma, mio papà e il mio passato;
i miei figli, mio marito e il futuro;
Noura, Laura e Marina perché ci sono state;
Alessandro Ghisletti che l’ha approvato;
la mia micina Harissa perché ha creduto in me
e mi ha supportata sempre;
la meravigliosa Vita concessami
PREFAZIONE
Quando si parla di potenza, la mente immediatamente rievoca i concetti tonanti di forza, gravità, sforzo, corporeità. Eppure le parole di Elisa Nunziatini Salhi sono potenti pur non avendo nessun legame con i concetti appena elencati. Le parole di Elisa Nunziatini Salhi hanno la tenacia liquida dell’acqua, che, per dirla con Margaret Atwood nel suo Canto di Penelope, non ha forma, pare non avere volontà ma arriva dappertutto e raggiunge sempre il suo scopo.
E così questi “penzierini” (“la mia maestra del mattino dice che sbaglio: si scrive “pensierino”. A me viene sempre da scrivere “penzierino” … A me piace di più la “z” perché la “s” scivola, la “z” si fa fatica a dirla e a scriverla e rimane tra i denti. La “z” resta” racconta il penzierino del 15 febbraio 1972), esattamente come quella zeta birichina difficile da dire e da scrivere, restano. Nella memoria del lettore. La prima comunione, l’emozione del primo giorno di scuola, la visita alla mamma in ospedale, la nascita e la perdita di una sorellina, i capricci di bambina, i giorni a letto con l’influenza, il declino della vita e perfino la pandemia che ha rimescolato tutte le carte della vita moderna: Elisa Nunziatini Salhi tratteggia con grazia una collezione di pennellate lunga cinque decenni, dal 14 dicembre 1971 al dicembre (forse) 2021.
Pennellate ingenue e delicate, che si posano con agio sulla sottilissima linea che divide la realtà dall’immaginazione, il ricordo dalla fantasia.
In questi tempi iper-realistici, sempre e solo in alta definizione, in questi tempi che hanno la presunzione di sapere tutto e che condannano l’esitazione, la scrittura rarefatta di Elisa Nunziatini Salhi, che, per fortuna, costringe il lettore a completare alcuni tratti perché tutto sia definito, è una salutare boccata di ossigeno, una lettura necessaria. I racconti poetici hanno la voce di una bambina prima e di una donna poi, e fluttuano sospesi e commuovono per il loro sorriso di innocenza.
Ma raggiungono le vere profondità dell’animo umano. Perché sono “penzierini” che raschiano l’anima.
Stefania Gianfrancesco
POSTFAZIONE
L’autrice decide di non crescere e, una volta diventata grande, si commuove per le piccole cose: un raggio di sole, una nuvola, un fiocco di neve.
Penzierini è una raccolta di pensieri provenienti da un “diario dei segreti” e da quaderni di scuola delle elementari che l’autrice riscopre nel 2016 e nei quali annotava la sua esistenza.
Leggere la raccolta significa leggerci dentro, con le nostre ferite e le nostre gioie.
Il libro diventa così un meraviglioso strumento di riflessione e ricordo, per noi adulti che tendiamo a dimenticare o a sottovalutare le emozioni dei bambini, eppure, sappiamo bene di averle vissute, ed è così che ci troviamo ad aver bisogno di leggere senza fiato queste pagine scorrevoli, piene di tatto, di immaginazione, delicatezza e stupore.
Tutti siamo stati bambini, anche se, a guardare e ad ascoltare certi adulti, non si direbbe.
È bello farsi rapire da una commovente tenerezza che permea i pensierini e che ci mette di fronte al mistero della crescita e alla fatica di diventare grandi.
“Certe cose si capiscono senza dirle con la voce”, “…mi viene da piangere, ma resisto, perché penso che ogni volta che resisto, divento grande”.
Il testo, narrativo e poetico al tempo stesso, va diritto al cuore e ci fa sussultare con sensazioni di familiarità e dejà vu, oltre a proporci una galleria di ritratti umani che difficilmente dimenticheremo.
“La maestra che ci vuole veramente bene” “e che quando è a casa, pensa a noi” e che “a scuola ci offre una caramella perché lei dice che per ascoltare meglio, bisogna avere una caramella in bocca”.
E il segreto è svelato: la maestra Michelina voleva veramente bene a Elisa e ai suoi compagni perché a casa, con le sue bambine, parlava sempre di loro.
Paola Colnago
Penzierini
PRIMA PARTE
La neve gela, la pecorina bela.
ape banana casa dado elefante fucile gomitolo girasole isola luna mela nido oca pera quadro ramo sole tavolo vaso zebra
Caro papà e cara mamma io vi voglio bene.
La pioggia è acqua che cade dalle nuvole. Senza fare rumore. Muta scende e lava.
Avviso: domani pomeriggio non ci sarà vacanza.
14 dicembre 1971, penzierino
La mia maestra mi ha raccontato la storia di Mosè. È una storia molto bella. Successa veramente.
20 dicembre 1971, penzierino
Ieri la Brunella è venuta a casa mia a giocare.
Ci siamo divertite davvero molto e mia mamma poi di merenda ci ha preparato la neve con il caffè.
Ora vi do la ricetta: si prende un bicchiere di neve (bisogna soltanto stare attenti che sia pulita, se si vede qualcosa di giallo non bisogna prenderla perché quella è pipì di gatto o di cane) e si versa sopra un po’ di caffè.
Il trucco sta nel versare: a goccia a goccia.
Una delizia.
Ho ancora il gusto in bocca tanto era buona.
21 gennaio 1972, penzierino
Il mio papà si chiama Luciano.
È magro e alto.
Ogni volta che lo guardo, vedo vicino a lui due fiorellini.
Ci sono sempre.
Li vedo solo io però.
Veramente.
Non dico bugie, dove c’è lui ci sono sempre due fiorellini.
Uno a destra e uno a sinistra.
Non posso darvene la prova, ma entrambi profumano.
Hanno tanti piccoli petali, delicati come sospiri e profumano di felicità.
Sono colorati e allegri.
Non cadono mai a terra, come invece sanno fare le castagne e raccontano di erba tagliata, di cielo stellato e blu.
Mio papà là in mezzo si sente a casa, cammina e sorride.
Ha le dita sempre colorate di rosso come la punta di un fiammifero, le sue mani sono tagliate dal freddo e seccate dal cemento.
Non è un muratore però. Lui è un camionista.
Costruisce la nostra casa al sabato e alla domenica e certe volte anche alla sera addirittura col buio. Mio papà non ha paura del buio. Sono convinta che mio papà non ha paura di niente.
L’unica cosa che mi sento di dire però è che non è felice.
Io invece vorrei vederlo felice e contento, per questo motivo lo aiuto sempre a lavorare. Gli passo i mattoni, la cazzuola e il martello.
Qualche volta gli porto la birra da bere.
Vorrei che lui potesse dire che io sono la bambina più brava del mondo.
4 febbraio 1972, penzierino
Mamma io ti voglio tanto bene, anche a te papà perché mi avete appena detto che mi comprerete il vestito di carnevale.
Quello da contadinella.
Con la gonna lunga e ampia.
Proprio quello che ho sempre tanto desiderato.
Questa è la felicità e non vedo l’ora di indossarlo.
14 febbraio 1972, penzierino
È carnevale!
Un giorno la mia maestra mi ha fatto una maschera.
Lei l’ha ritagliata e io l’ho colorata, stando attenta a non uscire dai margini. Peccato che il giallo a un certo punto era finito. Ho dovuto aggiungere un po’ di alcool alla cannuccia e un po’ ha colorato ancora. Giallo sbiadito.
L’ho portata a casa e l’ho fatta vedere alla mia mamma.
Lei ha sorriso e ha detto che non aveva mai visto in tutta la sua vita una maschera più bella.
Mia mamma non ne ha molta di vita, di anni intendo, ma certo ne ha più di me.
Quindi se ha detto una frase del genere c’è da fidarsi: quella maschera era veramente bellissima.
Soprattutto perché ha sorriso, perché lei non sorride quasi mai.
Anche mia mamma spesso è triste, proprio come il mio papà.
15 febbraio 1972 penzierino
Oggi ho accompagnato la mia sorellina Stefania all’asilo.
Quando l’accompagno va tutto bene, tutto liscio diciamo.
Partiamo da casa mano nella mano, percorriamo tutta la strada e, arrivate in fondo, dobbiamo stare molto attente alla curva prima dello stop; lì devo proprio stringere forte la mano a mia sorella, camminare strisciando il muro altrimenti se una macchina arriva potrebbe schiacciarci, talmente è stretta la strada in quel punto.
Poi attraversiamo la strada di corsa e in fondo all’altra strada c’è l’asilo.
Veramente non è una vera strada, è un grande sentiero.
Mia mamma non vuole che noi passiamo di lì perché dice che c’è il Macaco.
Comunque l’andata è abbastanza tranquilla.
Cantiamo, lei si dondola perché vuole sempre far saltellare i suoi codini e se c’è del panevino lo raccogliamo e ce lo mangiamo.
Il problema vero però è quando andiamo a prenderla per riportarla a casa, allora sì che è un pasticcio.
Perché lei quando deve fare la pipì non riesce a tenerla fino a casa e se la fa tutta addosso, ma proprio tutta, non un goccino.
Poveretta la mia mamma oltre alla vergogna deve pulirla tutta e fa davvero tanta fatica.
Gliel’abbiamo spiegato tante volte a mia sorella, ma lei è una testona, questa faccenda della pipì non vuole proprio capirla.
La mia maestra del mattino dice che sbaglio: si scrive “pensierino” .
A me viene sempre da scrivere “penzierino”.
Sarà un vizio.
A me piace di più la “z” perché la “s” scivola, la “z” si fa fatica a dirla e a scriverla e rimane tra i denti.
La “z” resta.
Comunque faccio così: non lo scrivo più. Lo penso soltanto. Prima di ogni mio scritto nella testa ci sarà una parola “penzierino”.
28 febbraio 1972
Ieri ho bisticciato con la mia sorellina, però giuro che ha incominciato lei.
È proprio un’oca giuliva.
31 ottobre 1972
In un giorno di vacanza ho aiutato la mia mamma ad apparecchiare la tavola.
Non era il tavolo della mia cucina che è bello rotondo e liscio.
Era un tavolo lungo fatto con delle assi che mio papà usa per costruire la casa.
A pranzo eravamo in 30.
E quindi mio papà ha unito più assi insieme con i chiodi e il martello per invitare tutti e 30 i parenti a mangiare da noi.
Questo tavolo quindi non era liscio, era un po’ ruvido, faceva male.
Mentre aiutavo mia mamma ad apparecchiare, in un dito mi si è conficcato un pezzo di legno.
Ho sentito un dolore fortissimo, qualcosa che mi bruciava dentro.
Mi sono messa a strillare.
A quel punto mia mamma mi ha detto di portarle un ago.
Con quell’ago è riuscita a togliermi il pezzo di legno, ma dentro c’era anche la materia.
La materia è una cosa tipo una malattia.
È di colore giallastro, liquida ma anche un po’ densa e pulsa forte come un cuore.
Se ti viene la materia vuol dire che non stai bene.
Non muori, ma non stai bene.
Mia sorella Stefania ha passato la sera a scherzarmi e a farmi la lingua e a dirmi che sono una frigna.
L’ho ignorata perché mi sentivo stanca e sono andata a letto.
25 novembre 1972
La mia mamma mi ha detto che tra un mese è Natale.
Ha detto anche che stasera posso stare su a vedere Canzonissima perché domani è domenica e non si va a scuola.
Quando mia mamma dice tutte queste cose in una volta sola le voglio davvero tanto bene.
E non lo dico per fare la ruffiana (come dice mia nonna Domenica), lo dico perché è vero.
13 dicembre 1972, mercoledì
Il mio papà ha detto che è come se io il papà non l’avessi, perché nei miei penzierini (ma so che dovrei scrivere pensierini) non scrivo mai niente di lui sul mio quaderno a righe.
Invece non è vero, perché scrivo quasi sempre di lui.
Poi è ovvio che devo scrivere sul quaderno a righe, quello a quadretti lo uso per matematica.
15 dicembre 1972, venerdì
Oggi ho preso davvero un bello spavento.
Questa mattina sono andata al gabinetto e ho voluto fare la stupidina.
Mi sono chiusa dentro a chiave e poi non riuscivo più ad aprire la porta.
Che spavento.
Ho iniziato a gridare come una matta.
Mia mamma allora mi ha detto: “Tira fuori la chiave e lanciala fuori dalla finestra”.
Io ho ubbidito ma la chiave è rimasta sul davanzale, non è caduta di sotto.
Allora per fortuna ho avuto un’idea e con lo scopettino del water l’ho spinta giù.
Mia nonna Bettina l’ha presa, è venuta in casa e mi ha aperto la porta.
In quei momenti che aspettavo mia nonna avevo tantissima paura, così tanta che quasi non respiravo più.
Mi sentivo soffocare.
Non sapevo proprio più a cosa dovevo pensare.
Non sapevo come risolvere quel problema.
È davvero terribile rimanere chiusa dentro qualcosa e non poter uscire.
Che brutta esperienza.
18 dicembre 1972, lunedì
Sabato sera mio papà aveva un dito tutto nero.
Proprio di colore nero, non dipinto però.
Lui lavora in Svizzera, poi alla sera e nei giorni di vacanza costruisce la nostra casa e sabato sera infatti si è tirato il martello tutto d’un fiato sul dito.
Alla sera mi ha chiamata e mi ha detto: “Elisa vai a prendere un ago”.
Io gliel’ho portato l’ago e lui se l’è infilato nel dito, ma non ho visto bene perché mi faceva paura.
Lui e la mia mamma usano spesso gli aghi e risolvono così molti problemi.
5 gennaio 1973, mercoledì
C’era una volta nei tempi passati, trascorsi davvero da tantissimo tempo, una città particolarmente stramba.
Gli uomini erano tutti terribilmente imbecilli perché:
1. il Sole lo immaginavano una grossa palla da tennis che un mago dispettoso aveva lanciato molti anni prima nel cielo. Aveva rimbalzato parecchio da un cuore all’altro, confuso le idee e non aveva mai più voluto tornare sulla Terra, o quantomeno non conosceva ragioni valide per doverlo fare;
2. la Luna la credevano un’enorme culla, così immensa da poter ospitare il sonno di tutti i bambini e anche di qualche mamma inesperta;
3. il Vento lo credevano il respiro della gente cattiva che spesso si arrabbia davvero per nulla. Fa un gran rumore, un po’ di tempesta, ma poi passa, sempre o di solito almeno;
4. la Pioggia erano le lacrime degli angeli smarriti che scorrono così veloci e forti da arrivare fino alla Terra;
5. la Neve la immaginavano zucchero che cade dalla cucina di Dio e precisamente dalle tasche bucate dei grembiuli delle mamme. Solo di quelle che erano andate via troppo presto;
6. petalo era una parola bellissima da pronunciare;
7. indietreggiare voleva dire incontrare spesso bei ricordi;
8. l’ombra della farfalla traballava sempre;
9. l’ostacolo scodinzolava talvolta anche davanti a un muro;
10. la scuola quella vera era sempre fuori (dal cancello intendo);
11. bisognava camminare a passo svelto e ritti bene in equilibrio verso l’orizzonte;
12. eccetera.
Una mattina, all’alba, in questa città stramba una pianta di pero era tutta ricoperta di neve.
Il pero disse alla neve: “Ehi ciccina! Io non sono la tua serva! Sei davvero pesantissima! Ti tengo su mesi e giorni interi e adesso basta! Sono stanca!”
E la neve: “Ma scusa, non è mica colpa mia!”
E si misero a discutere e a ragionare su questo bel problema del peso.
Non si trovava in tutto il paese una sola bilancia.
Né nessuna soluzione al problema.
La neve non poteva di certo mettersi a dieta.
Siccome non riuscivano a trovare un accordo, né un compromesso, decisero di confrontarsi parlando in tutte le lingue del mondo.
Non si capivano lo stesso.
Il problema restava.
Passavano le giornate a blaterare “cicì e cicià” e non arrivavano mai a una soluzione.
Ad un tratto la Natura si stancò di quel gran vociare che disturbava il letargo degli animaletti e dei fiori e, per fortuna, un bel giorno, intervenne: mise fine a quella situazione diventata ormai impossibile.
Lanciò il Sole rovente il più vicino possibile alla Terra e in poche ore fece sciogliere la neve.
In quel momento la pianta di pero stava di nuovo lamentandosi: “Ancora qua sei, ma scusa non è possibile.”
E la neve cominciò a rispondergli: “Ancora qua… ohm cosa mi sta succeden…” e non riuscì a finire la frase che già si era trasformata in milioni di gocce d’acqua e stava cadendo al suolo.
Il pero allora si sentì davvero meschino e fin troppo leggero: era una leggerezza davvero pesante.
Pesava sul cuore e un po’ più giù, là dove si nasconde la coscienza.
Pesava molto di più di tutta la neve del mondo.
Un peso opaco.
La neve gli mancava moltissimo.
Come avrebbe fatto ad aspettare un altro anno? Un nuovo inverno?
Questo episodio però gli servì da lezione e promise a se stesso che avrebbe fatto di tutto per diventare un po’ più socievole e gentile.
Perché la cattiveria alla fine rende soli.
(Questo episodio l’ho inventato io perché alla televisione vedo sempre le guerre… ce n’è una di guerre che non capisco. Si svolge in Palestina. Un giorno la natura si stancherà e chissà che fine ci farà fare!)
In quella stessa città, ma un po’ più lontano, credo verso nord, o giù di lì, abitava una giovane mamma inesperta.
Totalmente inesperta.
Il suo bambino piangeva tutte le notti e strillava così forte che tutti i vicini si erano lamentati col Sindaco e con l’Assessore alla Cultura.
Il vigile urbano del quartiere stava quasi impazzendo.
Abitava proprio di fianco alla mamma inesperta.
Non riusciva a dormire la notte.
Di giorno poi scriveva le multe col fischietto e fischiava con la biro.
Raccontava in giro di saper nascondere l’ironia dentro il palmo della mano.
Roba da non crederci.
(È anche vero che, come ripeteva spesso il salumiere Gino “che vita noiosa senza pazzia”).
Tutti si lamentavano in continuazione e la situazione stava diventando assurda.
Allora la mamma inesperta decise che era arrivato il momento di portare il suo bambino nella gran culla del mondo: la luna.
Per arrivare fino in cima alla luna dovette attraversare una pianura squamosa come la pelle di un pesce, risalire una collina soffice come una nuvola e alla fine raggiungere la cima di una montagna pungente e spietata come solo può esserlo un fico d’India.
Camminò per tanti anni e, quando fu in cima al cucuzzolo della montagna, si accorse che era comunque ancora molto lontana.
E che forse era sempre stata lontana.
Perché è proprio dalla cima della montagna che si comprende di essere lontani.
Da tutto.
Fu soffocata dall’atroce pensiero di aver sbagliato strada.
Che forse aveva confuso i percorsi: le squame pungevano su soffici nuvole?
O forse le soffici squame nuotavano allegre sul cucuzzolo d’India?
Allora pianse, ma molto più forte di quanto non facesse il suo bambino.
A tratti le sue lacrime parevano gocce di rugiada.
E a volte brillavano.
A volte gelavano e rimanevano sul viso.
E mentre piangeva così a squarciagola, senza trattenersi in alcun modo, sentì che qualcuno le stava accarezzando la testa.
Era il suo bambino che ormai era diventato grande e non frignava più.
“Non piangere, mamma. Adesso sono grande e penserò io a te. Torniamo a casa, per favore.”
E fu proprio in quell’istante che la mamma inesperta diventò un po’ più esperta di bambini.
Ma ormai era tardi perché di bambini non ne aveva più.
Tornò nella sua casa e visse sempre felice e contenta, anche se, però, per la paura di rifare di nuovo tutto quel viaggio, non comprò mai un fratellino al suo bambino.
Rimasero loro due (anche con il papà, vale a dire il marito della mamma inesperta che in tutti quegli anni era rimasto a casa ad aspettare).
Il nome di quella strana città fu sempre “Il paese degli imbecilli”, ma solo io e pochi altri sappiamo che gli abitanti, con il tempo, diventarono un pochino più saggi. Perché gli sbagli insegnano.
Spesso.
(Anche questa storia l’ho inventata io perché quando guardo come si comporta mia sorella mi rendo conto che anch’io sarei proprio una mamma inesperta. Non saprei proprio come fare. Quando fa la sciocca, quando parla da sola, quando mastica con la bocca aperta, quando non la troviamo più e poi scopriamo che si è addormentata da qualche parte. Una volta si è perfino addormentata sul tappeto del bagno).
FINE
6 gennaio 1973, giovedì
Tema: cosa farò da grande?
Io da grande sono indecisa se fare due lavori: o la maestra o la commessa dell’Upim.
La maestra mi piacerebbe farla, ma farla bene come fa la mia maestra del mattino, la maestra Michelina.
Lei fa questo mestiere perché ci vuole veramente bene.
Sono sicura che anche quando è a casa pensa a noi, perché quando arriva alla mattina ha sempre tante belle idee da proporci.
Una più bella dell’altra.
La commessa dell’Upim mi piacerebbe perché potrei stare tutto il giorno in mezzo a tante cose belle: giocattoli, quaderni, matite, gomme eccetera.
Ma se per lavorare devo diventare un po’ nervosa come una mamma che conosco della quale è meglio se non faccio il nome, allora sarà meglio restare a casa a curare i miei figli, come una qualsiasi banale mamma inesperta.
28 marzo 1973, mercoledì
I miei alberi hanno messo un po’ di fiori.
Forse non sono neppure fiori, sono piccole gemme, solo in basso perché, guardando verso l’alto, non ne vedo molte di gemme.
Questi fiori sono bianchi, questa pianta è un melo.
I suoi rami sono sottili e corti.
Oggi stavo pensando che forse questa pianta non avrà la forza necessaria per costruire dei frutti.
O forse sono proprio dei rami così gracili che daranno vita a frutti giganteschi.
Certo che se li farà, sarà un giorno speciale, quasi come se nevicasse in estate su una spiaggia in riva al mare.
O come se mia mamma oggi non venisse a prendermi a scuola.
Anch’io sono tanto magra che mia nonna mi dice sempre: “Magna e tas” (che tradotto in italiano vuol dire “mangia e taci”) e il mio dottore mi dà sempre cure ricostituenti schifosissime.
Però un giorno costruirò qualcosa di grande… non una mela però… quella è davvero difficile farla. Quella non saprei proprio da che parte iniziare.
È davvero uno spettacolo stare dietro la finestra a guardare questo miracolo di Dio… e pensare a come si potrebbe fare per costruire una mela, se partire dai semi o dalla buccia. Chissà se per farla rotonda serve il compasso.
[continua]
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