Acquedolci

di

Salvatore A. Emanuele


Salvatore A. Emanuele - Acquedolci
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura
14x20,5 - pp. 94 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-8286

Libro esaurito

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In copertina: «Palazzo Municipale» fotografia di Innocenzo Gerbino


Non potremo conoscere noi stessi
se non conosciamo la storia
dei nostri avi.


Nota del curatore della Collana “Apollonia”

Un giorno, l’amico Carmelo Faranda m’inviò un libro col titolo “Acquedolci” e mi anticipò che l’autore, Salvatore A. Emanuele, viveva a Firenze ma aveva trascorso l’infanzia ad Acquedolci, dove la famiglia si era trasferita da San Fratello, in seguito alla frana del 1922. Il libro risultava “finito di stampare in proprio, con parsimoniosa economia, il 23 agosto 2015”.
Scorrendo le pagine notavo che si trattava di una sorta di diario autobiografico, scritto con stile aulico e con ridondanza di barocchismi. C’erano ricordi d’infanzia, opinioni personali su personaggi ritenuti non degni di merito ed altre sue divagazioni; ma lasciava emergere elementi che, opportunamente organizzati, sarebbero sicuramente serviti ad ampliare la conoscenza sulla nascita della cittadina tirrenica, costola di San Fratello.
Salvatore A. Emanuele è stato un deciso sostenitore dell’autonomia di Acquedolci e nonostante in questo libro egli ostenti la convinzione che i sanfratellani si opponessero alla sua separazione, va detto che la questione interessava molto ai politici e poco al popolo sanfratellano, prova ne sia che buona parte degli abitanti di San Fratello, nel tempo si sono trasferiti nel nuovo comune marittimo, considerato da sempre con senso di appartenenza.
Mi sono assunto il compito di rivedere il testo originario e alla fine ho ottenuto questo libro. Ho cercato di mantenere lo stile dell’autore, adombrato di sana ironia, rendendolo più immediato e agevole nella lettura. Ho inserito qualche nota esplicativa. Ho riorganizzato alcuni brani e ho eliminato qualche passo che ho ritenuto non importante ai fini della narrazione e a salvaguardia di possibili malintesi o risentimenti. Ho mantenuto tutto il resto in quanto testimonianza di storia della piccola patria, e contenitore di note di colore e del folclore locale.
Va rimarcato che l’Autore riporta episodi del proprio vissuto, ma anche fatti di cui è venuto a conoscenza, senza averne verificata la veridicità che potrebbe portare a conclusioni diverse.
A conti fatti qui viene presentato, sul filo dei ricordi, uno spaccato di vita vissuta – comprese le difficoltà di tutti i giorni – del popolo di San Fratello a partire dalla grande frana del 1922 e di Acquedolci a partire dalla sua nascita fino al raggiungimento della sua autonomia nel 1969.

A Salvatore A. Emanuele, che si era dichiarato felice che questo suo libro confluisse nella Collana “Apollonia”, che mi onoro di curare, non è stato riservato il piacere di vederlo pubblicato avendo egli concluso la sua avventura terrena il 5 novembre 2015
Un particolare ringraziamento va alle figlie dell’Autore, Edi ed Emanuela, che hanno permesso che questo libro venga pubblicato rinunciando ad ogni beneficio derivante dalla sua vendita e i cui proventi, nel rispetto della volontà dell’Autore, saranno devoluti in beneficienza.
Un grazie va pure a Ciro Artale, studioso di Acquedolci, per le sue preziose informazioni.

Benedetto Di Pietro


Acquedolci


Nostalgia
(Parafrasando Ciro Plantemoli)

Nella dolce plaga che Acquedolci alberga
v’è tutto il sol che col suo fulgor l’asperge:
di gentil grazia e tutta la soffonde.

Eolo alitante del parco fa agitar le fronde,
incanta le anime e le verga a far sì
che in essa si temperi ogni affanno.

Ben convien cogliere il riposto senso
di vita che i patri Numi a chiunque danno.
L’amore alla propria veneranda terra.

A chi lontano nostalgia alberga… soffre.
Folle, è… chi a tanto dono offre le terga!
Ancor più tristo, chi mira straniere sponde!


Preambolo

Io son cresciuto in contemporanea con la nuova Acquedolci, con essa ho condiviso sapori, amori, difficoltà e atavici sentimenti di grandi ostilità, a partire da poco dopo la mia nascita e fino alla primavera del 1943.

Acquedolci non nacque nel 1922; già esisteva come piccola frazione destinata a scalo ferroviario del comune di San Fratello e comunemente chiamata dai sanfratellani, nel modo che direi familiare, “la Marina”.
Questa piccola borgata contava una manciata di piccole e vetuste abitazioni che si allineavano lungo la strada nazionale tra agrumeti e uliveti, fino alla chiesetta di San Giacomo. Una sola strada a crocevia si diramava in salita per andare alle contrade Tudisca e Oliveto, mentre l’altra parte discendeva verso il mare e passando sotto il ponte della ferrovia portava alla contrada Buffone. Lì, a mezza costa, v’era una costruzione denominata ‘Fondaco’ fatta all’epoca per ospitare i viandanti durante la notte.
Scendendo ancora verso il mare, a metà via, una piccola diramazione portava all’antico castello Cupane dov’era – oggi esiste solo un cumulo di macerie – una torre quadrata d’avvistamento anti-filibusteria marittima e alla quale, anticamente, si poteva accedere superando il fossato che la cingeva per mezzo di un ponte levatoio. Nella parte in basso del castello un mulino ad acqua macinava il grano rendendo farina per gli abitanti i quali facevano il pane in casa.


La chiesetta di San Giacomo

Sorge sulla via Nazionale che porta a Sant’Agata; è una chiesetta che tutti i pellegrini raggiungevano per devozione al santo. Si trattava di pellegrinaggi penitenziali per grazia ricevuta o per implorarla. In questa lunga fila di penitenti, una volta ne vidi uno che deambulava con le ginocchia piegate a terra in atto di penitenza, mentre il lungo corteo si snodava salmodiando.


L’antico trappeto

Sulla sinistra della via Nazionale verso Sant’Agata, partivano due vie private delimitate da muri di cinta delle quali una portava ad un antico trappeto situato accanto alla villa del notabile sanfratellano conosciuto in paese col soprannome “U Druèri”, un arpagone al pari di quello descritto da Molière. Le donne dedite alla raccolta delle olive raccontavano che se lasciavano per terra un’oliva, l’uomo le ammoniva dicendo loro che andavano raccolte “tutte-tutte” poiché un’oliva più un’altra producevano un grano d’olio.
Non vidi mai l’arpagone farsi pagare con le lire, lui voleva essere pagato natura-natura e così ci guadagnava il surplus poiché comprava l’olio nuovo prodotto nel trappeto ad un prezzo più basso e lo rivendeva al prezzo di mercato corrente. L’uliveto era molto grande e molte erano le donne raccoglitrici di olive, tutte sanfratellane. Un giorno il Drueri esordì con questa facezia1: «Stassara macarruoi pi tucc!» e una delle donne che era indaffarata a cucinare rispose preoccupata: «Signarmiea!... e la farina?» «Quodda chi fai u pean!», rispose l’uomo.
Nel trappeto la frangitura delle olive avveniva per mezzo di un mulo, acconciato con paraocchi, che tirava una barra e faceva girare le mole. La pasta delle olive, dopo l’insaccamento dentro i fiscoli, veniva pressata a mezzo di quattro uomini che spingevano con le spalle una colonna avvitante di legno. L’olio frammisto all’acqua scorreva per una canaletta depositandosi in un fusto di latta interrato e dal quale un esperto traeva l’olio che galleggiava mettendolo dentro un otre per il trasporto a domicilio.
Ah, come son cambiati i tempi! Prima nel trappeto tutto era manuale, ora con le nuove tecnologie diventa tutto automatico. Il motore muove tutto quanto: le presse sono idrauliche e a dividere l’olio dall’acqua di vegetazione ci pensa il separatore.


Il ‘castello’ di Di Giorgio

La strada attigua a quella che va al trappeto divaricava quel tanto per poter giungere al ‘castello’ del Generale Antonino Di Giorgio, la villa signorile nascosta fra uliveti e agrumeti. Era il torrione merlato che sormontava lo stile neoclassico della costruzione il motivo per il quale questa fosse chiamata “Il castello del Generale”. Occupava un grande spiazzo e vi si giungeva da quella stradina polverosa ornata tutt’intorno da fiori di sambuco e da una graziosa buganvillea che s’arrampicava sui muri della costruzione e della strada che portava lì.
Poco distante dalla tozza torre, c’era una grande palma da datteri che il Di Giorgio, ancora tenente, aveva portato dalla guerra di occupazione della Libia e che la rendeva più gradevole alla vista dell’occasionale visitatore.


Benito Mussolini visita San Fratello ed Acquedolci

Dopo aver visitato le rovine della frana di San Fratello, Mussolini si portò col seguito ad Acquedolci dove venne allestito a bella posta un palco in legno nei pressi della stazione ferroviaria, esattamente dove ora la via Dante si interseca con via Barone Cupane e prima chiamata via delle Rimembranze e dedicata ai paesani caduti nella guerra mondiale del 1915-18. Ad ognuno dei caduti era dedicato un apposito cippo con targhetta recante il nominativo ed affiancato da un cipresso mediterraneo (Cupressus sempervirens). I cippi erano allineati lungo il percorso stradale fino alla via Nazionale, ora via Ricca Salerno.
In presenza dei pochi, molti per allora, astanti ed ossequianti il Primo Ministro B. Mussolini si rivolse al Ministro dei lavori pubblici, presente alla cerimonia, e fece udire la seguente roboante apostrofe: «Onorevole Ministro dei lavori pubblici! Per quanto riguarda la ricostruzione di questo luogo, dedicato ad accogliere i disastrati profughi della frana di questo comune, si metta a disposizione del qui presente Generale Antonino Di Giorgio.»
Il grande (seppur normale di statura) Generale Antonino Di Giorgio poco fece, o volle fare, per la crescita di questa comunità da ampliare, forse per apatia, forse per abulia o forse anche per l’astio che egli provava nei riguardi di Mussolini a causa dell’aspra durezza che il Prefetto Mori condusse nella lotta contro i mafiosi della disonorevole “onorata società”, entro la quale venivano identificate benevole amicizie del valoroso Generale, tant’è che il Di Giorgio, nominato Ministro della Guerra in seguito alla messa a riposo del Maresciallo d’Italia Armando Diaz, su quel seggio sedé per brevissimo tempo, poco più di undici mesi.


Acquedolci – prime strutture

Le prime case ad essere costruite ad Acquedolci negli anni che vanno da 1924 al 1926 furono le ‘popolari’ tra le vie Trento, Gorizia, Trieste e Fiume; tutte dotate di bagghju (cortile interno alle abitazioni, poste scalarmente tra loro per ovviare alla posizione digradante del terreno, dal monte verso il mare). Questi bagghju servivano per i vari servizi di casa: stendere la biancheria al sole, ecc. ed in molti casi per ospitare, la notte, gli animali da cortile.
Acquedolci, crebbe a poco a poco. Nessuno dei notabili che potevano ebbe a muovere un dito di interessamento a che la città sorgesse con rapidità ed offrirsi ai nuovi cittadini, sia che provenissero dalla disastrata e longeva figlia della progenitrice Apollonia − San Frareu − sia che fossero immigrati dai viciniori borghi marini e montani. Questi avendo annusato lo sviluppo della nuova collettività vi si erano proiettati col desiderio di migliorare la propria esistenza, cogliendo tutte le opportunità che intuivano prosperose per le loro famiglie. Ben presto però si dovettero accorgere che i bastian contrari che remavano contro erano spesso avversari più forti e vincenti.
Troppo lunga sarebbe un’analisi approfondita degli interessi, più personali che di politica, che li inducevano a protrarre la crescita della nuova cittadina e dei servizi.
Il piccolo borgo crebbe per una forza maggiore del destino che tale lo volle a dispetto di tutti, si potrebbe dire personificandolo, e che si è avvalso della legge di natura che recita: “Faber est suae quisque fortunae2.


1 Il dialogo è nel dialetto galloitalico sanfratellano; questa è la traduzione «Stasera maccheroni per tutti!» «Dio mio!... e la farina?» «Quella che usate per fare il pane!»

2 “Ognuno è artefice della propria sorte”.


[continua]


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