Sara Bellingeri
Con questo racconto ha vinto il terzo premio all’edizione 2006 del Premio Marguerite Yourcenar.
“Un giorno qualsiasi”
15 Marzo 2005
Ormai il treno era fermo da circa venti minuti in quella misera stazioncina di paese dove la natura aveva vinto con pazienza sui grigi progetti dell’uomo.
Spuntavano, infatti, qua e là dal marciapiede del binario vivaci ciuffetti d’erba di un tenero verde chiaro, quello timido e acerbo di inizio primavera. Una donna dall’aria imbronciata fumava nervosamente mentre scrutava la lunga distesa delle rotaie che si perdevano nell’orizzonte campestre. Si stringeva nell’impermeabile per proteggersi dal freddo pungente del mattino e intanto guardava lontano, nella direzione da cui il suo treno non sarebbe mai arrivato. All’annuncio che il mezzo tanto atteso era stato soppresso gettò con disprezzo la sigaretta a terra, la schiacciò con forza e poi se ne andò dondolando sulle sue strane scarpe viola. Lui rimase lì affacciato al finestrino del convoglio a fissare i romantici bouquet d’erba che, simili a magiche creature provenienti dal regno sottoterreno, erano riusciti ad avere la meglio su quel soffocante sarcofago di cemento che li teneva imprigionati.
Rise della sua bizzarra fantasia e si risedette immergendosi nello stagno di voci del vagone in cui casualmente aveva scelto di stare. Anziché continuare a ripassare il programma del suo ultimo esame di sociologia decise di osservare ciò che gli capitava intorno.
Qualcuno sembrava non essersi ancora accorto di quella sosta prolungata e, noncurante di ciò che accadeva, dormiva appoggiato al sedile con le braccia conserte, immobile nella tipica posizione da pendolare dormiente. Qualcun’altro, invece, cominciava già a sbuffare e il decibel di voce iniziò inesorabilmente ad alzarsi, sciorinando frasi del tipo: “Ma non è possibile, perché non partiamo?... Sono già le nove passate!” o “Cosa succede insomma?”, decorate, a loro volta, da intervalli di sbadigli prolungati. Ma all’improvviso un signore dall’aria austera scrollò con impazienza il giornale che stava leggendo e si alzò dal suo posto per dirigersi, con passo deciso, verso la coda del treno, ritornando poi insieme al controllore che appariva molto agitato.
«Signori» disse, infatti, schiarendosi la voce «presto arriveranno a prendervi degli autobus sostitutivi, così potrete proseguire il viaggio: il treno non riparte più...». Un coro di voci lo assaltò all’unisono, sommergendolo di domande su orari, coincidenze, sul rimborso biglietti. «Io lo sapevo che questa vecchia carretta prima o poi si sarebbe fermata… una volta ogni due settimane c‘è un guasto!» esclamò un signore anziano che per tutto il viaggio non si era mai tolto il cappotto, quasi che sapesse di dover scendere di lì a un po’.
«Sì ma questa volta non è colpa nostra» ringhiò il controllore «c‘è stato un suicidio! Uno si è buttato sotto il treno che stava arrivando qua e per forza di cose le linee sono state bloccate» concluse la frase sfoderando un bieco sguardo di compatimento. Per un attimo calò il silenzio poi le voci tornarono all’attacco, più forti di prima. Anche i pendolari, ora, si erano svegliati e con la faccia stravolta dal sonno tentavano di capire cosa stava succedendo, se erano arrivati a destinazione o se nemmeno erano partiti e stavano sognando tutto quanto perché la sveglia non era suonata. Lui decise di chiudere definitivamente il libro che, per ironia della sorte, era aperto sul capitolo dedicato a Durkheim, si infilò la giacca senza chiuderla e scese dal treno portando con sé la borsa.
Nell’aria vibravano i primi graffiti di pioggia mentre il cielo era spolverato da veli grigi con drappi color ametista in alcuni punti lontani. Sembrava tutto immobile là fuori, in quel paesino sperduto di campagna che assomigliava alla pagina triste di un libro incastonata nell’aria. Tirò fuori dalla tasca una caramella e la scartò. Il rumore scrocchiante della carta gli diede la sensazione di esserci, di tangibilità, spezzando quell’atmosfera di sospensione che sembrava deglutire tutto nel vuoto. Era strano ma sentiva che quel suono così familiare gli aveva restituito qualcosa, come se avesse ancora un senso trovarsi su quel marciapiede incipriato da esili ciocche d’erba, davanti ad un treno che non sarebbe più partito. Ma perché era sceso così alla svelta? D’un tratto si era sentito invadere da una nausea insopportabile: l’aria sul vagone si era fatta improvvisamente ingarbugliata, spessa, troppo densa da respirare tanto che, appena saltato giù dal treno, gli era parso di esser sfuggito da una ragnatela di melassa. Appoggiò la borsa per terra e cominciò a vagabondare con lo sguardo.
La sua attenzione fu presto rapita da una coppia di uccelli dalle ali scure, entrambi appollaiati sulla panchina accanto alla stazione deserta. Li osservò meglio: il loro sguardo sembrava sperduto, inabissato in quelle perfette gocce di pece che erano i loro occhi. Avevano scordato il cielo, le loro ali e le guglie degli alberi per quella sosta tra le cianfrusaglie umane abbandonate al loro destino. E c’era qualcuno che, invece, non avrebbe più scorto i muri scrostati delle stazioni, le grondaie assetate di pioggia, l’erba pettinata dal vento né le nuvole spumose frantumate dalla luce di inizio primavera. Su tutto questo era calato il buio, come una serranda abbassata all’improvviso innanzi ad una bottega. Una bottega gremita di segreti e scale infinite che conducono a distese di ricordi ormai irrecuperabili. E pensava, non con la mente ma con quella parte indecifrabile e senza nome dove la carne sfuma in cuore, che qualcuno, a lui sconosciuto, quel giorno non avrebbe più udito la voce letargica della campagna né il vociare sconnesso proveniente dal treno. O forse, dopo aver ascoltato tutto questo, aveva voluto cancellarlo definitivamente. Qualcuno, non molto distante da lui e dalla gente che litigava tra discariche di frasi fatte, aveva spento per sempre la luce tra le fauci ferrose di qualcosa che serviva per viaggiare, correre più veloci, raggiungere. Non per morire. Qualcuno aveva deciso di fermarsi costringendo, suo malgrado, altri a farlo. Pensò che forse, dove muore una persona, il vento stesso si placa, anche se per pochi istanti, per guardare meglio le foglie che sfiora, il bucato che accarezza, i capelli che scompiglia. E pur fermandosi, il vento a suo modo scorreva, inabissandosi meglio nella propria anima, dimenticando i litigi tra le onde che solcava, ascoltando in modo nuovo. Sì, ascoltando.
La caramella si spezzò con un suono secco sotto i suoi denti, rimase solo della poltiglia dolciastra a strisciare verso la gola. Dal treno cominciò a scendere sempre più in fretta la gente. Un gruppo di ragazzine corse verso l’entrata della stazione e dietro di loro c’erano tante altre persone dall’aria trafelata. Gli uccelli dalle ali scure si ricordarono del cielo e volarono via, fuggendo dal cicaleccio animato delle voci.
«Che schifo di giornata!» una nuova voce scoppiettò dietro di lui. Era di una ragazza che, con le braccia allargate in posa di rassegnazione, teneva in mano un sacchetto di carta rotto da cui erano caduti libri e plichi di pagine. La raggiunse chiedendole se aveva bisogno di aiuto.
«Ah sì, grazie» rispose lei laconicamente. Era così impegnata a rimediare al suo piccolo sfacelo che nemmeno alzò lo sguardo per guardarlo. La mano del vento fu lesta e gettò alcuni fogli sulle rotaie. La ragazza corse dietro alle sue pagine. Lui la guardò meglio e sorrise: gli sembrò buffa e tenera con quella sua aria da folletto smilzo intento a rincorrere pezzi di carta.
«Ti aiuto ancora se vuoi» disse.
«Sei troppo gentile ma mi dispiace perché rischi di perdere l’autobus che sta arrivando… Anzi, guarda è già là!».
Si girò e in lontananza vide una nuvola brulicante di giacche scure accalcarsi davanti alle entrate dell’autobus. Sembravano tante formiche le une addossate alle altre mentre tendevano le zampe fameliche per conquistare la preda desiderata: un posto su cui sedersi. Il vento trasportava già i primi grovigli di insulti. Raccolsero in fretta i fogli e corsero verso la strada accanto alla stazione dove era parcheggiato l’agognato autobus. Il capotreno e il controllore erano entrambi paonazzi e sulla tempia del secondo una piccola vena pulsava di esasperazione. Ancora una volta la natura stava emergendo con forza e saltava fuori impudica, selvaggia, libera.
Senza mezze misure.
«Ma non vede che non possono starci tutti?» urlava forsennato mentre gli esemplari più svelti si gustavano la scena seduti sulla loro conquista.
«E io allora?» gli gridava di rimando una donna dalle labbra truccatissime. «Anch’io ho pagato il biglietto per quel fottutissimo treno, quindi pretendo di salire!».
«Ma signora abbia pazienza, gli altri hanno la coincidenza mentre lei si deve fermare nella prossima stazione. Questione di venti minuti massimo e arriverà anche l’altro autobus…».
«Vada al diavolo lei e quell’idiota che ha deciso di farsi fuori proprio oggi!» e la donna andò a sedersi da sola sulla panchina.
Per tutta la durata del litigio lui era rimasto immobile ad osservare la bocca dipinta della donna che urlava e, nel fissarla, gli era venuto in mente un pesce che aveva visto in un documentario: un grande pesce rosso che, mentre nuotava, ingoiava, quasi senza accorgersene, altri pesci più piccoli e indifesi. Ricordò che il branco di pesciolini deragliava di paura e sgomento di fronte a quell’esemplare color mattone che non sembrava scomporsi più di tanto, anzi procedeva imperterrito nel suo cammino, fagocitandoli tutti. Ma per fortuna la donna-pesce si era arresa in tempo. Alla fine l’autobus partì e lui rimase insieme alla ragazza e ad una cinquantina di persone ad attendere la prossima corsa. Iniziò a piovere, prima lentamente, poi sempre più forte, tanto da costringerli a dover ripararsi sotto la tettoia della stazione. Sulla panchina, accanto alla donna truccata, si sedette un’anziana signora che stava tutta accovacciata su se stessa. Era talmente minuta che forse prima non si era accorto di lei per quel motivo. Tra le mani stringeva un pacchetto regalo avvolto in una carta azzurra decorata da disegni di aquiloni blu. Guardò i suoi occhi scuri e malinconici e subito gli affiorò nella mente un’immagine, quella di una rondine, piccola e dolce, che da bimbo aveva cullato nel palmo perché ferita. Ricordò la tenerezza che lo aveva invaso nel venire a contatto con la fragilità di quella creaturina e nel sentire il battito fortissimo provenire dal suo petto: era come se, quel lontano pomeriggio d’estate, avesse tenuto in mano un immenso cuore pulsante di vita, di paura, di voglia di volare. Riguardò la signora, sembrava che stesse piangendo in silenzio: forse quel ritardo per lei rappresentava qualcosa di molto importante.
Eppure era l’unica che non aveva pronunciato alcuna parola.
Dopo circa tre quarti d’ora arrivò anche l’altro formicaio a quattro ruote e il viaggio riprese sotto la pioggia di marzo e le litigate per i posti a sedere. Lui si sedette accanto alla ragazza e così iniziarono a parlare.
«Sai »disse lui, dopo un po’ che era iniziata la conversazione «quello che è successo stamattina in treno mi ha ricordato una scena che è accaduta anni fa».
«Quale scena?» chiese lei incuriosita «Ricordo che stavo passeggiando da solo tra le bancarelle della fiera che si tiene ogni anno a febbraio, il buio era già calato perché era ormai tardo pomeriggio eppure alcune giostre erano ancora accese. Ad un certo punto però il mio sguardo è stato catturato da un fascio di luce blu che proveniva da un’ambulanza che stava ferma accanto alla piccola giostra dell’autoscontro.
C’era un uomo disteso, non so cosa avesse ma si vedeva che stava male: intorno a lui il medico e soccorritori si muovevano svelti, come se combattessero contro il tempo. Non dimenticherò mai il viso di quell’uomo, il suo pallore sconvolgente e l’espressione pietrificata come se fosse al di là di ciò che stava accadendo. E intanto ad un passo da lui le piccole macchine dell’autoscontro continuavano a girare, cozzando l’una contro l’altra mentre nell’aria turbinavano parolacce e schiamazzi. Sembrava di essere in un sogno senza senso nel vedere quella giostra gremita di suoni e rumori accanto all’ambulanza ferma e bianca» la voce cominciò a tremargli, poi proseguì. «Mi chiesi se l’uomo agonizzante si rendesse conto delle luci gialle e dei litigi provenienti dalla giostra…» divenne livido in viso «quella giostra che continuava ad andare avanti imperterrita come se niente fosse… c’erano le risate sguaiate, i fischi, persino gli insulti di due ragazzi che poi sono venuti alle mani per chissà quale motivo… e c’era anche quella musica assordante che sembrava volesse assorbire tutto: il bianco dell’ambulanza, i fasci blu della sirena, il rantolo dell’uomo… E stamattina è successo di nuovo così... le persone parlavano dei loro contrattempi come se ciò che era accaduto a poca distanza dal treno non fosse successo… ci mettevano così tanta energia per ottenere il loro traguardo che non consideravano più le parole o i silenzi altrui… come una corsa in cui tutto ciò che non serve viene lasciato indietro…».
«Allora cosa avremmo dovuto fare, secondo te, fermarci tutti per caso?» la voce di lei suonò all’improvviso tagliente.
La pioggia intanto cadeva sempre più forte. Lui guardò le gocce mentre scivolavano sul vetro: quelle più grandi si spezzavano in altre più piccole, trasformandosi in stormi di perle d’acqua che cadevano veloci verso l’insenatura del finestrino. Si rincorrevano tra loro, una dietro l’altra, e in quella fuga, in quell’inseguimento, perdevano forma, diventavano frastagliate, confondendosi con l’immenso arazzo di pioggia che sfumava il paesaggio. Ormai non si vedeva più niente.
«Fermarsi non sempre vuol dire bloccarsi…» il cuore ora gli tuonava nel petto. «Io mi sento più imbavagliato in questa quotidiana corsa frenetica anziché nelle mie paure… Ci si sente soli in mezzo a tutto questo. Ci si sente davvero soli, perché non sai se avrai una risposta al tuo richiamo. Anche l’angoscia che si prova è considerata un ostacolo e chi presta attenzione a questo lo fa per logica statistica, per analisi scientifica…
Dimmi, c‘è qualcuno che per un attimo si ferma e si avvicina a te con il cuore? A volte sembra di stare in un magazzino pieno zeppo di manichini dove ci si tocca solo per scansarsi… I maglioni sono lisi per attrito e non per contatto… ci sono le mani ma non la pressione delle dita… ci sono gli occhi ma non lo sguardo… c‘è il suono ma non la voce…».
Gli occhi di lei erano come disarmati, smarriti. Quel dialogo le era sembrato un gioco iniziato per far conoscenza e invece qualcuno le parlava per dirle ciò che sentiva, senza fini, senza previsioni. «Perché dici così?» gli chiese in un sussurro. «Non lo so, non lo so… forse perché sono pazzo e me ne rendo conto solo oggi… forse perché si passa la vita a rincorrere le cose, i treni, le scansioni cronologiche che abbiamo deciso mentre la vita è ferma a guardarci, incredula, triste… quasi riesco a figurarmela, come in un quadro… Ci tarpiamo ogni giorno le ali per dimenticare che possiamo volare… Dobbiamo essere così pronti, ancorati alle richieste, ai traguardi prefissati e poi? A volte credo che se si pensasse ogni volta agli estremi, alla vita e alla morte, tutto sarebbe più intenso, più sconvolgente ma anche più autentico… Saremmo nel tempo, nelle cose, nell’anima, saremmo insieme…».
«Quasi mi spaventi per come parli!» disse lei con dolcezza, come se volesse sdrammatizzare tutto quello che era stato detto.
« Ma tu mi ascolti veramente?» lui abbandonò il diadema di lacrime che imperlava il finestrino e si girò per guardarla negli occhi. «Sì, ti ascolto ma non ti capisco» pronunciò le parole con tristezza.
Stettero in silenzio per tutto il resto del viaggio. Le guance di lui pulsavano come se avessero ricevuto degli schiaffi violenti. Tutto il calore era dovuto a quelle parole sgorgate dalla gola come un fiotto infuocato e solo ora si rendeva conto di quanto tempo fossero rimaste seppellite sotto discariche di insidiose paure. Tutto era stato sempre prudentemente tenuto a bada, imploso tra i sipari della quotidianità e lui ora, in quel giorno qualsiasi dove l’estremo aveva fatto irruzione, quel tutto lo vomitava, lo urlava, lo lanciava in volo fino a che la voce stessa non aveva iniziato a volare da sola. C’era stato sì il timore che le parole stramazzassero al suolo, ma non era successo. Sentiva addosso così tanta vita e così tanta morte insieme che credette di non riuscire a reggere l’onda di emozione. Rimase semplicemente fermo a viverla.
Il cielo nel frattempo si era schiarito e sul ventre bruno dei campi brillavano stralci di pozzanghere accarezzate dai timidi raggi del sole. Nessuno all’interno dell’autobus sembrava essersi accorto di quel piccolo miracolo. Nessuno, tranne lui e la ragazza, intenti a scrutare, in silenzio, il paesaggio al di là del finestrino. La donna dalle labbra sommerse di rossetto si stava rifacendo il trucco e tutto il suo mondo era raccolto in quell’oblò, orlato di rosa, che era lo specchietto. Il signore con il cappotto perennemente incollato addosso, dopo aver borbottato tra sé letargiche lamentele, si era addormentato appoggiando la testa sulla spalla dell’anziana signora del pacchetto regalo. Anche lei guardava fuori dal finestrino e il paesaggio che fissava era ondulato, stranamente mosso, forse per colpa della cortina di lacrime che velava i suoi occhi. Altri passeggeri invece dormivano o si erano inabissati tra le scacchiere dei cruciverba. Si udivano solo i brandelli di parole di due ragazzi che, con volume basso ma tagliente, litigavano riguardo alla voce di un cantante che per uno risultava essere il massimo che si potesse trovare in terra mentre per l’altro, al contrario, era il peggio che esisteva. Dalla voce del cantante passarono presto, con gli stessi toni, alla politica, alla religione, alle gambe della ragazza che piaceva a tutti e due. Intanto gli sprazzi di turchese si allargavano sempre di più e le nuvole rimaste sembravano nastri d’alabastro sparpagliati all’orizzonte. C’era caldo nell’autobus ma quella luce azzurra, quasi ghiacciata nel suo bagliore evanescente e cristallino, sembrava rinfrescare tutto, detergendo l’aria e le cose.
Lui sentiva che le guance stavano riprendendo lentamente la loro temperatura naturale, rimaneva però, al contempo, l’impronta di qualcosa di forsennato, intenso e vibrante che aveva attraversato il suo corpo, facendogli dimenticare i confini che lo abitavano e le scorie ipocondriache che lo ammutolivano. Aveva volato sul dorso della sua paura, della rabbia implosa, della voglia di sentirsi per davvero tra le nicchie della quotidianità. E mentre fluttuava tra macerie di pensieri sconnessi, che si moltiplicavano a velocità incredibile, percepì tutta la stanchezza, piena di vita, di chi ha scrollato la propria voce segreta. E quasi si stupì di trovarsi dopo pochi minuti di fronte alla stazione, fermo in piedi, a guardare alcune persone correre verso le scale con il biglietto in bocca, altre invece allargare le braccia di fronte al cartellone delle partenze. La ragazza folletto era scivolata via silenziosamente, salutandolo con un lieve sorriso. Non si erano neppure chiesti il nome. Ripensò al suo piccolo viso, al collo lungo, al taglio corto dei capelli sottili ma l’immagine sbiadì presto, assorbita da altre: lo scorcio muto della campagna, le rotaie silenziose, un corpo immortalato nel suo ultimo gesto senza spiegazioni. Posò la borsa a terra perché aveva le vertigini. Chiuse gli occhi per un po’: il confine tra carne e cuore ora non pulsava più.
Da esso evaporava silenzio. Attesa. Il pensiero stesso era cambiato, ora gli appariva come un saltimbanco che lo scrutava a testa in giù deridendolo. Si era allontanato anch’esso, lasciandolo solo sotto una bufera di cenere senza risposte. Le domande si tramutarono in echi ovattati. Poteva una giornata qualsiasi ospitare qualcosa di così estremo senza fuggire via impaurita, rintanandosi in luoghi innocui? E il cuore delle altre persone era stato anestetizzato dalla quotidianità o semplicemente si era abituato? Sentì come un peso sul petto e presto lo riconobbe: era il solito peso che veniva a trovarlo ogni tanto insieme a fitte profonde di dolore che ormai non lo spaventavano più, le subiva e basta. Alcuni definivano tutto questo nevrosi cardiache, altri angoscia, altri ancora dolore fisico che recita l’infarto. “Tu somatizzi il tuo disagio nei confronti del mondo!” gli aveva detto il suo medico, appoggiandogli la mano sulla spalla con fare paterno.
Ma allora quel suo disagio, quel suo sgomento viscerale erano una nevrosi, un ostacolo, una ferita oppure il livido indolenzito di chi aveva reciso con violenza la corda che lo teneva unito a tutti gli altri, su quella scala mobile che erano i giorni, i mesi, gli anni trascorsi a non fermarsi? La vita doveva sì andare avanti ma in che modo: puntando il profilo verso il proprio traguardo o chiudendo gli occhi per vedere meglio?
Cosa rallentava i passi, i treni veloci, gli impegni, il mondo? Le domande come le sue, forse? Il famoso confine tornava a vibrare e non si sentì di chiamarlo nevrosi, difetto, debolezza. Semplicemente lo assaggiò nella sua presenza, intensa e indispensabile. E pensava intanto a quella persona senza volto né nome che in un mattino inciso da vento e pioggia si era slacciata da tutto, andandosene.
L’uomo che non c’era più era stato definito un inconveniente e, con il cuore gonfio di malinconia, si chiese se mai si fosse sentito tale quando ancora camminava nella vita, tra ragnatele di semafori, scale silenziose di palazzi e meandri di pensieri setacciati dall’indifferenza. Si sentiva vicinissimo a quella creatura sconosciuta che giaceva ora sulle rotaie e i bouquet d’erba sgusciati dai sassi e si domandò quali fossero stati i suoi ultimi pensieri, quali stralci d’immagini e profumi avesse stretto tra le palpebre abbassate. Ma lui non l’avrebbe mai saputo.
Esausto, si sedette sulla panchina del quarto binario. Sapeva che avrebbe dovuto attendere circa un’ora prima di poter partire di nuovo. Tirò fuori i libri dallo zaino: li sfogliò senza quasi riconoscerne le pagine. Decise di chiuderli definitivamente. Si guardò attorno e nonostante il sole sentì freddo. Il profumo della pioggia trascorsa viaggiava stretta alla brezza leggera.
Scartò una caramella e da solo, tra i rumori della stazione, attese il nuovo treno lasciandosi naufragare in un mare di menta.
15 Marzo 2005
Scrivo questa lettera così, per parlare un’ ultima volta. Non so chi mi troverà, se Tu o Voi, incastonato su questo foglio nascosto tra le dita legnose di un cespuglio… Magari non farai in tempo a leggermi perché la pioggia che minaccia di scendere scioglierà tutte le parole, scivolandoci sopra come una sinuosa edera di cristallo liquido…
Ma se mi trovi, leggimi ti prego, perché ho bisogno di essere custodito adesso, in quello che sento ora e che mi sembra possa rimanere per sempre… non è uno stramaledetto sprazzo narcisistico, non è uno sfogo dettato dalla paura… ho solo bisogno che qualcuno raccolga il mio ultimo pensiero come se fosse un fiore, fragile, da conservare tra le pagine di un libro… uno di quei libri che ci ripromettiamo sempre di leggere senza farlo mai… perché non c‘è tempo… perché non c‘è necessità... come se tutto dovesse essere fatto perché serve a qualcosa e io lo so bene… ho sempre vissuto la vita come se servisse per raggiungere qualcosa… dimenticando che la vita è... Il viaggio che percorriamo, il nostro cuore che sta battendo, l’amore e la rabbia che stiamo respirando… non servono queste cose, esse sono… ecco qual è il loro miracolo… Perché me ne vado allora? Da tempo sono bloccato in una vita che non c‘è più... buttarmi sotto un treno mi serve, per smettere di soffrire… non sento più nemmeno che è terribile… so solo che mi serve… c‘è troppo peso addosso… E forse, per chi rimane, continuerà ad essere un maledetto giorno senza nome né dove… come quelle nuvole sgualdrine che ti incantano con le loro forme mentre corrono nel cielo… e ti ricordano qualcosa di lontano, qui, nel silenzio oceanico della campagna… Hanno paura le rotaie… lo sento, l’ ho sempre sentito… il treno è ancora lontano ma loro iniziano a essere scosse da leggeri tremiti… le tocco con la mano e il loro tremore attraversa tutto il mio corpo… anche oggi succederà così... e arriverà il rumore secco, il buio viscido e poi umido e poi ancora morbido… solo Tu allora saprai come sarà il cielo, se livido e gonfio di pioggia oppure azzurro, colmo di luce chiara… e forse il profilo eburneo dell’orizzonte mi invaderà con il suo bianco… qualcuno stenderà un velo sul mio volto per nascondermi e magari nello stesso istante una donna stenderà un velo di ombretto sulle palpebre per farsi notare di più... non lo so, non potrò saperlo… E tanti malediranno quell’avvenimento estremo che ha bloccato il treno… altri ancora tireranno in ballo il mio albero genealogico, le mezze stagioni che non esistono più, perché è già marzo ma fa ancora freddo e la tristezza è in agguato dietro la muraglia delle nubi… sarò uno dei tanti Antonius Block che ha deciso di suggerire all’oscura dama come fare scacco matto in anticipo… un trafiletto tagliato sottile sottile mi darà notorietà sul giornale locale e qualche psicologo arrotonderà il suo mese con una nuova intervista… si tenterà di scandagliare l’estremo e di ricollegarlo ad un preciso motivo per intontire la paura… ma spiegare non significa comprendere e su questo sbaglio tanti hanno frainteso la vita…
Dicono che non c‘è tempo per pensare all’estremo… meglio non vederlo… meglio non rifletterci su… Tu che lo stai leggendo è come se gli avessi donato un po’ di te… forse non lo sai, l’estremo è invisibile ma c‘è tutti i giorni… accanto alle rotaie su cui sfrecciano i treni mentre la vita è in bilico su un passo indeciso… tra gli occhi rattoppati di lacrime di chi non ce la fa guardare i sogni trasformati in stelle impagliate, assopite tra le mani… e nelle nicchie delle strade bagnate di pioggia, dove ci si trova vicini solo per ripararsi dall’acqua mentre il freddo della solitudine morde l’anima… forse non lo vedrai questo estremo e sarà un giorno come un altro di sgomitate e selezioni naturali, di sguardi sfuggenti, di minuti stracciati… un giorno come un altro a servire ciò che non è nostro… a rincorrere doveri perché non possiamo farne a meno…
Oppure no, sarà un giorno diverso in cui ti fermerai ad ascoltare, perché stare in silenzio non significa aver perso le parole ma cercare di proteggerle… come il vento che si placa ma continua a respirare… come il tempo che tralascia le lancette e chiede il vero nome delle ore… come i giorni qualsiasi che inciampano all’improvviso nel cuore e iniziano a cercare il mare… quello che ci rimproverano di sognare perché bisogna andare avanti, essere al passo con la vita…
Ma forse per te sarà davvero un giorno diverso in cui assaggiare il profumo disarmante di una poesia… scoprire la luce del sole sguainata nell’azzurro anche se dentro tutto è buio… e fare l’amore, come se fosse l’ultima volta, sotto il cielo spiegazzato di inizio primavera… E dietro ad un vetro appannato, aspettare ascoltare abbracciare tutti i battiti di un giorno… un giorno qualsiasi.