Her lips were red, her looks were free,
Her locks were yellow as gold:
Her skin was as white as leprosy,
The Night-Mare LIFE-IN-DEATH was she,
Who thicks man’s blood with cold.
Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner
A mia madre e mio padre
Prologo
Islanda, 892 d.C.
Quella notte Jorund aveva sognato le Valchirie. Le tre fanciulle ferali lo scortavano a cavallo di lupi sanguinari fino ad Asgard, la capitale degli dei, alla presenza di Odino. Jorund non credeva si trattasse di un mero sogno, pensava che fosse qualcosa di più. Un messaggio, forse, di cui tuttavia non sapeva indovinare il significato.
La chiara voce di Ingrid lo riscosse dalle sue riflessioni. Era stato così assorto nei propri pensieri da non accorgersi dello scricchiolio provocato dai passi leggeri della donna.
“Siamo pronti”.
Ingrid veniva ad avvertirlo che era tempo di cominciare. Jorund annuì gravemente e la donna, senza aspettare che aggiungesse altro, se ne andò. Era una notte senza luna e solo le stelle brillavano, malinconiche e sinistre, contro il nero velluto della notte. Minuscoli fiocchi di neve turbinavano nell’aria, sospinti da un vento freddo e pungente, presaghi di una più grande tempesta. Jorund stese le mani per riscaldarle al calore di un piccolo fuoco. Le lingue danzanti delle fiamme si riflettevano nei suoi occhi e creavano ombre cupe sulla sua fronte solcata da rughe profonde che lo facevano apparire più vecchio di quanto non fosse in realtà.
Era il momento, si disse. Jorund era un uomo forte, eppure il suo animo tremava di fronte alla prova che lo attendeva. Pregò silenziosamente gli dei perché mantenessero saldo il suo cuore, poi, con passo pesante, si avviò per compiere ciò che sapeva essere il suo dovere.
Gli altri quattro lo attendevano poco lontano, in una radura spoglia e ricoperta di brina. Un solco circolare era stato tracciato sul terreno e i suoi compagni avevano preso posto al suo interno, ognuno accanto ad un fuoco acceso. Jorund fece scorrere il suo sguardo su ognuno di loro, soffermandosi brevemente su ciascuno. I suoi occhi, azzurri come il mare polare, erano insolitamente cupi. C’erano i due giovani fratelli, Agnar e Ingrid. Entrambi erano così alti da sovrastare tutti gli altri, con capelli biondo scuro e occhi azzurri con identiche venature verdi. Agnar avrebbe preso il posto di Jorund alla guida del villaggio, un giorno. Era impetuoso e impulsivo, ma il tempo e i saggi consigli della sorella lo avrebbero trasformato in un bravo capo. Ingrid era bella come l’aurora boreale e altrettanto fredda e fiera. Erano molti i cuori che aveva spezzato. Alla destra di Ingrid aveva preso posto il vecchio Frømund. Per quanto anziano, la sua figura era ancora assai imponente. I suoi occhi, di un verde intenso che la notte tramutava nel nero più profondo, erano d’acciaio, il suo volto impenetrabile. L’età gli aveva reso grigi i capelli, ma i suoi baffi e la sua barba erano ancora corvini e folti. Osvald chiudeva il cerchio. Era il più piccolo di statura, che era però compensata dalla sua stazza. Il collo taurino e le spalle possenti gli conferivano l’aspetto solido e massiccio di una roccia. Grande bevitore, avvezzo alle feste e alle risate fragorose, il suo viso era ora serio e grave. Era calvo, sebbene fosse nel fiore degli anni. Aveva il viso rotondo, il naso un po’ schiacciato e piccoli occhi scuri.
Jorund osservò attentamente tutti loro, scorgendo la gravità del proprio sguardo riflessa nei loro volti risoluti. I loro occhi colmi di fiducia erano puntati su di lui, in attesa che facesse quanto andava fatto. Jorund era il gothi del villaggio, la loro guida e il loro capo. Non li avrebbe mai delusi, sebbene la prova che lo attendeva fosse mostruosamente ardua. Una pelle d’orso, tramandatagli dai propri antenati norreni, lo riparava dal freddo mentre il vento gli frustava il viso, scarmigliando i suoi lunghi capelli castano-rossicci. Una cicatrice gli solcava il lato destro del volto, attraversandogli obliquamente la guancia, prova della sua gioventù di guerriero e cacciatore. Al collo portava un ciondolo raffigurante il martello di Thor, simbolo di potere e di responsabilità.
“Coraggio, ragazzo” lo spronò Frømund, la voce solitamente gentile ora granitica quanto il suo volto.
Solo allora lo sguardo di Jorund si spostò sulle due figure inginocchiate al centro del cerchio, entrambe con le mani legate dietro la schiena. La prima era un uomo dai capelli neri. Nonostante fosse nudo non tradiva alcun disagio per il freddo intenso della notte. I suoi occhi erano fissi su Jorund e aveva sollevato il mento in segno di sfida. Nelle sue iridi color della cenere, gelide e crudeli come la morte stessa, lampeggiava un odio profondo e feroce, tuttavia le sue labbra erano arricciate in un sorriso di scherno. La seconda figura era una donna. Anche lei teneva il proprio sguardo fisso su Jorund. Nei suoi occhi, di un verde non comune, vi era una muta supplica, ma sul suo viso la fierezza mascherava la paura. Non avrebbe detto una parola perché le venisse risparmiata la vita, Jorund comprese. Un tremito lo scosse quando quegli occhi incrociarono i suoi. Comandando alla propria determinazione di non vacillare, Jorund distolse lo sguardo da sua moglie.
“Sapete entrambi ciò che vi attende” disse con voce priva di qualsiasi emozione, riuscendo a stento ad arginare il tumulto che si agitava dentro di lui. A quelle parole la donna – Thora era il suo nome – chinò il capo con rassegnazione: era ormai certa di non poter sfuggire al suo destino. Lanciò un ultimo sguardo in direzione di Frømund, ma questi non lo ricambiò né diede segno di essere turbato all’idea dell’imminente morte della sua unica figlia. Il suo viso era una maschera del metallo più duro, i suoi occhi due pozzi profondi.
Una lacrima silenziosa scorse sulla guancia di Thora e una tenda di capelli rosso scuro le scivolò davanti al viso, nascondendolo alla vista. L’uomo accanto a lei proruppe invece in una risata colma di disprezzo. Nei suoi occhi d’acciaio ardeva una malvagità glaciale e terribile. Il suo volto era orrendamente tumefatto e sul suo petto muscoloso, proprio all’altezza del cuore, si apriva una ferita profonda e mortale, un buco nero da cui non sgorgava alcuna goccia di sangue. Quando parlò, la sua voce era roca, un sibilo velenoso che colpiva con la violenza di una frusta. Sul suo volto era dipinto un ghigno ferino.
“Credi davvero di avermi sconfitto?” schernì Jorund, che si limitò a fissarlo di rimando senza tradire alcuna reazione.
“Credi davvero che questa sia la fine? La tua arroganza è pari soltanto alla tua cecità, uomo! Non sei niente, non sai niente. Puoi uccidermi, ma il mio potere sopravvivrà e si farà più forte! Non è la fine, è il principio!” Ogni sua parola era una promessa di vendetta.
Provocato dalle sue affermazioni, pronunciate con l’odio che pervade le maledizioni, Agnar si fece avanti e gli assestò un poderoso calcio in mezzo alle scapole, facendolo cadere pesantemente a terra. Si udì il sinistro schiocco di alcune costole che si spezzavano, ma nessun lamento si levò dall’uomo. Pur avendo le mani legate, riuscì a risollevarsi con sorprendente rapidità. Una malvagità ribollente distorceva i suoi lineamenti, rendendoli quasi inumani, mentre una crudeltà selvaggia alimentava il fuoco nel suo sguardo.
Jorund si avvicinò di un passo, così da torreggiare sopra di lui. Con una mossa improvvisa, si chinò su di lui e, afferrandolo per i capelli, lo costrinse a piegare indietro la testa, puntandogli la lama lucente ed affilata di un coltello alla gola.
“Sgozzarti non servirebbe a nulla, non è vero Hord?” gli sibilò in un orecchio. E in effetti, sebbene la lama avesse inciso un sottile taglio sulla pelle tesa della gola, non uscì sangue dallo sfregio, nemmeno una goccia.
“Non esiterei a farlo, se solo potessi sentire il tuo sangue scorrermi caldo tra le dita!”
La sua furia era condivisa dagli altri quattro, sui cui volti riluceva la brama violenta ed ardente di chi vuole vedere un nemico sconfitto. Thora fu l’unica a comprendere veramente cosa si celava dietro la furia del marito e tremò per la ferocia che udì nelle sue parole.
“Jorund” lo chiamò, la voce così flebile da essere poco più di un sospiro. Jorund sollevò lo sguardo fino ad incontrare i suoi occhi, colmi di lacrime e spalancati per l’orrore. Lentamente, impercettibilmente, Thora scosse la testa. Quel piccolo movimento fu sufficiente perché Jorund ritornasse in sé. Ritrasse il coltello con deliberata lentezza e lo infilò di nuovo nel fodero appeso alla cintura. Riportò il proprio sguardo su Hord, avvicinandosi a lui fin quasi a sfiorarlo.
“Invece è la fine, Hord!” tuonò e subito alla sua voce si aggiunsero le roche grida di sfida dei suoi compagni.
A un suo cenno Agnar gli porse una lancia che fino a quel momento era rimasta posata a terra: era Gungnir, la lancia di Odino. La leggenda narrava che fosse stata forgiata dai nani e che non mancasse mai il suo bersaglio. Sulla punta vi erano incise delle rune. Nessun’altra arma avrebbe potuto uccidere il demone.
Jorund trapassò Hord con un unico movimento fluido, conficcandogli la lancia nel petto finché la lama non gli spuntò dalla schiena. Non un gemito, non un tremito accompagnarono la morte della malefica creatura, solo un sibilo acuto e sfrigolante, come quello prodotto da una lama arroventata immersa nell’acqua. Nemmeno la morte chiuse i suoi occhi grigi e crudeli, né distese la piega demoniaca che tendeva le sue labbra. Lasciando la lancia nel petto del demone, Jorund fece un passo indietro, continuando a fissarlo e bevendo la scena. Osvald estrasse Gungnir dal petto del demone, mentre Agnar e Frømund iniziarono a cospargerlo di olio di balena e infine gli diedero fuoco. Le sue carni sibilarono mentre le fiamme lo riducevano lentamente in cenere. Un fumo dall’odore acre si levò nell’aria.
Osvald passò la lancia a Ingrid. Sulla punta bronzea di Gungnir erano comparse curvilinee tracce nere, segni simili a bruciature ma parte del metallo stesso. Ingrid tentò di cancellarle usando l’orlo della sua veste, senza successo. Era come se il metallo le avesse assorbite. Infine, Ingrid desistette.
Il riflesso delle fiamme guizzava negli occhi di Jorund, il cui cuore era pesante a dispetto del successo appena ottenuto. La prova più difficile lo attendeva ancora, e le sue forze cominciavano a vacillare. Avvertiva su di sé gli sguardi degli altri, tutti in attesa della sua parola, della sua decisione. Avrebbe voluto non avere quel peso sulle spalle. Avrebbe voluto che la decisione non spettasse a lui, ma nessun altro aveva l’autorità per prenderla. Nessun altro poteva prendere la vita di sua moglie al posto suo. Cercando di dominare le emozioni che si agitavano dentro di lui, Jorund spostò il proprio sguardo su Thora. Una lacrima si staccò dalle ciglia della donna, per poi scorrere silente sul suo volto. Una supplica, muta e straziante. Jorund chinò il capo. Non sapeva ancora se possedeva realmente la forza necessaria per uccidere la donna che amava. L’amava violentemente e davanti a sé vedeva la donna forte e decisa che aveva preso in moglie e da cui tanto desiderava un figlio, non la colpa che l’aveva corrotta. Estrasse lentamente il pugnale dal fodero. Lei era umana, il pugnale sarebbe bastato. Jorund si inginocchiò davanti a lei e le accarezzò dolcemente il viso con una mano, asciugandole le lacrime che lo bagnavano.
“Mi dispiace” sussurrò, gli occhi umidi di lacrime. Posò la punta della lama al petto della donna, scosso da singhiozzi soffocati.
Improvvisamente, l’aurora boreale incendiò il cielo, disegnando un cangiante nastro carminio che si snodava sinuoso tra le stelle. Fiere e furiose, le valchirie attraversavano il cielo, le chiome dorate sciolte al vento, pronte a reclamare il loro tributo mortale.
Pirenei 1612 d.C.
“A morte! Morte alle streghe! A morte!”
Le urla della folla inferocita si fondevano l’una con l’altra in un macabro inno di morte. In molti erano accorsi per assistere a quel raccapricciante spettacolo. Uomini, donne, persino bambini. Due roghi erano stati predisposti. In quella fredda notte di luna nuova due donne sarebbero state consegnate alle impietose fiamme dell’inferno. Erano accorsi da tutti i villaggi dei dintorni per vederle bruciare. Gli uomini impugnavano bastoni e torce, agitandoli selvaggiamente nell’aria e accompagnando i loro gesti con grida cariche di odio. Le donne stringevano i bambini alle loro gonne, unendo le proprie irate maledizioni alle grida degli uomini. Alcuni dei ragazzini più grandi scagliavano pietre contro le due povere sventurate, ciascuna legata a un palo al centro del rogo che sarebbe presto diventato la sua tomba, il suo giudizio.
Un vento insolitamente freddo spazzava le brulle cime delle montagne, mentre minacciose nuvole nere cominciavano ad addensarsi e ad oscurare il cielo. Priva del chiarore argentato della luna, la notte era scura e cupa, e persino le stelle sembravano tremare di fronte alla cieca furia della folla.
“A morte! Che le vostre anime siano dannate!” gridò un’anziana donna dal centro di quell’esaltata moltitudine.
“Basta uccidere i nostri uomini! Bruciate, bruciate, maledette!” inveì una seconda donna vestita a lutto. Raccolse una grossa pietra dai bordi affilati e la scagliò con forza contro la più anziana delle due sventurate, colpendola alla fronte.
La donna non emise alcun lamento, sebbene la pietra le avesse procurato un taglio piuttosto profondo. Il sangue che vi sgorgava le scorreva copioso sul viso, fino a gocciolare lungo la linea arcuata della gola. Altre pietre la colpirono al petto e al ventre, senza che nessuna le strappasse un solo gemito. Il vento le sospinse alcune ciocche dei crespi capelli castani davanti al volto. Il suo sguardo di sfida rimase fisso sulla folla. Le sue iridi, di un raro verde scuro a cui si mescolava una sfumatura di grigio, sembravano quasi brillare nell’oscurità.
Un uomo alto, emaciato e vestito di nero si fece avanti, portando due torce, una in ciascuna mano. La folla si zittì all’improvviso e un silenzio innaturale calò sulle montagne.
“Streghe!” tuonò l’uomo con voce stranamente possente a dispetto della sua corporatura esile.
La donna dagli occhi verdi spostò il proprio sguardo su di lui. Rabbia ardeva nei suoi occhi, una calda brace ancora viva sotto la cenere. Sul volto della seconda donna, diversi anni più giovane, era invece dipinto l’impotente orrore di chi vede avvicinarsi il proprio destino e sa di non poter fare assolutamente nulla per evitarlo.
“Vi prego!” urlava in preda al panico, la voce rotta per la disperazione. Lacrime amare quanto inutili le bagnavano il viso, tracciando lucidi sentieri sui suoi gentili lineamenti. Rivoli di sangue si mischiavano ad esse.
“Io non sono una strega! Non ho fatto niente! Lasciatemi andare! Vi prego, non ho fatto niente!”
Ma le sue grida disperate non fecero altro che accrescere la furia della folla.
“Taci, maledetta!” sibilò una donna. Raccolse una pietra e la lanciò contro la poveretta, ferendola a una tempia. La giovane donna si accasciò su se stessa con un grido di dolore. Sarebbe caduta se non fosse stata legata al palo. I capelli sul lato sinistro della testa furono presto fradici di sangue.
“Vi prego!” ebbe ancora la forza di gridare, “Vi prego, non ho mai fatto niente a nessuno! Non sono una strega!”
Ma le sue suppliche rimasero inascoltate. L’uomo con le due torce riprese a parlare, ira e odio forti nelle sue parole.
“Vi siete macchiate di crimini orribili contro Dio e contro gli uomini!” esordì. “Siete colpevoli di stregoneria e di aver praticato le arti oscure per evocare il diavolo e uccidere uomini giusti e timorati di Dio! Avete portato il seme del demonio in mezzo a noi!”
Le urla della folla si facevano sempre più feroci mano a mano che l’uomo elencava la lunga lista di crimini atroci commessi dalle due donne, accusandole di essere il tempio del maligno.
“No! Non è vero! Non ho mai fatto nulla di tutto questo! Non sono una strega! Vi prego, dovete credermi! Vi prego!”
Le suppliche della giovane donna erano sempre più disperate. Nei suoi occhi scuri si riflettevano le fiamme che presto l’avrebbero divorata.
“Siete il tempio del demonio e presto vi contorcerete tra i tormenti!” proseguì l’uomo con furia inesorabile. “Anime dannate, bruciate all’inferno!”
Dopo aver pronunciato quelle parole traboccanti di odio l’uomo lanciò le torce sui due roghi. La legna secca prese subito fuoco. La folla esultò nel vedere le fiamme innalzarsi con un ruggito e avvolgere le due donne, voraci e fameliche, La donna più giovane lanciò un grido alla volta del cielo quando il fuoco la raggiunse, un urlo straziante che riecheggiò tra le montagne, perforando ogni ombra e penetrando ogni antro. Fu un grido così gravido di dolore da far impallidire persino le stelle, tuttavia non fu neanche lontanamente così agghiacciante come ciò che fece l’altra donna.
Mentre l’uomo elencava i crimini nefandi per cui veniva condannata a essere bruciata viva lei non aveva mai staccato il proprio sguardo adamantino dal suo volto, nemmeno dopo che la legna aveva preso fuoco. Il riflesso delle fiamme danzava sul suo viso, rivelando un’inflessibile bellezza e una calma innaturale. Il suo viso era freddo come le stelle che le si riflettevano nelle iridi. Piegò la testa all’indietro e rivolse gli occhi al cielo.
E rise.
1.
La gabbia
Il Mousetrap era una bettola di quarta categoria. Offriva pessima musica, pessimi drink e pessima fama, eppure faceva affari d’oro in serate come quella. Come d’abitudine Matthew era arrivato verso l’una e si era diretto subito verso il bancone del bar. Il barista gli preparò il solito drink, un Long Island Iced Tea doppio e senza ghiaccio, ma nemmeno la doppia dose di alcol riusciva a mascherarne la qualità più che scadente. C’erano forse sei persone in tutto il locale, oltre a lui. Matthew non ne aveva mai viste più di una decina tutte insieme. Non di sopra, almeno. Mentre beveva a grandi sorsate il suo drink Njáll lo raggiunse e si sedette sullo sgabello accanto al suo. Era entrato da una porta raggiungibile solo da dietro il bancone e si era diretto verso Matthew non appena lo aveva individuato, seduto al posto di sempre. Anche se aveva un anno più di Matthew, il viso completamente glabro e l’abbigliamento da rapper gli conferivano un aspetto molto più giovane e a volte riusciva a sembrare persino un adolescente. Indicò il bicchiere già mezzo vuoto che Matthew teneva in mano.
“Spero che tu non ne abbia presi altri prima di questo, altrimenti crollerai a terra al primo colpo!”
Matthew finì in un solo sorso quello che restava nel bicchiere. L’alcol gli bruciò la gola, una sensazione a cui era abituato e che gli era gradita.
“Falla finita, Njáll”.
“Dico sul serio, l’alcol annebbia la mente e rallenta i riflessi. Ho puntato forte su di te e non posso permettermi di perdere tutto perché non sei in grado di parare i colpi! Ti ho preparato un incontro tosto stasera, mi servi al massimo! Devi essere veloce, scattante. Sai no, come sei di solito”.
Matthew sbatté il bicchiere sul bancone e si alzò in piedi.
“Tranquillo, farò il culo a chiunque mi troverò davanti”.
“Ottimo, allora andiamo! Fra poco è il tuo turno, ti conviene scendere e cominciare a prepararti!”
“Oggi sei anche più chioccia del solito, Njáll”.
“Ehi, non faccio altro che curare i miei investimenti! E poi, ho conosciuto una ragazza, per cui mi servono soldi. Sai no, voglio fare una buona impressione”.
Njáll fece l’occhiolino poi uscì dalla stessa porta da cui era entrato. Matthew lo seguì, oltre la porta e giù per una rampa di scale fino ad arrivare nel vero cuore pulsante del Mousetrap. Il locale era solo una copertura, ovviamente, e per fortuna, perché Njáll era davvero poco tagliato per gestire un’attività di quel genere. Se si fosse trattato di un ordinario locale, il Mousetrap avrebbe già chiuso i battenti da un pezzo. Il vero intrattenimento era lì, nel seminterrato. Un paio d’anni prima Njáll aveva scovato un vecchio magazzino abbandonato appena fuori Reykjavík, ne aveva intravisto il potenziale e nel giro di una paio di mesi lo aveva trasformato in un nido di combattimenti clandestini. Aveva reclutato lui stesso i primi talenti, poi la notizia si era diffusa e aveva attirato nuovi clienti. Njáll era una celebrità nella vita sotterranea di Reykjavík. Matthew aveva sempre trovato strano il nome che aveva scelto per il suo locale, Mousetrap. Njáll gli aveva spiegato che si era ispirato all’Amleto di Shakespeare, che aveva studiato nel tempo trascorso in Inghilterra all’università. Poco importava che nessuno dei clienti del Mousetrap avrebbe mai capito il riferimento, diceva Njáll, e Matthew infine riconobbe che il nome era curiosamente appropriato. L’ironia del contrasto colto-sordido era perfettamente nello stile dell’amico.
Njáll fece strada fino al centro del locale, dove si ergeva la gabbia.
“Sta pronto, fra poco tocca a te! Questo è l’ultimo incontro di contorno!”
Dovette urlare per farsi sentire al di sopra delle grida del pubblico. In realtà c’erano poco più di una centinaio di persone, ma erano abbastanza per occupare tutto lo spazio intorno alla gabbia, senza contare che erano tutti così sbronzi ed esalatati da fare tanto baccano da sembrare il doppio.
“Il tizio col dragone non vale niente, non resisterà ancora per molto! Preparati!”
Matthew annuì e si diresse dove la folla era più rada, accanto al banco del bar. Il pavimento era disseminato di cocci di vetro e appiccicoso per tutto l’alcol che ci era stato versato. Njáll aveva ragione, l’incontro sarebbe terminato nel giro di minuti. Uno dei due combattenti, quello con un dragone tatuato su una spalla, era palesemente sul punto di crollare. Qualche altro colpo e il suo avversario lo avrebbe steso.
Matthew si tolse giubbotto, maglione e camicia, rimanendo a torso nudo. Per le scarpe avrebbe aspettato di essere sul ring. Iniziò a sciogliere i muscoli delle gambe e nel frattempo cominciò anche ad avvolgersi della garza intorno alle nocche perché non si escoriassero. Bastava poco per spellarle, persino le sue, che si erano indurite per essere state scorticate tante volte. Quando era ancora un novellino aveva combattuto una volta con le nocche ferite. Il dolore indeboliva i colpi e gli toglieva efficacia. A ogni colpo il dolore cresceva e la carne viva diventava sempre più esposta. Il corpo si difendeva, Matthew aveva imparato. Aveva vinto comunque, però le mani avevano impiegato parecchio tempo per guarire. Terminata la fasciatura, Matthew fletté le dita più volte, facendole poi scrocchiare una per una contro il palmo della mano opposta. Se non le avesse scaldate a dovere rischiava di rompersele. Finita la sua routine iniziò a riscaldare i muscoli delle braccia, e fu allora che la vide. In effetti si chiese come avesse fatto a non notarla prima. Dava decisamente nell’occhio, sia perché era l’unica che non sembrava catturata dall’incontro, sia perché indossava un abito rosso fuoco che spiccava in mezzo al mare di jeans e magliette sudate e macchiate di birra come un neo solitario sul candido seno di una timida fanciulla, ed era altrettanto provocante. Senza contare che era semplicemente molto, molto bella. I tratti del viso, i morbidi boccoli corvini che lo incorniciavano e la carnagione color caffèlatte tradivano il suo sangue latino. Matthew avrebbe scommesso che fosse spagnola.
Lei incrociò il suo sguardo, come per caso. Le sue labbra si schiusero in un sorriso e si mossero per formare una muta parola. ‘Ciao’, disse. In quel momento, la campana suonò tre volte, annunciando la fine dell’incontro, e tutti quanti iniziarono ad esultare, nascondendo per un attimo la ragazza alla vista. Njáll salì sul ring e proclamò il vincitore. Matthew vide che l’uomo col tatuaggio era steso a terra, svenuto. Era piuttosto grosso, per cui ci vollero altri due uomini robusti per trascinarlo fuori dal ring, anche dopo averlo fatto rinvenire spruzzandogli dell’acqua in faccia. Intanto Njáll lo derideva per la soddisfazione del pubblico, cui non importava niente che quel poveraccio avesse fatto del suo meglio. Era carne da macello per loro, e come tale lo volevano cotto a puntino. Njáll lo capiva e faceva ciò che era necessario per mantenere la folla esaltata.
“Siete pronti per il prossimo incontro?” gridò nel microfono che pendeva dal soffitto e che veniva sollevato o abbassato a seconda della necessità. Il pubblico ruggì il suo assenso.
“E allora fatevi sentire, perché la serata è al suo apice! Perché ora è il suo turno! Lo stavate tutti aspettando, e lui è pronto a lasciarvi ancora una volta con il fiato sospeso! Accogliete nella gabbia il vostro campione, Matthew Kristjansson!”
Matthew entrò nella gabbia salutato da un unico grido: il re, il re! Un titolo meritato, poiché non aveva mai perso un solo incontro.
“E ora, l’uomo che si è guadagnato il diritto si sfidarlo! L’uomo per cui tutti avete fatto il tifo nelle ultime settimane!” proseguì Njáll. Faceva sempre una lunga e prolissa presentazione prima di ogni incontro. Matthew le trovava inutili, ma Njáll sosteneva che giovassero allo spettacolo. Creavano atmosfera, diceva, e scaldavano il pubblico, incitandolo a scommettere e a bere. In fin dei conti erano affari. I lottatori erano la vera attrazione del Mousetrap, e le attrazioni dovevano essere presentate a dovere.
Mentre aspettava che l’amico finisse di parlare Matthew si guardò intorno, cercando di ritrovare la ragazza scorta poco prima. La individuò quasi subito, proprio accanto alla gabbia. Non sembrava affatto sorpresa di aver catturato la sua attenzione. Non appena ebbe incrociato lo sguardo di Matthew iniziò ad arrampicarsi sulle sbarre di ferro che formavano la gabbia fino a portarsi alla sua altezza. “Buona fortuna” gli sussurrò all’orecchio, per poi lasciarsi cadere elegantemente a terra. Matthew la vide mordersi sensualmente il labbro inferiore prima che si confondesse di nuovo in mezzo al pubblico.
“Lo sfidante, Hannes ‘Hammer’ Geirsson!” annunciò Njáll. Matthew si concentrò sul suo avversario. Era importante studiarlo con attenzione, perché la minima distrazione poteva cambiare il corso dell’incontro. Il lottatore che entrò nella gabbia era tozzo e tarchiato, anche se più basso di Matthew di almeno una spanna, cosa che lo avrebbe costretto a colpirlo dal basso verso l’altro, sacrificando potenza e precisione nei colpi. Doveva anche essere più vecchio di lui, anche se non di molto, Matthew stabilì. Non avrebbe fatto molta differenza. Prima di uscire dalla gabbia Njáll gli si avvicinò.
“C’è un motivo se lo chiamano ‘Hammer’” lo avvertì, a bassa voce e allontanando il microfono dalla bocca, in modo che nessun altro potesse sentirlo. “Sta attento al suo gancio sinistro, è il suo asso nella manica. L’ho visto stendere più di un lottatore con quel colpo. E non parlo di gente da quattro soldi, parlo di quelli tosti”.
Matthew annuì, troppo concentrato per parlare. Njáll ammiccò, poi si affrettò a uscire dalla gabbia. La campana suonò e l’incontro ebbe inizio.
I due lottatori si studiarono e tentarono qualche finta per soppesare la rispettiva abilità. Matthew comprese subito che il suo avversario era un abile combattente, ma lui era salito sul ring per vincere e avrebbe vinto. Ogni lottatore aveva un punto debole. Matthew doveva solo trovare quello del suo avversario e sfruttarlo a suo vantaggio, come sempre. Era incredibilmente bravo a individuare le debolezze degli altri lottatori. Riusciva a riconoscerle in modo istintivo. Fu lui a sferrare il primo colpo, che Hannes incassò con sorprendente facilità e a cui rispose con una prontezza che Matthew non aveva sospettato. Non immaginava che un uomo così solido e tozzo potesse essere così veloce. Riuscì a scansarsi appena in tempo ma non ad evitare che il suo pugno lo raggiungesse comunque a una spalla. Capì di averlo sottovalutato. Sorrise senza accorgersene. Preferiva che i suoi avversari gli dessero del filo da torcere. Rendeva il combattimento molto più divertente. Doveva aggiustare la sua tattica, però. Se quel colpo fosse andato a segno lo avrebbe di sicuro messo al tappeto. Il suo avversario non era soltanto veloce, aveva anche una forza notevole.
Hannes finse un montante, per poi sferrare invece un potente gancio sinistro che colse Matthew di nuovo completamente impreparato e lo mandò a sbattere contro una parete della gabbia. Matthew avvertì un acuto dolore al volto e subito dopo sentì in bocca il sapore metallico del sangue. Il labbro superiore si era spaccato.
Njáll aveva ragione, pensò, il gancio sinistro di Hannes era davvero portentoso. Il soprannome ‘Hammer’ gli calzava davvero a pennello. Sebbene il colpo lo avesse lasciato stordito Matthew udì con chiarezza il pubblico trattenere il fiato. Sapeva che vedere il proprio campione perdere, finalmente, lo avrebbe semplicemente elettrizzato. Nessuno gli era davvero affezionato, e poi chi non avrebbe amato quel colpo di scena? Matthew era rimasto sgomento nel venire a sapere che la maggior parte di chi assisteva ai suoi incontri scommetteva sempre contro di lui. Sospettava che Njáll diffondesse informazioni errate sui suoi sfidanti, migliore di quella che meritassero, così da poter incassare di più con le scommesse. Li imbrogliava, in altre parole.
Ancora frastornato, Matthew non riuscì a parare il colpo successivo, che lo raggiunse in pieno petto. Stavolta, però, fu come se l’impatto gli schiarisse la testa anziché stordirlo ancora di più. Nuova energia gli fluì nel sangue. Forse era solo adrenalina, o forse era la rabbia, in entrambi i casi Matthew ritrovò la lucidità. Hannes sorrideva e si pavoneggiava davanti al pubblico come se fosse sicuro di avere già la vittoria in tasca. No, disse Matthew tra sé e sé. Non te lo renderò così semplice.
Quando Hannes lo caricò con la chiara intenzione di finirlo Matthew era pronto e lo aspettava al varco. Balzò di lato all’ultimo momento, ma Hannes si era dato troppo slancio per riuscire a fermarsi così repentinamente. Finì contro le sbarre della gabbia, con tale impeto da farla tremare. Matthew iniziò a colpirlo senza dargli tregua, impedendogli di rialzarsi e di passare nuovamente all’offensiva. Gli ruppe il naso con un sinistro scricchiolio, e subito un fiotto di sangue cominciò a sgorgargli da entrambe le narici.
Ruggendo per l’umiliazione Hannes si voltò e si gettò di nuovo alle cieca su di lui, con l’unico risultato di finire a terra una seconda volta. Allora Matthew capì qual era il suo punto debole. Hannes contava solo sulla forza fisica per vincere, e questo lo rendeva impaziente ed imprudente se il suo avversario non soccombeva in fretta ai suoi colpi martellanti. Non aveva alcuna tattica, non era altro che un orso rabbioso. Scansarsi e schivare, ecco la chiave per batterlo. Matthew lo fece stancare mantenendosi fuori dalla portata dei suoi pugni micidiali e solo quando vide che i suoi movimenti diventarono più lenti e più fiacchi passò al contrattacco. Hannes tentò di respingerlo, ma lui era troppo veloce. Lo incalzò senza sosta, senza lasciargli il tempo di reagire. Lo colpì ai reni, allo stomaco ed al diaframma, tutti i punti dove sapeva che avrebbe fatto più male. Cercò il suo sguardo, poiché voleva leggervi la sorpresa di fronte all’inaspettata sconfitta. Matthew ansimava. Sebbene l’incontro non fosse durato molto lo aveva provato più di molti altri cui avesse partecipato. Hannes era bravo, ma alla fine andò a terra come tutti gli altri.
Per un istante il mondo si fermò. Le acclamazioni e le incitazioni della folla divennero per Matthew soltanto un brusio ovattato nelle orecchie. Acri gocce di sudore gli colarono negli occhi. Storse la bocca per il bruciore quando alcune raggiunsero la ferita al labbro.
Matthew capì che quello era il momento di finire il suo avversario una volta per tutte. Lo colpì ancora al corpo, indebolendolo ulteriormente, e lo costrinse in ginocchio colpendolo ripetutamente alla bocca dello stomaco. Spostò tutto il peso sulla gamba sinistra, così da poter muovere la destra liberamente. Afferrò Hannes per i capelli e con uno strattone lo fece piegare in avanti, poi gli affondò il ginocchio in pieno viso. Il pubblico trasalì quando udì il rumore nauseante e spugnoso prodotto dall’impatto. Hannes mugolò. Matthew era certo di avergli incrinato la mascella e con ogni probabilità gli aveva anche fatto saltare almeno due denti.
A dispetto della violenza del colpo, Hannes rimase per un attimo in bilico, gli occhi vuoti, la bocca aperta e con un filo di bava mista a sangue che gli colava da entrambi gli angoli. Poi, crollò a terra, completamente inerte.
Sbam!
Il pubblico esultò. “Il re! Il re!” gridavano. L’eccitazione dell’incontro era notevolmente accresciuta dal livello di alcol consumato. Matthew lasciò che Njáll gli sollevasse il braccio – il braccio destro, il più forte – e lo proclamasse vincitore dell’incontro. Lasciò che l’esaltazione della vittoria scorresse attraverso di lui, rilassando i muscoli affaticati e tesi. Sentendosi accendere di desiderio setacciò la folla alla ricerca dell’attraente ragazza spagnola.
***
Verso le quattro il Mousetrap cominciò a svuotarsi. L’incontro di Matthew era finito già da un pezzo e non valeva la pena restare lì solo per bere o per la compagnia. Erano rimasti solo Njáll e Matthew, il primo perché era il proprietario, il secondo perché aspettava di ricevere la sua parte dei guadagni della serata. Il suo incontro aveva fatto incassare a Njáll parecchie scommesse. A volte gli capitava di fare più incontri nella stessa sera. Erano i giorni in cui Njáll organizzava incontri liberi: chiunque volesse, senza selezione, poteva entrare nella gabbia e sfidare il campione. Di norma, però, Matthew combatteva solo alla fine della serata, contro sfidanti selezionati nel corso di incontri tenutisi nei giorni precedenti.
“Ah-ah! Sei stato fenomenale!” si complimentò Njáll battendogli la mano su una spalla. “Per un attimo ho pensato che Hannes sarebbe riuscito a metterti al tappeto! Mi hai fatto prendere un colpo, con tutto quello che avevo scommesso su di te! Avevo puntato forte, perché ero riuscito a convincere praticamente tutti che Hannes ti avrebbe stracciato. Sai no, per rendere le cose più interessanti. Mi è quasi venuto un infarto quando ti ha colpito in testa, ho pensato davvero che fossi finito! Hai iniziato a barcollare e avevi gli occhi vuoti, come se fossi ubriaco. Se avessi perso mi avresti messo nei guai, avrei dovuto ripagare tutti! Ti avevo detto di stare attento al suo sinistro! Comunque sei stato grande, mi hai fatto incassare molto più del solito!”
Matthew stappò una bottiglia di birra e ne bevve un lungo sorso prima di rispondere. Era annacquata, e con una gradazione alcolica non superiore al 2.5%, ma era meglio di molte altre cose servite nel locale. Ed era gratis. Matthew non pagava mai lì, il privilegio di essere la stella del locale.
“Dare spettacolo non mi interessa” ribatté.
“Sì, lo so, tu vai nella gabbia per vincere” finì Njáll, muovendo le mani in aria in modo solenne. “Non capirò mai cosa significa, parola mia! Per quanto mi riguarda mi sta bene, purché tu vinca. Finché tu vinci la gente verrà a vederti e sarà disposta a pagare fior di corone. Sei la mia gallina dalle uova d’oro, del resto mi importa poco” aggiunse ammiccando. “Tu continua a vincere”.
Il suo entusiasmo, sommato ai capelli lunghi e spettinati che sporgevano dal berretto calato fin sugli occhi e con la visiera sulla nuca, lo ringiovanivano davvero molto. Njáll era di famiglia piuttosto ricca, perciò aveva potuto permettersi il Mousetrap. Ovviamente i genitori non erano al corrente dell’attività del figlio, altrimenti non gli avrebbero dato i soldi per metterla in piedi. Con la sua genuinità e spontaneità Njáll era una delle poche persone con cui Matthew riuscisse veramente ad andare d’accordo, sebbene il loro primo incontro fosse iniziato con una scazzottata. Era stato così che Njáll aveva scoperto il suo talento, e senza serbargli il minimo rancore lo aveva immediatamente reclutato per il suo spettacolo. Matthew nemmeno ricordava perché gli avesse dato quel pugno.
“Ehi, ci sei? Si può sapere dove hai la testa, stasera?”
Matthew riemerse dai propri pensieri.
“Che hai detto?”
“Sei più distratto del solito. Non sei nemmeno ubriaco, sei solo… poco concentrato. Hai quella birra in mano da più di mezz’ora e non l’hai ancora finita!” scherzò. “Allora, che hai?”
Matthew bevve un altro sorso di birra.
“Ho visto una ragazza” cominciò.
Njáll sorrise e gli strizzò un occhio con complicità. La sapeva lunga, sembrava dire quell’occhio ammiccante.
“Se si tratta di donne, dov’è il problema? Se le tue prodezze di stasera non hanno incantato tutte le ragazze del locale allora al prossimo incontro combatto al posto tuo! Tu le incanti, credimi, e sono anche certo che molte di loro sono ansiose di… Sai no, ricambiare il favore”
Matthew non poté evitare di ridere.
“Non so chi sia, non l’ho mai vista prima” disse.
“Beh, questo non ti ha mai fermato”.
Matthew rise di nuovo.
“È straniera, spagnola forse, sui ventidue o ventitré anni. Ha i capelli neri, lunghi, e gli occhi scuri”.
Njáll corrugò la fronte e sporse le labbra, come faceva sempre quando cercava di ricordare qualcosa.
“Indossava un vestito rosso?”
“Sì, esatto. È lei. Sai chi è, come si chiama?”
Njáll scosse la testa.
“No, non l’ho mai vista prima di stasera. Probabilmente era la sua prima visita al mio piccolo paradiso. Non era certo intonata all’ambiente, sembrava una principessina. Però capisco perché le hai messo gli occhi addosso” continuò lanciandogli un’occhiata complice. “Era davvero incantevole”.
Matthew non lo poteva negare, eppure, non era stata solo la sua seducente bellezza ad aver catturato la sua attenzione. Anche la sensualità nella sua espressione e nel suo modo di muoversi lo avevano colpito. Non era affettata, era così… naturale.
“Andiamo, non vorrai dirmi che ti stai struggendo così per una ragazza! Hai attirato l’attenzione di tante altre, stasera. Per esempio, c’è una mia amica, Anna, che ti trova molto… interessante. Potrebbe tenerti compagnia mentre aspetti di scoprire chi è la tua misteriosa bella”.
Senza aspettare la sua risposta Njáll gli mise in mano un bigliettino su cui era scritto il numero di un cellulare. Matthew se lo infilò distrattamente in tasca. Chissà, magari l’avrebbe chiamata sul serio. Le ragazze che assistevano ai suoi incontri si facevano spesso avanti con lui. Dimostrando pochissima modestia, Matthew non ne era sorpreso. Aveva ventisei anni, era alto e aveva un fisico asciutto e ben modellato, ed era indiscutibilmente attraente, anche se non lo si sarebbe potuto definire bello. I corti capelli neri, sempre spettinati, gli davano un’aria trascurata che le ragazze trovavano molto sexy e gli occhi grigio chiaro erano una particolarità apprezzata. Non guastava nemmeno l’aria tenebrosa, persino vagamente oscura, che gli regalavano le folte sopracciglia tanto spesso leggermente corrugate, la destra spezzata da una sottilissima cicatrice perfettamente verticale. Era l’unica che avesse, almeno l’unica che si fosse procurato durante un incontro. A differenza di molti altri, non si era mai rotto le dita né il naso combattendo. Sebbene lui stesso ne avesse rotti parecchi i suoi avversari non erano mai riusciti a fare lo stesso con lui. Matthew aveva sempre saputo come colpire e come difendersi, come per istinto. Ricordava bene l’uomo che gli aveva procurato la cicatrice, un bestione ubriaco che ringhiava e sbavava come un cane idrofobo. Era il re della gabbia, prima che lui lo spodestasse. Era stato il suo primo incontro sul ring di Njáll, l’unico in cui aveva seriamente pensato di poter perdere. Invece se l’era cavata con solo quella piccola cicatrice, che sarebbe stata praticamente invisibile se non avesse interrotto l’arco nero del sopracciglio. Alle ragazze piaceva, e quando si facevano avanti lui non si faceva certo pregare.
Matthew finì la birra in poche altre sorsate, poi si alzò in piedi e si mise il giubbotto di pelle, imbottito per essere più adatto al clima. Lo aveva da anni ed era ormai rovinato e logoro, soprattutto sui gomiti.
“Vado a casa” disse.
“D’accordo. Tieni, i tuoi soldi” Njáll gli porse delle banconote ordinatamente impilate. Matthew le contò a colpo d’occhio e se le mise in tasca, soddisfatto.
“Ti chiamo per il prossimo incontro” continuò Njáll.
Matthew annuì, salutò l’amico e uscì dal locale. Nel fare il giro dell’edificio andò quasi a sbattere contro una ragazza ferma sul ciglio della strada, seduta su di una Kawasaki Ninja nera appoggiata sul cavalletto. Matthew riconobbe immediatamente il provocante vestito rosso che avvolgeva morbidamente le curve del suo corpo.
“Ehi, campione” lo salutò la ragazza con un sorriso.
Oltre al vestito solo un giubbotto di pelle la proteggeva dal freddo. Matthew soffermò il proprio sguardo sulle sue gambe affusolate, accavallate l’una sull’altra e oscurate da nere calze di nylon che lasciavano intravedere sotto di esse il colore ambrato della sua pelle. In realtà solo parte della coscia era esposta alla vista, poiché il resto della gamba era nascosto da stivali scamosciati con la punta tonda e il tacco alto che le arrivavano fin oltre il ginocchio, dando ancora più pepe ad un quadro già molto sexy. Non portava gioielli e non era truccata, almeno non in modo visibile.
Ricambiando il sorriso, Matthew le si avvicinò. Si fermò di fronte a lei, massaggiandosi le nocche delle mani. Erano tutte abrase nonostante le precauzioni prese per evitarlo. La ragazza seguì il suo sguardo e gli regalò un nuovo sorriso.
“Sei andato forte, stasera. Se combatti sempre così dovrò cominciare a scommettere su di te”.
Matthew si appoggiò con entrambe le mani alla sella della moto, chinandosi sulla ragazza e avendo ben cura di sfiorarle i fianchi mentre posava le mani.
“Sono una garanzia. Non ho mai perso un incontro”.
Era davvero bella. Matthew voleva tirarla a sé, baciarla e poi portarla in qualche posto dove poter concludere più intimamente la nottata. Come se gli avesse letto nel pensiero la ragazza scosse piano la testa con un sorriso malizioso, sollevando il dito indice e muovendolo da un lato all’altro come l’asticella di un metronomo. “Non dare troppa briglia alla tua fantasia, campione”. Sedendosi sulla sella, sollevò una gamba, appoggiò il piede contro il suo basso ventre e lo spinse delicatamente indietro. “La prossima volta prova a offrirmi da bere” aggiunse facendogli l’occhiolino. Montò in sella con movimenti che Matthew sapeva essere deliberatamente sensuali per attirare la sua attenzione, poi fece scattare il cavalletto e avviò il motore.
“A proposito, mi chiamo Sofia”.
Diede gas e sgommò via.
“Wow” disse Matthew dopo che se n’era già andata. Mentre se ne stava fermo lì Njáll lo raggiunse.
“Ehi! Che ci fai ancora qui? Non sei abbastanza ubriaco da non riuscire a trovare il tuo pick-up, soprattutto perché è parcheggiata proprio davanti al tuo naso”.
Matthew tirò fuori il biglietto che Njáll gli aveva dato poco prima. Oltre al numero di telefono c’era una piccola dedica. ‘Chiamami, ti saprò soddisfare. Anna’. Piuttosto esplicita, la ragazza. In genere era così che Matthew le preferiva. Ragazze che andavano dritte al sodo, senza farsi troppi problemi o scrupoli morali. Ragazze che cercavano piacere e che non avevano paura di chiederlo. Ragazze che lui era più che felice di accontentare. In fin dei conti, era sesso. Lo scopo era il piacere reciproco, nulla di più. Alle ragazze piaceva credere che fosse lui a farsi avanti con loro, le faceva sentire più desiderate. In realtà erano loro a supplicarlo. I loro occhi, le loro mani, le loro labbra supplicavano, e lui raccoglieva la loro supplica. Non gli occhi di quella ragazza, però. Lei non lo aveva supplicato, anzi. Semmai era stato il contrario. Era lei a gestire il gioco, cosa che avrebbe reso tutto ancora più divertente e, in definitiva, più eccitante. Matthew accartocciò il bigliettino con il numero di Anna e lo gettò a terra.
“Non credo che la chiamerò”.
Njáll raccolse il pezzetto di carta e se lo mise in tasca.
“Meglio così. L’avevo avvisata. Sai no, che sei uno stronzo con le donne”
[continua]