…che mi abbiate amata molto
poco o per nulla
non importa…
Sappiate che avete contribuito
a rendere straordinaria la mia vita.
Sarah
Quel che resta del tempo
Ho deciso di prendere un taxi.
Ieri ho venduto la mia piccola utilitaria.
Anche l’assegno è piccolo ma è necessario che lo versi.
Una volta arrivata in banca, ho chiesto al taxista di aspettarmi.
Mi ha risposto che non siamo in America e che per stamattina, Vigilia di Natale, aveva già diverse chiamate in programma, “Quindi signora, per il ritorno chiami un altro taxi.”
Ho pagato e con notevole sforzo sono riuscita ad aprire la portiera.
Ho appoggiato, prima, il bastone sulla strada poi ho fatto forza sulle gambe, emettendo una specie di grugnito, per cercare di issarmi più velocemente in piedi.
Il giovane è rimasto, immobile, al proprio posto di guida.
Non ho fatto in tempo a chiudere la portiera che era già partito.
Per fortuna si è fermato proprio davanti alla banca.
Nonostante tutto, ho fatto fatica ad entrare attraverso quella porta infernale.
Sarà perché ho il bastone e una protesi di metallo alle anche, sarà perché ultimamente faccio fatica ad entrare e uscire dalle situazioni con disinvoltura, ma la porta trasparente si apriva e chiudeva automaticamente, alle mie spalle, senza che io potessi avanzare.
Una voce metallica esortava a lasciare gli oggetti nell’apposita cassettiera.
Finalmente il cassiere, riconoscendomi, mi ha aperto dalla sua postazione di lavoro.
Nessuno si alza più.
Oggi, ognuno manovra il mondo dalla propria poltrona.
***
Ho sentito la vecchia alzarsi alle 5.00 stamattina.
Le pareti sono talmente sottili che sembra di vivere in un grande appartamento diviso in stanze, anziché in un condominio suddiviso in appartamenti.
La mia camera da letto confina con la cucina della vecchia e la mia cucina con la sua camera da letto.
Il guaio è che abbiamo orari completamente diversi.
Di solito, mentre io maneggio pentolini, il cigolio della sua rete, mi avverte che sono le 7 di sera.
È un’anima in pena.
Per trovare la posizione, prima di addormentarsi, si gira e rigira nel letto decine di volte.
Nonostante cerchi di concentrarmi sul mio dietetico pasto da single, mi accorgo di attutire i rumori con la stessa accuratezza di una mamma che protegge il sonno del suo bambino appena addormentato, ma nell’istante in cui mi accorgo di questo, spezzo subito l’incantesimo gettando nel lavandino qualcosa che rompa il silenzio, con la scusa che, a casa mia, faccio quello che mi pare.
Stamattina avrei voluto alzarmi e andare da lei a dirgliene quattro.
Ma era freddo e avevo sonno.
Avrei voluto dormire ancora qualche ora, per dio!
Mentre tentavo di non muovermi per riprendere sonno, l’ho sentita preparare la cuccuma del caffè.
Il silenzio del mattino rende ancora più vivi e scanditi i rumori.
Persino il suo orologio a muro fa di tutto per lasciarmi sveglia.
Ieri sera ho fatto tardi con Betta e le altre.
Abbiamo trascorso la serata in un locale che va per la maggiore, in questo periodo, qui in città.
È una sorta di ristorante-discoteca dove la musica è alta ma non si potrebbe ballare, perché al proprietario non concedono i permessi.
E non si può dire di cenare in un ristorante.
Abbiamo pagato ciascuna 20 euro all’entrata. Potevamo riempire i nostri piatti di tutto ciò che il grande banchetto, al centro della sala, offriva.
Le bevande no, non erano comprese.
Ci siamo riempite più volte il piatto, le altre ed io.
Sono perennemente a dieta ma vulnerabile davanti a tutti quei piatti stracolmi di salsine colorate.
È tutto il colore che vorrei mettere nella mia vita, dipingere di gioia la mia giornata ma scelgo sempre la via più facile e immediata, in questo caso il cibo.
Betta, che è la più intraprendente di tutte noi, ha trovato un tavolo libero e ci siamo potute sedere come al ristorante ma dopo circa un’ora anche quel tavolo è sparito e così pure il banchetto in mezzo alla sala. Si sono accese altre luci e tutti hanno incominciato a ballare.
Non è una discoteca regolare, ma per fare bere la gente bisogna farla muovere, mentre il proprietario aspetta i permessi.
Un ragazzo mi ha accompagnata a casa. Un amico di Laura.
Durante la serata abbiamo parlato un po’… come ti chiami… cosa fai…
Le solite cose superficiali per rimanere nel vago, come per dire, sì, mi interessa ma di più no, non ho voglia né tempo e non sono preparato.
Prima che scendessi dalla sua auto, abbiamo fatto l’amore.
Nel pomeriggio avevo preso appuntamento per la ceretta.
Non penso lo rivedrò più ma è accaduto tutto senza tante parole, come la maggior parte della mia vita.
L’unica frase che ricordo è che mi ha detto: “Sei bella” prima che disteso su di me, alzasse la mia ampia gonna e afferrasse le mie cosce lisce.
Non uso i collant ma i gambaletti che sono tornati di moda.
Ha infilato le mani sotto i bordi del mio slip e dai miei fianchi, in una sola mossa, le ha abbassate alzando, come un’onda, il suo bacino.
Deve avere fatto questo movimento diverse volte, perché gli è riuscito proprio bene. Poi, non lasciando mai la sua lingua avvinghiata alla mia, si è slacciato i pantaloni.
Gli ho sussurrato, vai sicuro non c’è problema.
Lui non ha fatto una piega, come se già sapesse ed io, in precario equilibrio emotivo, aspettando che tutto finisse, nella stessa velocità in cui era iniziato, sentivo il suo respiro appiccicato al mio viso.
Per un attimo mi sono sentita soffocare. Tutto quel cibo mi stava ballando nello stomaco.
Avrei voluto vomitare.
Il ritmo stava accelerando quando, il tipo, finalmente, ha gridato di piacere.
Dopo qualche minuto si è ripreso ed ha abbozzato un mezzo sorriso, guardandomi. Solo lì mi sono accorta di quanto i suoi occhi fossero vuoti e tristi, proprio come i miei.
Per un istante avrei voluto gettargli le braccia al collo e ritrarlo a me teneramente ma nello stesso tempo in cui le mie braccia si stavano protraendo verso di lui, il tipo ha avuto uno scatto improvviso come se stesse capendo la mia intenzione e, riportandosi sul suo posto di guida, si è sistemato, in gran fretta, i pantaloni.
Velocemente mi sono risistemata anch’io.
Ho aperto la portiera della macchina, prima ancora di sentire qualche frase di convenienza, che non avrei sopportato, e l’ho salutato mandandogli un bacio con la mano.
Lui si stava ancora sistemando la camicia quando ho chiuso la portiera.
Ha alzato anche lui una mano e l’ha stretta a pugno avvicinandola alla bocca per schiarirsi la voce.
Le parole gli sono rimaste incagliate nella gola, non riuscivano ad uscire.
Non gliene ho dato il tempo.
Sono troppo veloce, me ne rendo conto.
Entro ed esco dalle situazioni, sempre in fretta.
Non lascio il tempo di metabolizzare le circostanze, come se dietro di me non volessi lasciare nessuna impronta.
Non voglio costruire nulla, per paura di perderlo.
Ed è il nulla che mi fa compagnia, il nulla e l’indifferenza.
Lui, da seduto, ha aspettato che entrassi e che il portone di casa si richiudesse alle mie spalle.
Poi è ripartito.
***
Un suono insistente mi ha svegliata. Non sapevo se fosse l’orologio della vecchia o il cellulare.
“Allora, com’è andata, ieri sera, con il super fico?”
“Ciao Betta, ma che ore sono?”
“Le sette, perché ti ho svegliata?”
“Cavolo Betta! Ho dormito tre ore scarse. Ma dove sei?”
“A lavorare. Sono in ufficio, da mezzora e ti ho pensata.
Ho pensato… «chissà se Michelle si è lasciata scappare quel bel tipo lì… perché se è così mi prenoto io…»
“Puoi prendertelo con tutto il fiocco… Non mi interessa, Betta…!”
“Be’, non ci hai neppure provato?”
“Sì, sì, ma niente di speciale… te l’ho detto non mi interessa.
Piuttosto… che facciamo questa sera? A che ora stacchi dal servizio?”
“Dovrei staccare verso le 16,00. Dopo di che andrei a casa, porterei il cane al parco, una doccia, un po’ di relax e poi ci si vede tutte quante da Tony alle 21,00 per la cena. Anche quest’anno ci saremo tutte… tutte le single più sfigate di Bologna.”
“Bene, allora a stasera tesoro…”
“Ciao, devo scappare, mi stanno chiamando… un imbecille non ha rispettato il semaforo…”
Certo che così esile da perdersi in quella divisa da vigile urbano, Betta ha un carattere davvero forte.
Risolve le situazioni in modo pratico e parla delle tragedia della vita mettendoci sempre una battuta che immancabilmente ci fa ridere tutte a crepapelle.
La conosco da soli sei anni ma è come se la conoscessi da sempre.
È l’amica che ha sempre da correre e da fare per non impegnarsi in qualcosa che potrebbe non piacerle ma, all’occorrenza, pronta a lasciare tutto il suo da fare, per darti il suo supporto.
Posso contare su di lei, in qualsiasi momento, lo so bene ma ho già speso i miei bonus e non voglio avere troppi debiti da saldare in giro.
Neppure con lei.
***
“Ma che ore sono? Già mezzogiorno…”
Stamattina in banca non c’era quasi nessuno.
Il cassiere ha detto che è preferibile che io investa il denaro che ho sul conto corrente.
Non è una grossa cifra ma sono i risparmi di una vita e preferisco averli a portata di mano in ogni momento, senza introiti, piuttosto che in giro, non so neppure io dove e con una percentuale variabile o fissa.
Alla mia età l’unica variabile è la vita, con un unico reddito fisso: la vecchiaia.
La mia pensione mi basta.
Non ho grosse esigenze.
Il cassiere ha insistito.
Ha detto che voleva farmi parlare con un consulente ma gli ho gettato un’occhiataccia che ha capito subito che non era il caso di insistere.
Come sono stanca…
Quasi quasi mi stendo un po’ sul divano.
Fuori la gente sta incominciando ad agitarsi per l’ultimo regalo lasciato in sospeso…
Se potessi tornare indietro, non lascerei nulla in sospeso.
Pareggerei tutti i conti.
***
Oggi pomeriggio non ho sentito la vecchia muoversi.
Stamattina è andata via e tornata in taxi.
Strano.
Ho pensato: Che stia poco bene? Oddio no, non la Vigilia di Natale.
Ci sono tanti altri giorni ma non la Vigilia.
Come faccio ad andare da lei?
Conosco tutti i suoi passi, le sue abitudini ma non ci frequentiamo quasi mai.
Abita qui da poco più di un anno, quasi come me.
A parte qualche fugace incontro sul pianerottolo non ho condiviso altro con lei.
Veramente… non ho condiviso mai nulla con nessun inquilino del palazzo.
Non voglio problemi.
Se mi dovessero mancare zucchero o uova non andrei certo a bussare dal vicino.
Non si usa più.
Però, ora, le uova e lo zucchero le ho.
Potrei preparare una torta alla vecchia.
Non viene mai nessuno a trovarla, solo il filippino per le pulizie.
Da me non viene neanche quello, ma sto bene così.
Domani è Natale, la festa che rende tutti felici.
Non sono mai andata d’accordo con il Natale.
I pastori raccolti attorno al bambinello, gli abeti profumati, le vetrine con i fiocchi e gli addobbi con i loro scintillii artificiali, mi danno l’impressione voler mettere in evidenza un falso buonismo e nascondere la disperazione, nella maggior parte degli animi della gente.
È come se in questo periodo fosse impossibile sentirsi soli e disperati.
L’antidoto per ovviare a ciò, è costantemente proposto dalla pubblicità della radio e tv: comprate i panettoni che rendono più buoni, regalatevi profumi per farvi desiderare, e spumanti che magicamente aprono le porte di casa a grandiosi party per brindare con famosi divi hollywoodiani, irraggiungibili durante il resto dell’anno.
Mi sono chiesta perché, in un’epoca nella quale la creatività e la trasgressione non sono più condannabili al rogo come demoni, non si abbia il coraggio di cambiare il nome del Natale con il giorno dell’Abbuffata e dello Spreco consapevole?
Mi renderebbe più allegra.
Se, poi, mettessero una tassa per tutti gli auguri che durante le feste, risuonano la propria eco vuoto e sterile, per la città, si colmerebbe, sicuramente, il deficit statale.
Il Natale rende più felice chi già lo è durante tutto l’anno.
Io a Natale, sono sempre triste.
La mia torta le darà un po’ di calore.
Preparerò quella con i fichi secchi e le mandorle.
E sopra, con la glassa scriverò Felice Abbuffata.
“Ciao Amanda, sono Betta… ti disturbo?”
“No, dimmi pure cara, sono dal parrucchiere.”
“Senti bene. Mi ha telefonato Edoardo poco fa.”
“Edoardo chi?’
“Come Edoardo chi… Edoardo il marito, cioè, ex marito di Michelle.”
“E che cosa voleva, quello stronzo?”
“Sta male. Vuole rivedere Michelle e parlarle…”
“Cosa? Dopo tutto quello che ha fatto, avrebbe questo coraggio?
Cosa gli hai risposto?”
“Non gli ho risposto un bel nulla, l’ho lasciato parlare, stava male, ha detto che ha fatto un grosso errore ed ora è distrutto.”
“Be’ si rifà vivo dopo un anno? E non ha il coraggio di parlare di questo con Michelle? Viene da te?”
“Voleva sapere se Michelle frequenta qualcuno…
Gli ho risposto che, sì, forse qualcuno c’era ma non sapevo niente di più.”
“Alludi al fico di ieri sera?”
“Alludo, alludo…
Non potevo mica fargli credere che Michelle è stata ad aspettarlo tutto questo tempo.”
“E cosa ha detto?”
“Ha detto che era giusto così ma che vuole assolutamente rivederla. Stasera da Tony. Con tutte noi.”
“Cosaaa? Ma è impazzito?”
“È quello che gli ho detto anch’io ma non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Stasera verrà.”
“Avverti subito Michelle!”
“Ok.”
***
La torta mi era venuta proprio bene. Gliela ho voluta portare subito.
“Signora Molly… sono Michelle… la vicina…”
“Oh cara arrivo subito.”
La vecchia è venuta ad aprirmi.
“Che bella sorpresa.
Entra cara. Scusa sai, ma mi ero appisolata sul divano.”
“Oh mi spiace averla disturbata.”
“Nessun disturbo cara. Alla mia età si dorme tanto quanto dormono i cani.
Accomodati cara. Cosa ti porta da me?”
“Ho fatto una torta che avrei piacere assaggiasse.”
“Sei molto gentile. Preparo subito un the così possiamo mangiarla insieme.”
“Oh no. Dovrei andare, signora Molly. Mi devo preparare per la cena di stasera.”
“Come vuoi, tesoro.”
All’invito di rimanere, volevo già fuggire. Poi ho aggiunto.
“Però il the, se non le spiace lo prenderei volentieri.”
“Vado in cucina a prepararlo.”
A fatica la vecchia si è diretta verso la cucina.
Sono rimasta nel salottino, non sapendo se seguirla o rimanere in piedi ad aspettare.
Niente pizzi e merletti sui pochi mobili nella stanza.
Niente soprammobili o quadri traslocati da anni di vita.
Tutto essenziale e pratico, scarico di ricordi e storia.
Ho sentito un filo di voce dirmi qualcosa e mi sono diretta verso la cucina.
“Credo ti stia squillando il telefono, cara.
Attraverso queste pareti si sente tutto.”
“Non si preoccupi, signora Molly. Richiameranno.”
Nell’istante in cui ho varcato la soglia della cucina, ho visto la vecchia accasciarsi sopra il piccolo tavolo e trascinarsi addosso le tazze, ancora vuote.
“Signora Molly… Signora Molly…” ho gridato allarmata.
Ho cercato immediatamente il telefono di casa ed ho chiamato un’ambulanza.
L’ambulanza è arrivata.
L’hanno portata via in barella. Mi hanno chiesto se ero la nipote.
Ho risposto prontamente di no.
Stavo tremando. Non ho mai sopportato vedere la gente stare male, perché mi fa stare male. Non ho i nervi saldi e crollo velocemente.
È andata via da sola perché non ero una parente.
Un giovane volontario del 118 mi ha chiesto che cosa fosse successo.
Gli ho raccontato i pochi minuti che siamo state insieme, nulla di più.
Ho lasciato il mio recapito telefonico, caso mai avessero avuto bisogno.
L’hanno portata al Sant’Orsola per accertamenti.
Quando l’hanno portata via, era già più lucida e mi ha stretto la mano con tutta la forza che aveva ancora, per dirmi grazie.
I vecchi che stanno male sembrano ancora più vecchi e fragili.
Non ho avuto il coraggio di toccarla quando è caduta a terra.
Avevo paura di romperla.
Ho preso un cuscino dal divano e glielo ho messo sotto la testa.
Per un attimo ho temuto per la sua vita.
Fortunatamente il 118 ha suonato dopo pochi minuti dalla chiamata.
Ho chiuso la sua porta di casa ed ho tenuto le chiavi.
Sono tornata nel mio appartamento.
La torta è rimasta di là.
Non sono riuscita a rilassarmi. Ho guardato il display del cellulare.
Una chiamata mancata. Betta.
Non ho avuto voglia di richiamare.
“E se andassi a vedere come sta?” Mi sono chiesta.
“Ma no, è in mani sicure. Se dovessero trattenerla, però, non avrebbe neppure il cambio per la notte.”
Non me la sono sentita di entrare nel suo appartamento. Ho cercato una camicia da notte nel mio armadio ed un paio di mutande, ancora imballate che solitamente tengo di scorta e ho deciso di portargliele.
Mentre mi dirigevo verso l’ospedale il cellulare ha squillato.
“Ma dove cavolo sei finita? È un’ora che ti cerco al telefono.”
“Ciao Betta, ora non posso, ci sentiamo dopo.”
“Ma ti senti bene, Michelle? Devo assolutamente parlarti, dove sei?”
“Sono in macchina non posso parlare, ci sentiamo dopo.”
Non riesco a sopportarla quando insiste.
Non ho voluto dirle nulla perché alla parola ospedale, Betta, sarebbe diventata matta. Avrebbe voluto sapere tutto ma io non avevo intenzione di spiegare nulla.
Mi sono detta: «Vado dalla vecchia, vedo come sta, e poi torno indietro.»
[continua]