Non avrei mai pensato di potermi ritrovare, un giorno, a raccontare ad un pubblico così vario quello che è stato il passato di una delle persone che più ho amato e quelli che sono stati gli istanti, i momenti, i giorni più belli della mia vita… Insomma di potermi ritrovare a ricordare quei giorni che hanno lasciato una traccia indelebile nella mia memoria e nel mio cuore.
Forse vi chiederete il motivo per cui una ragazza di diciassette anni decida di impiegare il suo tempo a trasferire su di un foglio bianco tutti i suoi ricordi: quelli più ameni e quelli profondamente tristi; potreste pensare che solo ad un “vecchio” potrebbe affiorare l’idea di raccontare la sua vita, perchè ormai non sa più cosa fare, perchè la sua esistenza si sta esaurendo ed è come se la luce dei suoi anni migliori stesse a poco a poco scomparendo come quella del sole al crepuscolo.
Beh… Io penso e sono convinta che quel vecchio avrebbe sicuramente tanto da raccontare, più di quanto possa fare io che ho alle spalle un vissuto così breve.
È vero che l’esperienza si accresce con il passare degli anni, che è la vita stessa a fortificare moralmente ciascuno, ma ritengo comunque che anche una ragazza giovane possa avere qualcosa da dire e che non sia vero che i giovani non abbiano nulla da trasmettere. I giovani hanno solo bisogno di essere ascoltati… Certo, ognuno ha le proprie sensazioni, il proprio modo di riflettere; ognuno ha idee, paure, gusti e sogni diversi, ma abbiamo tutti bisogno di trovare qualcuno che sia in grado di comprenderci e, perchè no, anche di quei preziosi momenti di solitudine che spesso ci aiutano a pensare al modo migliore di agire in una determinata situazione e, durante i quali, siamo finalmente liberi di vagare con la mente, di dare sfogo all’immaginazione, alla creatività e di dare risposta alle nostre più profonde angosce.
Talvolta appariamo frivoli, poco concreti, per nulla preoccupati del futuro e per niente riguardosi nei confronti di persone fragili, deboli, anziane o semplicemente poco più grandi di noi… Frequentando i miei coetanei devo ammettere che in alcuni casi gli aggettivi che ci vengono attribuiti non sono del tutto errati, anche se non trovo corretto che si debba sempre generalizzare.
Ognuno è un caso a sé, è la propria storia, proviene da una situazione economica, educativa e familiare diversa ed è dunque impensabile che ogni essere sia uguale ad un altro… Per fortuna! Tutto sarebbe monotono, piatto, bianco o nero ed è invece così bello che esistano varie tonalità di colori!
Ho deciso così di aprire la cassaforte che conserva la mia interiorità, senza più portare il peso di ricordarne la combinazione! È come se la mia memoria l’avesse rimossa ed avesse voluto dare libero sfogo a ciò che Serena pensa e ricorda, a ciò che Serena, minuscolo tassello dell’Universo, ritiene importante.
A quanto dice mia madre, la nascita di mio fratello, più grande di me di undici anni, e poi la mia, avvenuta diverso tempo dopo la morte del nonno che non ho mai conosciuto, hanno rappresentato un raggio di luce sfavillante ed un momento di immensa gioia per nostra nonna.
Per quanto io possa ricordare di lei, so che era una donna molto fragile, con mille ansie e paure che inconsciamente rischiava di trasmettere ai suoi figli e a noi nipoti… Era questo il suo unico lato negativo; per il resto posso affermare con certezza che, dai racconti dei miei zii, di mia madre e dalla mia esperienza diretta, è sempre stata una donna molto affettuosa, protettiva, umile e di sani principi e vorrei che fosse qui per farla sorridere, come solo io riuscivo a fare quando ero bambina.
I pochi anni che ho trascorso con lei mi hanno segnata profondamente, li porterò con me, così come ricorderò per sempre ciò che mi è stato raccontato della sua vita…
Finalmente la scuola era terminata e, come ogni estate, i bambini si ritrovavano a giocare presso il grande piazzale della Chiesa di Meolo, un paesino situato presso la pianura vicina alla laguna veneta ed abitato da gente cordiale, che non perdeva occasione per chiacchierare con chiunque.
L’estate del 1938 fu particolarmente calda e dalla lontana laguna, con il sorgere del sole, si vedeva comparire una fitta nebbia che, a poco a poco, andava a ricoprire l’intero paese.
I bambini, tuttavia, noncuranti della calura e delle raccomandazioni dei genitori, continuavano i loro giochi.
Maria era una bimba minuta, dai grandi occhi blu cristallino e dai capelli castani, lunghi e ricci, raccolti in due spesse trecce. Pareva una bambola di porcellana: la pelle dal candore delicato della camelia, con due guanciotte rosee e delle labbra così perfette da sembrare dipinta a mano. Era buona, ubbidiente e diligente nel dovere scolastico. Non aveva fratelli, né sorelle, ma tanti amici con i quali condivideva il tempo più bello della sua vita.
Da quello che mi è stato raccontato era anche molto fortunata per quei tempi, perchè a casa sua non mancava certo il necessario, anzi abbondava quasi il superfluo.
In un barattolo sulla credenza c’erano sempre delle mentine che piacevano tanto a suo padre e nella dispensa barattoli di marmellata di ogni tipo e stecche di cioccolata regnavano sovrani.
D’accordo con sua madre, Maria usciva ogni pomeriggio e raggiungeva il fatiscente casolare della sua amica Ginetta per portare la merenda a lei ed ai suoi otto fratelli, che l’attendevano con frenesia, pregustando le leccornie che avrebbero ricevuto, visto che le condizioni miserevoli della loro famiglia non gliele permettevano.
Ginetta era la sua amica del cuore, a cui confidava i suoi segreti e per la quale provava una sana invidia, in virtù della numerosa famiglia e dell’indipendenza che aveva.
Quell’estate rappresentò il momento più bello della vita di Maria. La bimba non sapeva ancora quale tiro la sorte le avrebbe giocato e, per questo motivo, assaporava ogni attimo della giornata, come fosse una prelibatezza.
Suo padre ritornò verso i primi di luglio da un viaggio in Africa, dove aveva girato un servizio giornalistico sulle condizioni di vita della gente locale, accompagnato da un reporter di Padova, molto colto e perspicace e il cui aspetto robusto e vigoroso destava simpatia ed ammirazione.
Insieme avevano girato villaggi abitati da povera gente e, durante una loro tappa, avevano conosciuto un uomo che aveva perso l’intera famiglia. Gli rimaneva solo la compagnia di una scimmietta che, però, avrebbe dovuto abbandonare per allontanarsi dal villaggio e cercare fortuna in città.
Il reporter non ci pensò troppo, offrì del denaro all’uomo e prese con sé la scimmia, sapendo che a giorni sarebbe rientrato in Italia e che a casa aveva un ampio giardino, nel quale il primate avrebbe potuto vivere liberamente.
Giunti a Meolo, i due compagni di avventura si recarono prima in ufficio per posare il loro reportage e visionare la corrispondenza.
Tramite un telegramma il reporter ricevette l’amara notizia circa le gravi condizioni di salute in cui versava suo fratello e, quindi, si rendeva necessario che ripartisse immediatamente per assisterlo.
Chiese così al padre di Maria se poteva prendersi cura della scimmia fino al suo rientro.
Il signor Stefano, era questo il nome del padre della bambina, diede subito la sua disponibilità e così tornò a casa in compagnia del simpatico animale.
Maria era radiosa: «Papà, non avresti potuto farmi un regalo più bello!» urlò con gioia… Poi portò subito a far conoscere la scimmia al suo cane Troschi che, dopo aver abbaiato per un bel po’, ritornò a dormire nella sua cuccia.
Funny era proprio una scimmietta dispettosa; andava a rubare il cibo dalla ciotola del cane, saliva sugli alberi e gli lanciava di tutto: frutta, rami, persino sassi che raccoglieva a terra per farli cadere dall’alto con più vigore, tanto da fare veramente male a Troschi.
Se riusciva ad intrufolarsi in casa, correva goffamente verso la tinozza d’acqua, vi immergeva le mani e, imitando Maria mentre si lavava il viso, rovesciava acqua dappertutto.
Si pettinava davanti allo specchio, si nascondeva sotto le coperte e, se nessuno la vedeva, rubava le mentine dal barattolo collocato sulla credenza.
La bambina rideva a crepapelle, cosa che certamente non faceva sua madre, la quale doveva rimediare ai disastri di Funny.
Troschi era diventato pauroso ed introverso e trascorreva le giornate barricato dentro alla cuccia. Trovava un po’ di pace soltanto la sera, quando il signor Stefano chiudeva la scimmia nel magazzino per la notte.
Nel giardino viveva da qualche anno una civetta che si avvicinava a loro quando le davano del cibo; si può dire che in qualche modo facesse parte della famiglia.
Un pomerigio la signora Giovanna, madre di Maria, attinse acqua dal pozzo e vi trovò la civetta morta. La colpa fu attribuita a Funny: solo lei poteva aver rimosso la copertura del pozzo e magari aver dato una spinta al volatile!
Per loro fortuna due giorni dopo arrivò il reporter e riprese la scimmia. Ritornò così la pace in quella casa, anche se Maria rimpianse per parecchio tempo la piccola Funny.
Fu Troschi a tirarle su il morale: ricominciò ad essere il grande giocherellone di sempre e non perse mai d’occhio la sua padroncina. La seguiva dappertutto; forse temeva di perdere il suo affetto o forse voleva proteggerla da un eventuale ritorno della scimmia.
L’estate continuava il suo corso; i campi lussureggiavano di grano e negli orti maturava ogni tipo di frutta e verdura.
Maria procedeva alla raccolta insieme a Ginetta e agli amici e non si accorgeva che anche loro stavano maturando così come i frutti di ogni pianta.
Ormai aveva concluso la scuola elementare e stava per iniziare un nuovo ciclo di studi.
Incontrava quasi tutti i giorni le sue compagne di scuola: Ginetta, Lisa, Pierina; ma, quando vedeva Laura ed Adelina, pensava sempre a quel discorso di qualche mese prima. Eh sì, durante un diverbio si era sentita dire: «Vai pure a dirlo alla signora Giovanna, tanto non è tua mamma e quindi non ti capirà!».
Aveva preferito non chiedere loro il significato di quelle parole, forse per timore di conoscere un’amara verità. Aveva riposto quella frase in un angolo della sua mente e del suo cuore ma, vedendo le sue compagne, si sentiva percorrere il corpo da un brivido freddo.
Allora tornava a casa pensierosa; si scrutava davanti allo specchio per cercare qualche somiglianza con la mamma Giovanna, ma si sentiva sempre più uguale alla zia Angela, che veniva a trovarla un paio di volte all’anno da Valmareno, un paesino del Trevigiano.
Stessi occhi blu, stessi capelli, uguale minuta rotondità del viso e stesso portamento un po’ contadino, al contrario di quello della mamma Giovanna, che pareva una ricca dama dell’Ottocento.
Quando la sera Maria si rinchiudeva nella sua stanza, si distendeva sul letto, le mani sotto il capo e lo sguardo rivolto verso la luna, cercando in quell’astro luminescente una risposta al suo atroce dubbio.
Una notte sognò una casa diversa dalla sua, povera ma accogliente, con il focolare acceso e la zia Angela intenta a leggerle un libro di racconti, mentre lei la osservava tanto vicino, da notare i lineamenti del viso così uguali ai suoi.
“D’altronde è mia zia!” esclamò al risveglio e si convinse che quella somiglianza fosse comunque dovuta a quel minimo legame di sangue che intercorreva fra le due.
Altro che minimo legame! Gli eventi che si susseguirono furono testimonianza di una scoperta sconcertante.
Cercava quindi di evitare la compagnia di Laura ed Adelina, per non soffrire troppo e per non essere assalita da continui dilemmi.
Tuttavia, dopo un’ennesima calunnia ricevuta dalle due amiche/nemiche, mentre passeggiavano nel prato dove lei stava raccogliendo dei fiori, Maria sfogò la sua ira prendendole a calci.
La schernivano perchè voleva portare un pensiero floreale a sua madre… «Ma quale mamma!» sogghignavano le ragazze «Faresti meglio a raccogliere il miglio per i canarini!
Forse le avessero dato uno schiaffo, l’avrebbero ferita di meno. La cattiveria di quelle due aveva raggiunto il limite di sopportazione di Maria e aveva scosso impetuosamente il suo animo gentile. Alla sua benevolenza si sostituì uno smisurato desiderio di vendetta e i suoi piedi si scagliarono, incontrollati, su ogni parte del corpo delle malcapitate che, pur difendendosi, ebbero la peggio.
Quando Maria rientrò malconcia a casa, non chiese chiarimenti alla mamma e tantomeno questa volle delle spiegazioni dalla figlia. Forse la signora Giovanna aveva intuito il tutto e preferì soprassedere sull’accaduto.
Era giunto ormai il mese di agosto e finalmente il signor Stefano poteva riposare un po’ dopo la stanchezza accumulata durante un anno di lavoro.
Amava molto la lirica e così decise di andare con moglie e figlia a Venezia per assistere alla Bohème.
Maria non aveva mai visto il Teatro dell’Opera di Venezia: luci e personaggi brillavano sul palcoscenico; tutto sembrava una magia per una bambina che da poco sorrideva alla vita, ma a lei, sinceramente, non importava più della preoccupazione di aver lasciato Ginetta e di aver dato il suo Troschi in custodia ai vicini di casa.
Mentre “la gelida manina di Mimì” ricadeva esanime dal letto collocato sul palcoscenico, Maria, con le lacrime agli occhi, chiese a suo padre di fare subito rientro a Meolo.
La miseria dei giovani interpreti della Bohème l’aveva ricondotta a quella della povera Ginetta. «Come ho potuto lasciarla sola per venire a Venezia, mentre lei e la sua famiglia non riescono a far quadrare il pranzo con la cena! E Troschi, poverino, starà digiunando, a causa della mia assenza?»
Quando presero la corriera per tornare indietro, Maria era certa che avrebbe trovato il suo cane ad attenderla alla fermata. E così fu… «Caro, caro il mio Troschi! Ed io che ti avevo trascurato per Funny! Non ti lascerò più! Te lo prometto!».
Il loro legame si rafforzò ancora di più dopo quel viaggio e a settembre correvano felici lungo i filari nelle vigne.
Il sole caldo di quell’anno aveva anticipato la maturazione dell’uva; i grappoli rigogliosi di chicchi nettarini attendevano di riempire i tini di rovere, nei quali trasformarsi poi in vino bianco e frizzantino, tipico della zona.
La raccolta fu abbondante e i bambini correvano e cantavano insieme ai grandi, assaporando l’uva, i fichi ed il pane sfornato dalle mani esperte delle loro mamme.
Venne ottobre e iniziò una nuova avventura scolastica per Maria e per le sue compagne, che al mattino aspettavano insieme, con l’ansia di arrivare in ritardo, la corriera che le avrebbe condotte a scuola.
Maria non aveva alcun problema di apprendimento e così aiutava le sue amiche e, in particolare Ginetta, che incontrava maggiori difficoltà.
Le ragazzine dovevano frequentare “il sabato fascista” anche alla scuola media.
Si trattava di una giornata interamente dedicata ad esercitazioni e saggi ginnici, alla quale tutti “i piccoli italiani” dovevano partecipare. I bambini non capivano certamente la realtà del Fascismo e per loro il sabato era una festa, perché non c’era lezione di alcuna materia di studio.
Finalmente giunse Natale: la scuola era chiusa e il piazzale della Chiesa si rianimò grazie alla presenza dei bambini.
La zia Angela arrivò il giorno di Santo Stefano, recando con sè un dolce per l’Onomastico del papà di Maria e per la fanciulla un golf di lana da lei confezionato, un po’ di caramelle ed un soldo per soddisfare qualche piccolo desiderio.
«Come sei cresciuta! Mamma e papà mi hanno detto che sei proprio in gamba a scuola! Brava la mia bambina!». La donna l’abbracciò e, in quel caldo abbraccio, Maria sentì un sussulto, un fremito che le percorse anima e corpo.
Poi la zia Angela e la signora Giovanna si ritirarono in cucina, e, chiusa la porta, iniziarono a discorrere, ma le loro voci erano coperte dal frastuono di piatti, pentole e coperchi e dal crepitio del fuoco.
Maria pregustava la cena che a breve avrebbe consumato e, accoccolata sul divanetto del soggiorno vicino al suo papà, lo seguiva nel racconto dei tanti viaggi che egli aveva intrapreso in passato.
La porta si aprì; al centro del tavolo troneggiava, fumante, la polenta di farina bianca contornata dai salamini di fegato di maiale. Poco più in là, dalla zuppiera fuoriusciva lo stuzzicante aroma della trippa con fagioli. La zia Angela aveva portato da Valmareno questi prodotti caserecci per soddisfare la golosità di Maria e li aveva cucinati con gran compiacimento della signora Giovanna che la osservava.
La serata fu piacevolissima, i commensali mangiarono con appetito, sorridendo nel vedere Maria che, anche se sazia e con la bocca ancora impregnata di sugo, continuava a versare della trippa nel suo piatto. Questo era l’escamotage della bimba, per attirare l’attenzione su di sé, al fine di vedere meglio in viso la loro gradita ospite.
La zia Angela ripartì tre giorni dopo e ai primi di gennaio riaprirono le scuole.
Il tempo trascorse velocemente e arrivò la primavera del 1939, con i suoi primi tepori, le gemme sugli alberi ed il reiterato canto degli uccelli, quale annuncio di una stagione tanto attesa, dopo il lungo e rigido inverno.
Giunse anche quel maledetto 24 marzo!
[continua]