Dedicato ai miei genitori:
Clementina Rita Mattiuzzo e Donato Sabetta
Sergio Benedetto Sabetta
Introduzione
Il termine globalizzazione è stato introdotto e diffuso dai centri studi influenzati dall’ideologia neoliberale legati alla regolamentazione del commercio internazionale, è pertanto legato ad una visione positiva del mercato visto come unica espressione autentica di libertà, secondo un approccio post-guerra fredda (Stiglitz) per cui appare essere un processo inarrestabile dagli alti benefici, dove tutti hanno solo da “guadagnare” (Herman).
Accanto se non sovrapposta si è sviluppata una posizione istituzionalista nella quale le grandi istituzioni dell’economia mondiale (FMI, BM) sottolineano l’esigenza della governabilità del processo in atto, nel quale i benefici per gli individui appaiono come la naturale conseguenza della crescente libertà di circolazione delle merci e dei capitali, la libertà si riduce alla libertà delle cose indipendentemente da qualsiasi altro valore che automaticamente dovrebbe nascere da questa circolarità materiale.
Se tuttavia si parte dalla teoria del “sistema-mondo” l’attuale fase non è altro che un ulteriore sviluppo di un processo iniziato nel XVI secolo, dove vi è un succedersi, a centri concentrici, di un rapporto centro/periferia che sebbene possa lentamente mutare nelle aree resta sostanzialmente valido nella struttura del rapporto.
Si crea un’unica economia mondiale nella quale vi è un’unica divisione del lavoro (Arrighi), la ricchezza diventa prevalentemente una remunerazione finanziaria e come tale è accumulabile in aree geografiche protette, con una notevole polarizzazione in elitè transnazionali.
L’estrema fluidità di capitali, beni e persone conducono a tensioni dentro le varie strutture statali nel paradigma della “deterritorializzazione” nella quale scienza, tecnica ed economia creano l’immaginario dei valori propri del progresso (Latouche ) in un rapporto opposto tradizione/modernità.
La compressione spazio-temporale (Harvey) modifica la nostra comprensione del mondo parallelamente al mutare degli scenari economico-sociali in una accumulazione della flessibilità, si crea un paradosso solo apparente per cui al declinare delle barriere spaziali vi è un crescere dell’interesse del capitale alle condizioni del luogo, con la conseguenza della ricerca di un utile nella differenziazione, uno stimolo a creare differenziazioni con un adeguamento alla logica finanziaria, ma la reazione è anche una ricerca di identità qualitativa nel poter porre le proprie merci nella concorrenza globale.
Vi è una produzione globale delle località secondo chiavi idealizzate e immagini globalizzate, se tuttavia questo vale ai fini economici, per gli individui vi è un contrasto tra relazioni a distanza sempre più allargate e diffuse e al contempo la ricerca e costruzione di una propria identità.
La connettività porta al cambiamento del significato della località con un indebolimento del rapporto cultura e luogo, dove appare una commercializzazione diffusa dallo stesso, riappare in altri termini la polarizzazione già esistente tra classi sociali elevate con la loro rappresentazione cosmopolita e il radicamento locale dei più svantaggiati (Friedman).
La globalizzazione presenta caratteristiche differenti a seconda del punto di vista, tanto che per gli stessi Stati i risultati cambiano a seconda delle proprie caratteristiche in cui fallimenti e vantaggi si alternano, come ha sostenuto Abelès la globalizzazione va vista non solo in termini economici, politici e tecnologici ma anche culturali al fine di coglierne la multidimensionalità.
Le migrazioni attuali rispetto a quelle europee del XIX-XX secolo evidenziano una composizione sempre più complessa dei flussi migratori, una alta componente femminile e un massiccio intervento politico-amministrativo per rallentarne e regolamentarne i flussi, questi interventi, pur dettati dalla necessità di evitare un anarchismo su territori già densamente popolati e strutturati, possono condurre a produzioni giuridiche di illegalità che favoriscono uno sfruttamento criminale degli stessi, come una eccessiva tolleranza senza regole conduce a relazioni tese tra popolazione autoctona e immigrati.
La governabilità del fenomeno passa dalle tensioni di un imperativo territoriale, che si manifesta come un fondamentalismo culturale o etnico-statale, ad un buonismo assoluto, che nel concepire un umanesimo totalizzante, tende a evitare di considerare le problematiche relazionali e strutturali di sostenibilità, che comunque vengono ad investire qualsiasi organizzazione da un punto di vista sociale ed economico.
Il concetto di cittadinanza è in stretto rapporto con quello di identità nazionale e presuppone l’adesione su alcuni valori fondamentali senza i quali possono innescarsi meccanismi di esclusione o repulsione, come la creazione di una serie di simboli atti a creare barriere di appartenenza in contrapposizione alla comunità ospitante, fino a condurre i gruppi a conflitti violenti o semplicemente ma preliminarmente ideologici.
La pedagogia dell’inclusione diventa pertanto fondamentale se si vuole costruire una comunità solida nei valori e nelle relazioni, con una conflittualità contenuta, dove vi è il rispetto delle tradizioni altrui ma anche una identificazione storica nei valori comuni che hanno dato forma alla comunità.
Deve considerarsi che le problematiche si manifesteranno in tutto il loro potenziale solo con le seconde e terze generazioni, quando nel realizzarsi uno sradicamento completo non segue l’identificarsi con la nuova realtà, senza più avere l’originaria identità a cui riferirsi.
Il soggetto può quindi scivolare o verso forme di criminalità, magari etnica, o verso radicamenti identitari fanatizzati facilmente manipolabili da terzi, recentemente ai flussi migratori per motivi economici, si sono aggiunti i flussi a seguito di conflitti armati nell’Europa stessa.
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Analisi dei flussi migratori
Composizione e dinamiche
Le migrazioni umane iniziate tra i 50.000 e i 60.000 anni fa non sono mai cessate (Wade), quello che vi è attualmente sono i supporti tecnologici e la complessità di sistema che sorreggono gli ampi gruppi umani all’interno delle nazioni e tra le nazioni stesse.
Le difficoltà di equilibrio sono quindi aumentate anche se parallelamente il livello a cui rapportarsi nella tollerabilità di sistema è anch’esso immensamente aumentato.
Quella che è aumentata non è solo la capacità tecnologica e la relativa premessa culturale, bensì i numeri a cui fare riferimento, da piccoli gruppi a crescenti flussi umani con il conseguente problema della sostenibilità ambientale dello sviluppo su terre sempre più antropizzate e sfruttate, dove la pressione demografica avviene su aree scarsamente sviluppate e sconvolte da instabilità che ne mettono in dubbio la possibilità dell’assorbimento, con il conseguente effetto dei vasi comunicanti (AA.VV., Strategie per la terra, in Le Scienze, numero speciale 447,11/2005).
La frammentazione dell’approccio che ha avuto l’U.E. contiene in sé una valutazione qualitativa dei flussi, non tutti sono uguali per cultura e ricchezza, vi è quindi una minore o maggiore facilità di inserimento e di crescita economica.
Accogliendo una qualità superiore si scaricano i costi e i problemi sugli altri, creando in prospettiva comunità che, oltre alla produzione di ricchezza interna, manterranno stretti rapporti con aree geografiche strategiche su cui esercitare una forte influenza. In questo la presenza di comunità già radicate e di welfare ben strutturati permette di attirare e filtrare, entra in gioco la saldezza del sistema che permette di avere un margine di sostenibilità più ampio, il quale deve imporre un concetto di diritti/doveri necessari a mantenere la qualità al fine di ridurre le tensioni inevitabili.
La migrazione che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni ha cambiato in parte composizione, dalla motivazione economica è passata alla ricerca di un rifugio da persecuzioni e conflitti, da migrante economico a rifugiato/profugo con forti elementi economici, si può dire che il flusso relativo all’immigrazione per motivi economici è addirittura in controtendenza causa il prolungarsi della crisi.
Coloro che entrano tendono a proseguire verso gli Stati del Nord Europa dove più forte è il welfare e vi sono comunità già radicate che possono accogliere e inserire per il lavoro (Impagliazzo, Naso); attualmente in Italia l’integrazione è avvenuta diffusamente in forma familiare, con un comportamento ondivago delle istituzioni che hanno preferito molte volte astenersi, lasciando il compito al sociale con i pro della flessibilità e i contro del possibile affarismo.
Attualmente è in corso una quarta globalizzazione che si sovrappone alle tre precedenti del Cinquecento e dell’Ottocento dall’Europa verso i Nuovi Mondi e della fine Novecento verso l’Europa Occidentale per motivi economici, la crisi ha ristretto le politiche di accoglienza dei Paesi più ricchi nonostante siano rimaste elevate le pressioni migratorie.
Vi è un caleidoscopio di normative atte a una maggiore selezione e a controlli più rigorosi, le tensioni determinate dall’incrocio della crisi con l’affluire di culture diverse in territori già ampiamente antropizzati, hanno fatto sì che le politiche migratorie delineate dal “piano di Stoccolma” per il quinquennio 2010-2014 si siano rivelate inattuabili, necessarie di un ripensamento sia del trattato di Dublino sia della capacità non solo di filtrare ma anche dell’Europa Unita di proiettarsi su teatri di crisi da cui provengono i flussi più consistenti (Livio Bacci).
La crescita demografica dei paesi africani affacciati sul Mediterraneo e sub-sahariani unita alla crisi economica e militare che coinvolge anche i Paesi del Medio Oriente e dell’area dell’Afganistan/Pakistan, a cui si è aggiunta quella, prima strisciante, ora esplosa anche sui mass-media dei territori dell’ex URSS, ha determinato una spinta che si ritiene possa durare fino a metà del secolo.
I vari tentativi compiuti in ordine sparso dagli Stati europei si rivelano di per sé insufficienti senza un adeguato obiettivo comune, i tentativi di scaricare il problema sugli Stati confinanti si risolvono addirittura in perdite di credibilità del singolo Stato se non di rafforzamento di giudizi negativi già preesistenti, come nel caso italiano in cui per aggirare le più restrittive norme di Dublino si sono evitate deliberatamente le necessarie identificazioni dei migranti.
Situazione che si è recentemente ripetuta nella galassia balcanica (Dattori), intensità e velocità dei flussi devono quindi essere in qualche modo governate al fine di ottenere in periodi ragionevoli delle integrazioni che permettano la formazione di nuove cittadinanze consapevoli, tenendo presente l’estrema fluidità del processo che può variare sia nei percorsi che nelle direzioni Sud-Nord, Est-Ovest ma anche in senso inverso.
D’altronde il welfare che attrae può essere alimentato dalla crescita economica determinata dall’apporto lavorativo e di iniziativa dei migranti, ma anche compromesso nel suo livello qualitativo da un eventuale, “turismo del welfare” interno ad un’Europa senza frontiere, con protagonisti profughi, mendicanti rom e immigrati extracomunitari che spesso non lavorano, ma riescono a sopravvivere con i sussidi statali …. Un tema che solleva dilemmi politici (K. Wiedswang, Benvenuti ma non troppo: il welfare scandinavo alla prova dei migranti, 114, in Limes, Rivista Italiana di Geopolitica, giugno 2015).
Si parla di primavera araba rifacendosi in termini similari al 1848 in Europa, nella realtà vi è una eccessiva semplificazione in quanto i processi elettorali hanno portato al potere partiti confessionali e non “laici”, il termine “laico” è piuttosto legato a dittature filo-occidentali, per non parlare dei problemi di stabilizzazione strategici e geopolitici dell’Europa Orientale.
Si è creata una dimensione politica che assomiglia alla Guerra dei Trenta Anni da cui possono emergere, come allora, nuove forme politiche statuali, si tratta quindi di una lunga fase di transizione e di instabilità che crea e facilita il passaggio di flussi incontrollati, dove predomina violenza e confessionalismo, gli interventi di stabilizzazione sono pertanto complicati e lunghi come i tempi necessari per creare nuovi consensi. (Istituto Strategico Alti Studi della Difesa, Convegno sul Contesto Strategico del Mediterraneo Allargato, 28 gennaio 2014, Roma).
I problemi della comunicazione
Il linguaggio è uno dei primi problemi che si presentano all’immigrato, il comunicare sentimenti e paure come il percepire i valori che la lingua contiene in sé, vi è un dibattito tra relativisti e universalisti sull’influenza o meno che la lingua esercita sui nostri comportamenti.
Chomsky riconosce nel linguaggio delle radici universali per tutti gli esseri umani dove al contrario, secondo l’ipotesi di Sapir-Whorf, il linguaggio influenza il pensiero non solo categorizzando cognitivamente il mondo ma dando un valore diverso al succedersi temporale degli eventi, ferma restando la personalità e il modo di pensare (Sgobissa), “suggerendo che il linguaggio si sia evoluto per sopravvivere in un ambiente definito dalla natura del cervello umano” (Solè, Corominas – Murtra, Fortuny, Reti, Parole e complessità, 41, in Mente & Cervello, n. 109, ed. Le Scienze, 1/2014).
In questa costruzione del senso anche il luogo in cui si cresce o si risiede per lunghi periodi acquista una propria identità, le cui caratteristiche conferiscono allo stesso significati unici la cui perdita crea un vuoto e la necessità del riadattamento del senso oltreché relazionale. L’omologazione, la standardizzazione dei non-luoghi, la mobilità esasperata propria della globalizzazione portano alla perdita di questa unicità ancor più grave per coloro che sono privi delle necessarie risorse concettuali (Sabato).
Quando una persona viene ad identificarsi con un gruppo lega se stesso ai destini della comunità vivendo i successi e i fallimenti della stessa come una proiezione sul proprio Io, questa identificazione può avvenire sia con un’impresa che con comunità locali o più ampie, fino a comunità virtuali. Tre sono gli elementi alla base del fenomeno, l’identità personale del singolo, l’identità percepita e il processo cognitivo di identificazione, vi è in esso la soddisfazione del bisogno di autostima e al contempo la riduzione dell’incertezza (Bergami).
L’appartenenza al gruppo indipendentemente dall’aspetto morale dà un senso al sé, alle relazioni con gli altri e con il mondo intero, esso fornisce riferimenti chiari, certi e utili nell’incertezza del cambiamento, tuttavia nell’allargarsi includendo vi è il pericolo del frazionarsi e dell’annullamento degli elementi distintivi, con la conseguente difficoltà di includere l’identità dei gruppi nell’identità istituzionale che li ricomprenda (Perrone), il rischio è che avvenga un’incomunicabilità che conduca alla non-appartenenza (Anders).
Già nell’azione dei mass-media vi è stata una estremizzazione del problema, o in senso allarmistico per fini politici e di ascolto commerciale o con un pietismo che non inquadra l’evolversi dei fatti, solo recentemente si è incominciata a creare una immagine più completa con i pro e i contro, con l’emergere degli interessi sottostanti e delle forze che agiscono sui flussi.
L’agire in ordine sparso dell’U.E., senza una chiara politica verso la sponda sud del Mediterraneo e il Medio Oriente ha creato non solo dei problemi politici ma anche di comunicazione interna alle stesse nazioni, vi è quindi la necessità di controllare i flussi dando all’opinione pubblica il senso di sicurezza necessario, intervenendo reattivamente nei punti di crisi, come nei tentativi di un uso criminale degli immigrati o negli addensamenti non controllati. A questi si sono aggiunti i recenti problemi del conflitto in Ucraina, con la conseguente redistribuzione e integrazione, una volta superata la fase emotiva sostenuta dai mass-madia.
Si deve considerare che ogni comportamento ha un valore di messaggio a cui segue comunque una risposta (Scuola di Palo Alto), non vi sono solo le parole ma anche i fatti non verbali come il linguaggio corporeo, a cui si aggiungono i segnali comunicativi provenienti dal contesto nel quale avviene la comunicazione.
Watzlaweick, Beavin e Jackson hanno quindi elaborato i seguenti cinque assiomi relativi alle dinamiche interpersonali:
•● È impossibile non comunicare;
•● Ogni comunicazione ha due livelli trasmettendo informazioni e imponendo comportamenti;
•● Ognuna delle parti costruisce una visione soggettiva della situazione (punteggiatura) in una comunicazione prolungata (sequenza di comunicazione), sorgono pertanto varie “verità”;
●•● Si comunica sia nei termini sintattici e semantici dei codici utilizzati (modulo numerico) che non verbale, per questo fortemente ambiguo se non già codificato in comunità (modulo analogico);
•● Lo scambio comunicativo avviene o in termini simmetrici, paritari, o in termini complementari, gerarchici.
A fianco delle comunicazioni formali vi è la comunicazione informale, il passa parola comunica non solo esperienze e informazioni rapidamente ma anche stati emotivi creando il senso di una organizzazione, riducendo l’ansia derivante dalla presenza di incertezza e ambiguità. In esso vi è comunque il pericolo del diffondersi di false informazioni, di interpretazioni deviate, ma nella maggioranza dei casi sono fondate e sufficientemente accurate.
Accanto alla comunicazione formale e informale vi è anche una comunicazione che si realizza attraverso linguaggi specifici dell’organizzazione, quali gergo, slang, gesti, segnali, metafore e humor a cui si affianca l’uso dei simboli quale comunicazione della cultura individuale e organizzativa, che può dare luogo a una condivisione e allo stesso tempo ad una differenziazione di status e potere necessario, se correttamente usato, alla coesione organizzativa (Tosi-Pilato).
Mentre i tratti della personalità sono relativamente stabili gli atteggiamenti possono mutare, vi è quindi un confluire tra valori ritenuti importanti e credenze riguardo ad un oggetto o referente, che dando luogo al comportamento hanno un ritorno circolare a seguito dei risultati ottenuti, può sorgere pertanto una dissonanza cognitiva quando vi è conflitto tra comportamenti da assumere e propri valori, questo anche nell’ipotesi di aspettative disattese.
Nell’apprendimento interviene la percezione che risulta in parte legata ad eventi e oggetti ma che in termini biunivoci è influenzata dal modo di apprendere stesso, i giudizi che ne derivano possono trasformarsi in stereotipi le cui distorsioni, fisiologiche o formulate ad arte, vengono a turbare i rapporti relazionali e i giudizi che si formulano sul comportamento altrui, da Heider attribuiti a fattori interni (disposizioni) o fattori esterni (situazioni), in questi può sorgere un errore di attribuzione fondamentale (Tosi-Pilato).
Vi è comunque alla base un fattore culturale appreso nel contesto sociale in cui la persona ha vissuto, i processi di socializzazione forniscono valori di base e credenze dando omogeneità alla comunità, che si risolvono nel significato da attribuirsi nei più rilevanti valori del lavoro, della gerarchia e dell’orientamento al potere, con la creazione di stereotipi culturali necessari per una veloce classificazione ma al contempo devianti e non semplici da modificare.
[continua]