Dedicata ai miei genitori, Donato Sabetta e Clementina Rita Mattiuzzo, ai loro genitori,
ai fratelli, nonché a tutti coloro che passarono per le guerre del Novecento e la ricostruzione dell’Italia.
Introduzione
La violenza è insita nell’uomo in termini evolutivi come la collaborazione, il rapporto tra questi due opposti crea il successo – fitness sociale – o l’insuccesso dell’individuo o del gruppo.
La collaborazione d’altronde nasconde in sé il pericolo del parassitismo, dello sfruttamento, nasce quindi la necessità di una violenza repressiva calibrata in una regolamentazione giuridica che, nell’estendersi della complessità sociale, acquista una specializzazione sempre più spinta fino a perdere di vista la complessità dell’essere, sfogliato e frantumato in singoli aspetti in cui si esalta di volta in volta l’elemento che interessa, nel prevalere di un concetto economico-finanziario quale sublimazione della violenza fisica trasformata in una violenza psicologica, ma del tutto reale, rischio di un possibile rapporto diritto/arbitrio.
Già Sorel esalta la violenza come espressione della volontà fondata sul mito nella lotta fra classi, una violenza che è guerra fra classi nella distruzione della struttura sociale borghese esistente, fondata anche essa sulla forza.
È il mito sociale che appassiona le masse e crea l’azione necessaria per la violenza sovvertitrice, non la violenza spicciola, singola, né l’utopia riformatrice assicura un rinnovamento sociale profondo, in un discorso che vorrebbe superare i limiti dei rapporti sociali in cui la volontà agisce.
Vi è un richiamo alla volontà di potenza in cui il superuomo di Nietzsche diventa una comunità, la classe sociale lo identifica e lo alimenta nel mito, ma vi è un difficile equilibrio tra la volontà del singolo, alimentato anche da forme commerciali, di superare i limiti che costumi, leggi e tradizioni impongono con la necessità dell’omeostasi che la società ricerca e necessita in un possibile divenire, nel sempre precario equilibrio della storia.
Lo spezzare che la ricerca del superuomo impone è atto di violenza, come lo è la forza repressiva che la società esercita nell’autoconservazione, una violenza che è molte volte sublimale, fondata su un quotidiano martellamento, la stessa violenza che si ritrova nei singoli rapporti familiari o di comunità semplici, è nella giustificazione della stessa violenza che nasce l’ambiguità della mistificazione.
Buber parla di una possibile conoscenza del bene e del male solo nel trovare in essa una antiteticità, sempre latente in natura, che irrompe nella realtà quotidiana.
La scelta a cui l’essere è obbligato può mancare a causa di una mistificazione quotidiana, l’indecisione diventa di per sé una “decisione a favore del male”, nel negare l’esistenza dell’antiteticità in quella che Buber definisce “caoticità del possibile”, secondo gli attuali modelli culturali ed economici.
Non è solo dal contrasto con il male che si rende riconoscibile il bene, è anche dal contrasto con la violenza che si rende riconoscibile il bene quale concordia, ma la decisione è quotidiana nel continuo dovere separare il ripetersi delle mescolanze di verità e inganno, una fatica continua che porta alla non decisione.
Ogni atto o pensiero umano quale parte della natura ha necessità della “forma”, di acquisire una visibilità giustificativa che viene a porsi in alternativa ad altre “forme”.
“Essa nel momento del suo prodursi pretende (e nelle sfere puramente spirituali ancora più visibilmente che non in quelle economiche) una validità superiore”, che Simmel ritiene essere alla base del continuo conflitto tra vita e forma, ma la forma pone anche la giustificazione del suo essere e in questo si pone tra necessità e mistificazione.
Nietzsche nel parlare di “puntuazione di forza” richiama l’affermazione di Spinoza per cui l’esistenza è di per sé potenza, una potenza non omogeneamente distribuita che in quanto tale può diventare sopraffazione, violenza, ma anche all’opposto potere benefico (Kratos) necessario all’equilibrio della comunità, pertanto la forza è necessaria al potere ma non è di per sé arbitrio, lo diventa quale violenza dall’uso che se ne fa.
Il discrimine tra sopraffazione e governo benefico nasce anche dalla possibile mistificazione che giustifica l’uso della forza; l’ingannare, il nasconderne le finalità, il travisare, permette l’arbitrio che la violenza incarna, il peccato di onnipotenza di cui la violenza ne è espressione, la mistificazione diventa agguato, inganno quale possibile premessa nel giustificare la violenza stessa.
La violenza mina la società, diffonde nell’uso della mistificazione il sospetto e la sfiducia reciproca, come al contrario il giusto potere fornito della necessaria forza diventa “un principio di moderazione degli egoismi” (21, S. Natoli, Kratos: Potere e Società, Ed. Albo Versorio, 2015), nasce la necessità di interrogare in continuità il potere per evitare che diventi autocratico e che violenza debba opporsi a violenza.
Possibilità che nel momento storico attuale si tende a negare mediante la privatizzazione delle attività pubbliche, con il partenariato pubblico-privato su scala globale (GPPP). (E. Longobardi, Di fronte ai vincitori globali, l’esigenza di una nuova politica, 95, in AA. VV., a cura di F. Zappacosta, Il senso umano delle cose, L’asino d’oro, 2021).
La virtù relazionale della moderazione, considerata attualmente un difetto, nell’entrare nel potere pone la capacità etica di porsi nell’altro e riduce la necessità dell’obbligazione giuridica, a cui attualmente la società stessa continuamente si richiama nel cercare di superare i sempre presenti rapporti conflittuali, “quasi che l’aumento della legi-slazione producesse la virtù dei soggetti” (37, S. Natoli, Kratos: Potere e Società, Ed. Albo Versorio, 2015).
Non vi è nell’individuo una semplice successione di accadimenti ma la ricerca di un destino che crei una storia, una storicità dell’esserci, il modo di essere nel corso del tempo, vi è quindi un disvelarsi che può assumere i termini dell’atto o del pensiero violento, ossia della forma della violenza.
Così stando dentro all’evento l’individuo appartiene all’evento temporale, ma la violenza non può essere fine a se stessa e come tale deve essere giustificata unendola, mescolandola con il bene dell’individuo nella comunità, la violenza crea l’adesso, l’ora, rallenta lo scorrere del tempo, l’eterno ritorno del pensiero al momento, essa diventa destino dell’Io.
Il racconto mistificatorio la giustifica, la fa diventare necessaria e consolatoria, se “noi non possiamo mai rappresentare l’evento come un qualcosa di fronte a noi”, non possiamo nemmeno rappresentarla “come ciò che tutto abbraccia e ingloba” (29, M. Heidegger, Tempo e essere, Longanesi, 2007), vi è pertanto la necessità di una normalità della violenza quale parte dell’essere, astraendola solo nel momento della sua spettacolarizzazione.
Nella ricerca di una normalità della violenza vi è il riconoscimento come semplice accettazione del potere, con un passaggio dall’ideale al reale, dalle possibilità alla certezza della realtà del vincente.
La violenza non esprime quindi più il male ma la semplice realtà quotidiana, acquista un proprio valore, come rilevato da Arendt nella banalità del male, in cui il volto del singolo si scioglie nella massa anche se apparentemente valorizzato.
Vi è quella che De Monticelli definisce come “auto destituzione del soggetto morale” in una solubilità della coscienza, che permette al singolo l’auto-assolvimento nel suo agire quotidiano identificandosi con il bene di così fan tutti, nella necessità di un male minore che proprio nel combattere il male maggiore acquista la valenza del bene, in una mescolanza tra bene e male nell’indefinito rapporto tra verità e falsità, sì da sfumare la virtù in una imprecisata menzogna, che si risolve nella quotidiana mistificazione del male, riconoscibile solo a posteriori nella sua valutazione storica dei risultati, viene meno la capacità critica della prova e degli errori.
La mistificazione della realtà, nel giustificare la violenza fisica e psichica, crea le premesse di un nichilismo giustificazionista, in cui, come afferma Nietzsche, l’intelletto “spiega le sue forze principali nella finzione“ ricercando l’utile nell’inganno, solo il progressivo caos relazionale che ne consegue, creando uno stato di lotta permanente, lo induce alla “verità”.
Sorge il contrasto tra verità e menzogna e la necessità di superare il puro nichilismo dell’inganno, lo sprofondare della società nella violenza autodistruttiva obbliga alla ricerca della “verità”, anche se limitata e puramente umana, molte volte illusoria sebbene, come sottolinea Nietzsche, ci dimentichiamo di tale natura.
Vi è la necessità di superare il puro nichilismo cosmologico che il negare l’esistenza dell’Ente superiore e l’identificarsi nella sola natura della nostra animalità sembra condurci, Lowith riconosce nella natura umana l’intrinseco rapporto tra essenza spirituale e animalità.
Vi è pertanto una problematicità in questa connessione che induce l’individuo a interrogare il mondo in tutta la sua essenza e nelle sue manifestazioni, nell’interrogare egli stesso ne diventa un problema e viene a porsi di fronte alla propria violenza, ad essere mistificatore della violenza stessa, il male subito nella violenza diventa motivo di interrogazione e riflessione.
La seconda natura che è per lui l’artificio del techne, nell’esaltarne le possibilità viene a coinvolgerne tutte le sue espressioni, dalla violenza, alla mistificazione, alla riflessione, dove la natura umana ne è al contempo limite e oggetto di pensiero codificato ed esprimibile attraverso il linguaggio, che diventa mezzo di sopraffazione ma anche di salvezza, possibilità di un relazionarsi nella coscienza e nei propri limiti.
[continua]