CAPITOLO PRIMO
Guardavo nello specchio e non vedevo la mia figura riflessa, era come se fossi trasparente. La mia vita ruotava tutta intorno alle voci che venivano dalla stanza accanto. Mi piaceva ascoltarle, ma in quel momento, alle sette del mattino, riuscivo solo a sentirle senza comprenderne le parole. Non ero così stanca, ma la noia dei giorni uguali mi aveva tolto l’entusiasmo di godere ogni attimo dei miei figli. Quando l’acqua mi bagnò il viso mi risvegliai dal torpore e cominciai a guardarmi intorno: il piccolo bagno sembrava un insieme di doveri ai quali dovevo cedere per forza, così cominciai ad aprire l’acqua per la doccia, a preparare la biancheria che sarebbe servita per me, per mio marito e per i miei due bambini. Mentre facevo tutto come un automa la mia mente era immersa nei pensieri: avevo sempre desiderato la vita che avevo ora: “sempre” significava da quando avevo scoperto di non avere una famiglia vera; mia madre e mio padre non erano mai stati una vera coppia e non sapevo se si erano mai voluti bene. Ero figlia di due persone troppo giovani per essere genitori, nonostante ciò ero tanto giovane anche io quando cercai di creare la mia famiglia con l’uomo più inetto che avessi conosciuto: con lui ero pronta ad avere un figlio, anche se non avevamo denaro ed io ero appena diciottenne. Era più grande di me di dieci anni ed ancora non aveva un lavoro, apparteneva ad una famiglia benestante che quando seppe del nostro “problema”, così definirono la mia gravidanza, lo allontanò da casa senza dargli un soldo.
Provai una grande gioia per quella futura maternità mista all’angoscia di una vita di stenti, ma mi ripetevo che tutto si sarebbe messo a posto e che avrei avuto quella famiglia che tanto avevo sognato.
La dimostrazione di quanto lui valesse arrivò quando annunciandogli il lieto evento abbassò gli occhi e non disse nulla. Mi ero illusa: pensavo che potesse cambiare diventando padre. Io avevo solo diciotto anni, ma ero innamorata dell’idea di un figlio, di una famiglia, lui non voleva pensare al futuro, ai figli, ad una famiglia senza soldi e, sicuramente, non mi amava. Il mio fragilissimo castello di sabbia crollò definitivamente quando, al quinto mese, scivolando dalle scale persi il bambino. In ospedale lui non venne. Da allora non ne seppi più nulla e mai mi mancò.
Nella mia mente quel tragico evento lasciò il posto ad un grande “buco nero”, o almeno così io lo interpretai, che ha inghiottito quasi tutti gli eventi: di quei giorni in ospedale non ricordavo nulla…
Il bussare di mio marito mi fece trasalire, doveva andare a lavoro velocemente. Parlavamo poco noi due e la fretta del mattino ci faceva dire solo frasi brevi: ogni tipo di discorso veniva troncato sul nascere perché non ci sarebbe stato il tempo di completarlo: preferivamo rimandare sempre a quei rari momenti di calma, che poi, non arrivavano mai.
– Sei sempre così stanca in questo periodo, forse dovresti dormire un po’ di più.
– Non è la stanchezza che mi fa essere così lenta, ma altro.
– Ancora con questa noia? Ma, basta ora. Esci… un po’.
Me lo disse sbuffando: era un periodo che mi ponevo il dubbio su noi due. L’unica persona a cui confidai come mi sentissi era Michela: lei così presente nella mia vita da quel giorno di diciannove anni prima in ospedale.
Con lei avevo un rapporto profondo, al quale non riuscivo a rinunciare. Era comprensiva, ma dura allo stesso tempo. Stava ad ascoltarmi per poi emettere la sua sentenza. Era inspiegabile ciò che mi spingeva a volerle bene, spesso mi sforzavo di sopportare il suo atteggiamento forte. Sapevo che mi voleva bene, ma non ricordavo perché la nostra amicizia fosse iniziata; era il mio medico. Quella volta le sue parole, sempre uguali, mi sembrarono sopportabili: mi ripeteva continuamente, come un disco rotto, che tutto era un sogno, un incubo, un brutto incubo. Anche quella noia era irreale, secondo lei. Veniva dal mio malessere.
– Mamma non ci voglio andare a scuola oggi: non sono convinto che sia una buona giornata e vorrei stare a casa con te. – Disse Matteo.
– No, tesoro mio oggi è una bella giornata, ti annoieresti a casa con me.
– Penserai tu ai miei animali quando sarò a scuola, mammina?
– Certo piccolo, la mamma penserà a loro: li pulirò e li rimetterò a posto. – Amava gli animali, ma non potendone tenere di veri in casa, aveva una specie di zoo di peluche. Mi piaceva la sua passione. Ero ben felice di comprargli tutti gli animali in peluche che trovassi in giro.
– Grazie mamma. So che lo farai.
– Allora facciamo la doccia e poi di corsa a scuola.
– L’acqua della doccia è ancora calda! – Mi annunciò Enrico guardandomi con lo sguardo vuoto.
Per lui la mia noia era incomprensibile perché la mia era la routine di ogni donna, come poteva sapere. Sua madre aveva dedicato la sua vita solo ai figli e ad un marito che la tradiva con ogni segretaria che incontrava nei bar per single, che frequentava tutte le sere della settimana. Il week-end poi indossava il vestito pulito del buon padre e del marito perfetto e con tutta la famiglia andava in chiesa. A mia suocera stava bene così: sapeva di suo marito, ma non l’avrebbe mai lasciato.
– Guardi tu che Leo non si faccia male con quel giocattolo?
– Sono in ritardo, devo scappare…
– Ma è una cosa di un secondo, il tempo che…
– No! Ho un’importante riunione dove devo presentare personalmente un nuovo prodotto: non posso tardare. Anzi, sbrigati con i bambini.
Ogni volta che mio marito ed io parlavamo del suo lavoro mi rendevo conto di quanto lo conoscessi poco: lavorava per un’agenzia pubblicitaria. Quando lo conobbi pensai che solo un uomo pieno di fantasia potesse fare quel lavoro, ma poi mi accorsi che le pubblicità da lui ideate erano squallide: di quelle povere nelle immagini e scontate nei contenuti e persi interesse per il suo lavoro. Non credo che mio marito avesse altre aspirazioni: era un bravo disegnatore, ma privo di immaginazione.
Mentre si sfilava lentamente l’accappatoio notai sul suo corpo i segni dei suoi quaranta anni portati male. La noia mi assalì ancora di più.
– D’accordo, tolgo il giocattolo a Leo così posso stare tranquilla.
– Brava, fai così. Comunque, a me non sembra realmente pericoloso.
– Hai ragione, è solo che…
Non riuscii a dire più nulla, perché spesso avevo paure inesistenti, ogni tanto coinvolgevo anche mio marito ed i miei figli nelle mie sciocche paranoie, ma per fortuna Enrico riusciva a farmi ragionare. Avevo un po’ paura della pioggia di notte e durante i temporali mi addormentavo nel letto di uno dei bambini per superare l’ansia. Credevo che le mie paure fossero anche le loro.
Matteo entrò nella doccia e la sua vocina sotto l’acqua scrosciante mi fece sorridere: era gioiosa ed il pensiero che poteva essere una brutta giornata era svanito.
Mio figlio Matteo era un bambino intelligente ed aveva sempre qualcosa di sensato da dire. Una volta, prima che lui nascesse, avevo lasciato che una veggente, per gioco, mi leggesse la mano: mi disse che nel futuro avrei avuto un bambino di cui sarei stata molto orgogliosa. Con gli anni quella sensazione si dimostrò reale: mio figlio aveva personalità ed un carattere deciso. Era diverso da me, per fortuna.
– Forza Matteo! Papà deve correre a lavoro. Devo lavare anche Leo.
– E tu non lo lavare, fallo fare a lui. È già abbastanza grande.
– Ma dai! Sei ancora geloso di tuo fratello? Lo sai che mamma e papà ti amano tantissimo, vero?
– Sì, mamma lo so. Volevo chiederti quanti compagni posso invitare per il mio compleanno.
– Tutti quelli che vuoi, la casa è abbastanza grande. E la tua nuova compagna la inviterai?
– Ma sì, tanto non è la donna della mia vita. Credo di non avere ancora trovato la donna giusta per me, anzi sì: sei tu mamma!
– Tesoro mio ancora hai solo otto anni. Vedrai che la incontrerai la tua donna che amerai e la mamma sarà felice per te.
– Non sarai gelosa di lei come io lo sono di Leo?
– No amore, stai tranquillo. Ti sei vestito?
– Sì mammina.
– Sei pronto! Leo ora tocca a te.
– Sono qui nella doccia già pronto per lavarmi. Sono grande ormai, lo dice anche Matteo: ho tre anni.
– Lo so, amore, ma ancora la tua mamma vuole starti vicina prima di andare all’asilo.
– Io sono pronto sulla porta, Matteo è con me, aspetto Leo in macchina…
Il distacco dai miei figli era sempre un po’ triste baciavo mio marito sulla bocca in modo veloce e poi mi perdevo nei loro baci dolcissimi. Quando chiusi la porta alle mie spalle sapevo che un giorno di lavoro in casa mi aspettava. Però quella mattina andai in cucina e fra il naturale disordine della colazione, delle stoviglie sporche e dei giocattoli sparsi qua e là guardai fuori dalla finestra e la luce del sole che si infrangeva sulle foglie rosse dell’autunno mi inondò il cuore. Mi invase la voglia di uscire, così pensai ai buoni motivi che avrebbero potuto giustificare con me stessa una uscita. Spesso mi creavo banalissimi motivi per non uscire da casa per lunghi periodi.
Amavo quella casa lontano dalla città. Ma mi occupava buona parte del tempo, quando non andavo a lavoro. I mobili antichi, che con mio marito avevamo scovato in negozi di antiquariato dispersi lungo tutto il continente richiedevano una pulizia accurata. Il parquet che avevamo scelto non era facile da lucidare e mi piaceva che fosse sempre perfetto. Poi c’era il vento che portava sempre una gran quantità di terra dentro casa. Ma quella era la casa dei miei sogni. Immersa nel verde, fra alberi secolari con un bel prato e fiori coloratissimi. Così l’avevo voluta e così dopo tanti anni e tanta economia eravamo riusciti a trovarla. Le stanze erano grandi, ma non dispersive, la cucina era accogliente, come l’avevo voluta io. A tavola era l’unico vero momento in cui sentivo il calore della famiglia.
Quel giorno la casa era stranamente in ordine, per quanto si possa dire tale una casa dove ci sono bambini. Non c’era niente, pensai, che avrebbe potuto giustificare una mia rinuncia ad uscire. In poco tempo mi preparai. Non mi truccai neanche.
[continua]