L’ALPINO SULLA RIVA DEL MARE
Scriteriati che fanno il bagno ce ne sono pochi. Ma gli irriducibili dell’abbronzatura non mancano: qualcuno si accontenta di esporre appena le braccia e le caviglie al tiepido sole, arrotolando maniche e pantaloni, altri osano il costume, lucertole che si appiattiscono contro le rocce.
Si capisce che è ottobre: gli arrivi hanno già il sapore delle partenze, come quando vai a salutare per l’ultima volta il mare, mentre i bagagli già ti aspettano in macchina.
Avanziamo a balzi sui grossi macigni che compongono irregolarmente il molo, godendoci quest’ultimo scampolo d’estate, sorpresi e grati per la luminosa giornata.
L’azzurro limpido ci conforta della settimana uggiosa. Ci soffermiamo tra speranzosi pescatori e rari turisti: ancora un attimo, poi torniamo.
“Buongiorno!”
È cordiale ed energica la voce del vecchio che si appoggia ad un bastone, sulla spiaggia da cui si diparte il molo.
“Vedete che cosa vuol dire venir vecchi?” chiede.
Indossa un cappello da alpino, si perde in una giacca troppo pesante che un tempo doveva essere della sua misura.
“Durante la guerra, con queste gambe, io salivo sui pali dell’alta tensione – roba da morire fulminati – a tagliare i fili della corrente…” e agita il braccio libero, ad indicare quei tralicci che forse gli pare ancora di vedere. “E adesso, vedete… ho ottantacinque anni… adesso ho paura di salire qui sopra: paura di cadere e di farmi male”.
Ma lo dice sorridendo. È simpatico.
Vorrei chiedergli se desidera un aiuto, se vuole che lo accompagniamo noi. Ma no, vuole soltanto chiacchierare:
“È tua moglie, questa?” chiede, accennando a me. “Ma che bravi ragazzi!”
Non ci dà quasi il tempo di rispondere. Ma tant‘è: noi parliamo già troppo.
“Vi faccio perdere tempo? Vi racconto ancora una storia, poi vi lascio andare”.
Protestiamo che abbiamo tutto il tempo che vuole, siamo in vacanza, oggi.
“Che bravi ragazzi! Avete proprio due belle facce!” E stringe la mano prima all’uno, poi all’altro.
“Ma lo sai che quella che stai stringendo è la mano di un eroe?”
Sorridiamo, mostriamo meraviglia.
“È successo durante la guerra. C’era questo ragazzo, io potevo ammazzarlo…”
La mano stringe più forte, il bastone batte ritmicamente a terra.
“C’era la sua mamma, piangeva, credeva che lo ammazzavo, ma io ho visto che era quasi un bambino, e gli ho detto in italiano: – vai, che non ti ammazzo mica – e con queste mani l’ho liberato e l’ho lasciato andare…”
I suoi occhi tornano a misurare l’ostacolo.
“No, no… il mare lo guardo da qua. Non voglio mica cadere e farmi male, ho ottantacinque anni, io!” Sorride: “Che bravi ragazzi, vi auguro buona fortuna!”
Vorrei dirgli qualcosa, dirgli qualcosa davvero, non i soliti grazie e buongiorno che sto pronunciando. Vorrei magari abbracciarlo, o chiamarlo “nonno”.
Ma forse lo sa già.
Ci allontaniamo, ci volgiamo con un cenno a salutarlo.
“Ricordatevi, che avete stretto la mano ad un eroe!” ripete l’alpino, sulla riva del mare.
LA VALIGIA CHE SAPEVA DI OCEANO
Quella valigia era stata un fantastico regalo per la maturità: capiente, rigida, con la serratura a combinazione. Soprattutto il colore l’aveva entusiasmata: un luminoso verde azzurro, che lasciava presagire le limpide acque turchesi di mari esotici, meta dei suoi viaggi futuri.
Quell’estate, il mondo era tutto nelle sue mani: il diploma, i diciott’anni, la valigia che sapeva di oceano…
***
I raggi del sole filtravano obliqui dalle imposte socchiuse. Valeria posò la valigia sul letto, fece scattare le serrature: dopo due anni, odorava ancora di nuovo.
Aprì l’armadio: meglio iniziare dai pantaloni, sono quelli che si sciupano meno.
Due paia di jeans: la sua tenuta abituale per andare a scuola. Ricordò che si era sentita tremendamente goffa, dentro quei pantaloni un po’ larghi e informi, quando si erano incontrati le prime volte. Lui era “grande”, di quarta, si muoveva per i corridoi con quella disinvoltura che ostentano i ragazzi delle ultime classi quando le ragazze li guardano. Lei invece, una “primina” imbranata con gli occhiali, si sentiva morire al pensiero di rivolgergli un timido “ciao”.
Pantaloni neri. Li aveva indossati la sera della festa della scuola, con una maglietta con gli strass. Ci teneva tanto, a quella serata, voleva disperatamente che Matteo la notasse. Da qualche settimana aveva iniziato a portare le lenti a contatto, e con qualche colpo di sole nei capelli non aveva più quell’aria da secchiona bigotta. L’aveva notata il proprietario del locale, invece, le aveva addirittura proposto di fare la cubista, e l’avrebbe anche pagata bene. Ma lui, figuriamoci: tutta la sera a fare il cretino coi suoi amici, non l’aveva neppure sfiorata con lo sguardo.
“La” gonna: l’unica. Quella l’aveva indossata al primo appuntamento. Appena appena sopra il ginocchio, non avrebbe mai osato una vera minigonna. Ma si era sentita una donna splendida e affascinante, quella sera: il miracolo, chissà come, si era compiuto. Valeria non sapeva farsene una ragione, eppure… Matteo, proprio lui, il ragazzo dei suoi sogni, le aveva chiesto di uscire. E dopo quella sera ce n’erano state molte altre.
“Meglio che mi sbrighi, prima che torni a casa”
Ma Matteo lavorava sempre fino a tardi, non c’era bisogno di affrettarsi. E quando tornava, era sempre stanco.
La valigia che sapeva di oceano accolse una tuta da ginnastica: per qualche settimana, dopo che Valeria era andata a vivere con Matteo, era riuscita a trascinarlo in palestra con lei, la domenica mattina: un paio d’ore, per vincere la pigrizia. Tanto per fare qualcosa insieme.
Ma come si poteva chiedere a uno che si ammazzava di lavoro anche il sabato di sfiancarsi in palestra la domenica mattina?
Valeria si era comperata una cyclette.
Vestitino nero. L’aveva indossato ad una festa, una sola volta, con gli amici di Milano. Era un sabato sera; lui era tornato tardi, quella volta, più tardi del solito, non l’aveva potuta accompagnare. Valeria l’aveva aspettato per oltre un’ora, scrutando le macchine che passavano lungo la via, ritoccando qua e là il trucco e la pettinatura, tra momenti di angoscia e di stizza. Poi, la telefonata: “Faccio tardi, non posso… E poi, io non piaccio ai tuoi amici, e loro non piacciono a me. Meglio se vai con loro, che cosa ve ne fate di un paesanotto come me?”
Ci era andata, alla festa. Aveva riso e ballato per tutta la sera, senza doversi preoccupare che lui si annoiasse o volesse tornare a casa.
Era tornata tardissimo. Lui dormiva a pancia in giù, di traverso nel letto. Lei andò sul divano.
Vivevano insieme da due settimane.
“Me ne vado davvero, questa volta”.
Magliette. Villaggio Valtur, sul Gargano. Ci era andata con Sandra e Orietta, che si era portata dietro anche il fratellino, un deficiente di dodici anni che le spiava dal buco della serratura quando si cambiavano il costume. Il posto non era gran che, ma gli animatori erano divertenti e con i balli di gruppo si facevano sempre delle gran risate. E poi, almeno era andata in vacanza.
“Sarà contenta, Orietta, di sentirsi dire che aveva ragione!”
Maglietta dell’Inter. Quella sì, era una passione che avevano in comune: il calcio. E tifosi accaniti della stessa squadra, una bella fortuna! Aveva telefonato a Sandra, entusiasta: “Sai, domenica andiamo a San Siro a vedere il derby, noi due soli”.
Ma Matteo si era presentato all’appuntamento con il suo amico Luca. “Mi ero dimenticato di dirtelo, Valeria, ma sai…”.
Magliette, camicie e golfini si accatastavano sempre più in fretta nella valigia, ognuno con la sua storia da raccontare. Ma era tardi, lui poteva tornare e sorprenderla.
La chiuse. “La userò, finalmente” disse.
“Ecco. È finita”.
I mobili attorno le apparvero estranei, senza le sue cose, come se non le fossero mai appartenuti. La stanza, nella penombra della sera, pareva diventata più grande.
Ricordava la confusa allegria con cui si era trasferita in quella casa, lo scatolone pieno di cianfrusaglie con cui aveva sorpreso Matteo, l’entusiasmo con cui aveva sistemato i suoi libri accanto a quelli di lui. Ricordava quando insieme avevano attaccato un poster sopra il letto a due piazze: una palma inclinata, e la trasparenza marina di una spiaggia dei Caraibi. “Mi fa pensare a una vecchia canzone di Baglioni” gli aveva detto “La conosci?”
“Alla tua età ascolti quella roba?” le aveva chiesto lui, ma poi, vedendola rabbuiarsi, le aveva sorriso e l’aveva stretta a sé.
Altri tempi. Altri mondi.
Ma erano le sette. Tra un’ora lui sarebbe tornato.
“Devo preparargli la cena” pensò, riaprendo la valigia .
E, come tutte le altre volte, rimise ogni cosa al suo posto.
L’AMORE CHE NON BASTA
“Ma sei proprio sicuro? Te la senti?”
La mano libera dalla cornetta attorciglia nervosamente i corti capelli biondi.
“Ma certo che me la sento, Paoletta, sono ancora in grado di guidare e voglio rendermi utile”.
“Non so, poteva accompagnarci Claudio all’ospedale… aveva preso un permesso come il mese scorso…”
Le sopracciglia di Paola si inarcano, lanciano segnali di allarme. Claudio annuisce in silenzio, le fa cenno di calmarsi.
“Ma scusa, devo fare anch’io il prelievo, domattina, vuoi che non passi a prendere la mia bambina? Andiamo a fare gli esami insieme, ci facciamo coraggio a vicenda… sarà un po’ come quando ti accompagnavo a scuola”.
“Sei il solito testone!”
“E tu hai preso da tuo padre”.
Le viene da sorridere, un pochino. Mentre si accarezza il ventre, appena un poco prominente, si chiede se il suo piccolo Giovanni avrà la stessa sventata sicurezza del nonno, se come lui saprà attraversare le tempeste della vita e voltarsi poi indietro stupito, come a chiedersi se veramente sia passato di là.
“A che cosa pensi?”
La voce di Claudio la fa quasi sobbalzare. Verdi occhi di Paola, sopra la spalla sinistra.
Dov’era, prima, il suo bambino? Si chiede Paola. Dove sono tutti i bimbi che non sono mai nati e che non nasceranno? Non si era mai accorta di quanto il mistero della nascita fosse simile al mistero della morte: la maschera della commedia e quella della tragedia incise su due facce della stessa moneta.
“Sono contenta che sia un maschio”.
“Così potrai dargli il suo nome…”
“No, non è per questo”.
Claudio la prende sulle ginocchia.
“Una bambina, l’avrei comunque chiamata Giovanna. Non è nemmeno per il dono della vita che ritorna, o la vita che pareggia i suoi conti… Si dice così, no? Ti viene dato e ti viene tolto. Insomma, non so… Ma sono contenta che sia un maschietto”.
“Domani viene lui?”
“Sì...”
“Preoccupata?”
“No, non tanto. Se dice che se la sente, vuol dire che può farcela. Conosce la sua malattia … Vuole che andiamo noi due soli, anche la mamma deve stare a casa…”
“Non verrò nemmeno io, se preferite così”.
“Grazie… Sai, potrebbe essere l’ultima volta che io e papà...”
Le trema la voce, ma non vuole piangere. Non ancora. Non può essere debole, quando lui, invece…
“Non so dove trovi tanto coraggio”.
La sera che scende è una copertina azzurra, come un’antica nenia culla Paola e il piccolo Giovanni. Claudio gliela sistema, le copre bene le spalle. Poi anche lui si addormenta.
***
Il vecchio Giovanni è nel suo studio, tra i libri di cui non è mai sazio: le vecchie edizioni economiche che comprava da ragazzo coi pochi soldi racimolati grazie a qualche lavoretto, le enciclopedie comperate a fascicoli settimana dopo settimana, le edizioni più costose acquistate quando i soldi avevano smesso di essere un problema. Una sgraziata busta gialla sulla scrivania: le lastre, gli esiti degli esami precedenti. Più in là, i momenti più importanti della sua vita, scanditi da una serie di cornici d’argento: la laurea, il matrimonio, e poi Paola, con la zazzeretta bionda e gli occhi di sua madre…
***
Sembra una bambina, persa in quel premaman che le sta ancora tanto largo. È pallida, così smarrita, Paoletta!
“Ti ricordi il primo giorno di scuola?” le chiede, mentre la fa salire in macchina. “Ti ho accompagnata io. Quasi tutti gli altri bambini erano con la mamma, ma tu no, avevi voluto me”.
“Mi hai spiegato che in classe non si può parlare quando si vuole, ma bisogna alzare la mano e aspettare che la maestra ti dia il permesso”.
“E tu, hai sempre alzato la mano?”
“Ma se a scuola non parlavo mai! Avevo sempre paura di tutto e di tutti…”
“Non avere paura, Paoletta. Mai”.
Lei nasconde l’imbarazzo, portando le mani sul pancione.
“Cresce”. dice sorridendo.
“Anche il mio” dice lui.
Paola non sorride più.
E se ne vanno così, ognuno col suo fiore che diventa frutto: il vecchio Giovanni è ricco d’orgoglio per il piccolo Giovanni che forse non vedrà, Paola, ancor più piccola che in quel giorno lontano, stringe forte la mano di suo padre e sente, nel silenzio tra loro, tutto l’amore di questo mondo.
L’amore che non serve, l’amore che non basta.
L’automobile viene inghiottita dal traffico del mattino, si allontana, non si vede più.
IN PIZZERIA
Il locale è quasi deserto. Normale, a quest’ora. I giovani arrivano più tardi: dopo il lavoro, dopo la palestra, dopo l’aperitivo. Dopo.
Il cameriere, un biondino azzimato un po’ smarrito nella divisa che lo fa apparire più grande, ci conduce verso un tavolo apparecchiato per quattro, e senza indugio toglie un coperto.
È sempre sgradevole sedere in tre ad un tavolo per quattro: uno dei commensali deve necessariamente collocarsi di fronte alla sedia vuota. È come se uno fosse stato invitato e non fosse venuto.
I convenevoli sono lunghi, nessuno vuole prendere posto per primo. Ci togliamo le giacche con lentezza, cercando di prendere tempo. Alla fine, sono sempre io quella che deve giocare a carte col morto.
Un gruppo di donne entra nel locale, vociando allegramente. Sono più giovani di me – a volte mi sembra che lo siano quasi tutti – ma non delle ragazzine: sulla trentina, forse. Anche loro, come me, indossano tutte dei giubbini di jeans, e scioccamente questo mi rincuora, mi fa sentire un po’ meno fuori posto.
Le ragazze si accomodano con disinvoltura – sono in quattro, loro – e subito una attacca a raccontare storie di uomini e di innamoramenti, capitate a lei e ad una mezza dozzina delle sue “migliori amiche”.
Dalla mia posizione, è agevole ascoltare e inevitabile guardare e, per un istante, provo il desiderio di stare seduta a quel tavolo, anziché al mio.
Quando è stata l’ultima volta che ho trascorso anch’io una serata così? Le mie amiche hanno un’infinità di figli e di impegni, e nelle rare occasioni in cui riusciamo ad organizzare una rimpatriata, discorrono per tutto il tempo dei loro figli e dei loro impegni.
Mia madre inforca gli occhiali – ma sono quelli sbagliati, quelli per guardare lontano – e scruta nel menu. Non so perché lo faccia: prenderà comunque la solita pizza. Non s‘è fatta la tinta, ultimamente, e delle ciocche bianche sulle tempie sembrano essere sfuggite al suo proverbiale autocontrollo.
Anche lei nota la ciarliera ragazza del tavolo accanto: “deve andare avanti così per tutta la sera, quella lì?” si chiede, un po’ irritata e un po’ scandalizzata. “Si sente tutto quello che dice”.
“Meno male” vorrei rispondere. Ma sto zitta: non servirebbe ad altro che ad aumentare la distanza che ci separa. Sempre che sia possibile.
Allontana da sé il menu, cercando di leggere. “Voi cosa prendete?” chiede incerta.
Mio fratello chiacchiera un po’ con lei, le racconta le solite cose, risponde alle solite domande. Io mi lascio sprofondare nella tristezza e nella noia, e mi ci abbandono come ad un vizio. Tanto, lei non bada a me: si rivolge a entrambi parlandoci al plurale, si corregge, persino, se si avvede di aver parlato solo a lui. Ma io non sono che un’anonima appendice di suo figlio.
Ci sono degli specchi, nella sala. Mi lancio un’occhiata indolente, so già di essere invecchiata parecchio, negli ultimi tempi. Non mi piacciono più i miei capelli, mi danno un’aria disordinata. Potrei provare ad acconciarli in modo diverso… Ecco, come quella ragazza che è appena entrata col fidanzato. È carina, ha anche un bel portamento… Slanciano la figura, le scarpe con i tacchi. Le mie, le ho comperate perché erano comode. Non mi parevano brutte, a casa, ma ora mi accorgo che sono orrendamente fuori moda.
Il cellulare è acceso, come sempre. Mi piacerebbe tanto che qualcuno mi chiamasse, mi sentirei meno in imbarazzo. Mia madre penserebbe magari che ho un uomo, mio fratello la smetterebbe di dirmi che non ho una vita sociale… ma succede così raramente! La gente della mia età ha sempre “paura di disturbare”.
Mi viene in mente che gli avventori potrebbero pensare che Roberto sia mio marito, anziché mio fratello, se solo non mi mostrassi così apatica e disinteressata alla conversazione che si svolge al mio tavolo… Ma che sciocchezza! Non saremmo mai usciti in tre.
Arriva la pizza. Mi ero ripromessa di non finirla: ho messo su qualche chilo e sto cercando di tenermi un po’ a dieta, ma, prima ancora di rendermene conto, la divoro tutta e sono la prima a terminare.
Pazienza, ormai è fatta.
Due delle ragazze stanno telefonando. Stanno prendendo accordi per il dopo cena: si trovano alle undici con un altro gruppo di amici davanti all’“Innominato”. Io, invece, crollo dal sonno, e non posso fare a meno di chiedermi se domani non si dovranno alzare anche loro per andare a lavorare.
Il cameriere si avvicina un’altra volta.
Quasi quasi, prendo anche il dolce.