Notte di luna
Capelli neri più della notte;
lunghi come non se ne vedono più.
Un vasto fiume d’ebano
che da te, dall’alto,
pioveva sul mio petto,
in una dolce, morbida cascata,
e attraverso cui mi fissavi
con occhi
bruciati da una febbre,
ora sottili come un filo,
sulla bella fronte,
ora spessi come una lama,
come dietro una splendida,
moresca inferriata.
Accesi d’odio o di vendetta,
mi sembravano,
in quel buio silenzio,
tanto arsi eran d’amore.
Una bocca squisita
che non mi stancavo di baciare,
e di cui bevevo avido
una preziosa, misteriosa linfa,
come per rubarne la ricetta.
E la luna discreta che indugiava
sui tuoi seni adorati e perfetti,
che non poteva essere più piena,
ricordi? quella sera,
questa lampada degli innamorati.
Quando entrai, nel locale,
eri sola, tu e il barista
a disputare,
combattiva come al solito,
di non so quale
scherzosa questione.
Eri venuta soltanto a consegnare,
roba di un minuto,
gli inviti per la tua mostra
– e non avevi neanche cenato –,
la tua seconda personale.
Tolsi dal frigo due birre, in bottiglietta,
e le posai in fretta, sull’umido bancone.
“No, Guercio, le porto via…”, dissi tempestivo
al barista, nostro amico,
un po’ sconsolato,
già in agguato col cavatappi.
“Sa, andiamo fuori a fumare”,
mi dicesti, appena ti ho parlato,
dopo tanto che non ci si vedeva,
né quasi, mi risulta, ci si conosceva.
“Sa, Guercio”, dissi ancora al barista,
“aprimene una, va’,
che ho parlato già anche troppo
senza bere neanche un goccio”.
“Sa, aprimi anche l’altra”, poi gli dissi,
“tanto ormai è tardi,
da che son qua,
per chi aveva deciso
– una volta non guasta –,
di restar tranquillo in casa”.
“Scusa, entro un attimo”, mi dicesti,
“il mio cocktail, prosciugato,
si è sentito solo:
ordino un altro americano”.
Più tardi, “Dorothée”,
alla giovane aiutante,
“scusa, sono un po’ distratto,
l’amaro che ti ho chiesto,
ti ricordi?, sul bancone,
l’ho bevuto per caso?”.
“Sì, l’hai bevuto”,
rispose sicura, con un sorriso,
“e l’hai già anche pagato”.
“Allora affare chiuso”,
le risposi anch’io,
mentre asciugava
bicchieri e tazzine
con l’umido straccio,
“E dammene pure un altro”.
E cosa ci restava, alla fine,
delle parole e dei discorsi,
di tutti quei gusti e cose in comune
che ora più che l’alcol, dopo tanto,
ci facevan male alla testa?
Tu dovevi ancora
andartene e cenare.
Io dovevo ancora
restarmene in casa,
una volta tanto.
Trasformati in drink,
uno dopo l’altro,
tutti i soldi rimanenti
– carta o moneta,
non riuscivo neanche più a contare! –,
“Vieni usciamo”,
mi hai detto poi alla cassa
invece di salutarci,
“voglio sedermi con te in disparte.
Mi sono accorta, tutta questa gente
mi fa sentire sola,
più che sola con me stessa”.
Ricordo ancora il nostro bacio,
all’improvviso, inaspettato
– io che non volevo provarci! –,
a frantumare quel silenzio,
a colmarlo di dolci sospiri,
e il fracasso della saracinesca
– quella poi, che figura! –
che per poco non m’infarto,
proprio contro la mia schiena.
“Cosa ho detto o fatto”,
poi ti ho chiesto, un po’ modesto,
“che ti ha fatto più del bere,
mio bell’angelo, innamorare?”.
“Ancora un po’
e ti baciavo in mezzo al bar,
davanti a tutti.
È chimica”,
fu la spiegazione.
“Impossibile”,
negai allora, divertito,
io che in quella materia
andavo male.
Tutta la notte
le mie dita, delicate,
sono corse dappertutto
sul tuo corpo profumato,
sulla pelle di velluto,
mai infine sazio
di sognar quel dolce sogno;
e la mia bocca
– sei testimone! –
ovunque ti ha baciato,
senza sapere poi più
da dove ricominciare.
Quando l’orologio
disse allora che era tardi,
e che non era più
né giorno né notte,
e le forze dell’amore consumate,
ci guardammo un poco negli occhi
per cercarvi le parole,
forse risposte,
che però, ahimè, non trovammo,
oltre solo a nuovi baci.
Ma ora, che dire?
Ti ho amata e mi hai amato,
un giorno e forse un altro, chissà,
lo svelerà un breve futuro.
Tante cose lo dimostrano,
tanti baci lo ricordano,
diammine, non è vero?
O non so più cos’è l’amore.
Fine di una attesa
Mi sono connesso ad internet,
per leggermi la posta,
ma la mia casella è vuota,
proprio come ieri.
Neanche un maledetto spam!,
a farmi sperare invano.
Ho acceso il telefonino,
e aspettato, con pazienza,
la ricerca in rete.
Aspettato un attimo e ancora,
ma nessun tuo messaggio
è appena arrivato,
a cambiare quel labile zero,
a bucare il solito screen-saver,
a uccidere questa attesa
con un sì o con un no.
A farmi decidere,
finalmente,
se piangere o gioire.
Sì o no
Chiamami o rispondimi,
ma, ti prego, fallo!,
e fai presto,
che questa attesa
così lenta mi consuma.
Dimmi soltanto
un sì o un no.
O altrimenti,
visto che a un sì
poi non potrei credere,
no, me lo dirò da solo!
Aut aut
Resto qui, appeso al nulla.
Tra me e te,
tra me e la tua bocca
e lo sciame voluttuoso
dei tuoi capelli neri,
uno squillo del telefono…
o la beffa dell’eternità.
Ergastoli d’amore
Da quando, sentiamo,
dovrei star lì a contare,
uno dopo l’altro,
i minuti della pendola
che la lancetta
non si affretta a toccare.
E da quando, poi,
la sabbia della clessidra
è diventata una condanna,
per me innocente, da scontare?
Da quando ho conosciuto te,
o perfida bruna,
dolce più del miele,
bella più della luna,
e da quando
devi prendere quel telefono,
alzarlo, e poi chiamare.
Il tempo si è fermato
Questo giorno infinito
non passerà mai.
Adesso l’ho capito.
L’orologio corre,
le lancette girano, è vero,
fanno il loro dovere,
ma il sole fuori non si muove,
e, credo, non tramonterà mai.
Mi verranno i capelli bianchi,
e l’eternità
sarà solo un numero
su questo calendario.
Ma perché, angelo mio,
ci sei così poco,
e quasi solo per mancarmi?
Ratto d’amore
Al mio ultimo messaggio
non hai voluto rispondere,
dopo che ieri ci siamo lasciati,
con molti se e troppi ma.
Questa mattina, per caso,
dal sedile è spuntata
una matita gialla
– sorpresa colorata! –
con cui tenevi ferma,
esile berlina
in quel nero fiume infilata,
dei tuoi lunghi capelli
la morbida cascata.
E che talvolta,
quando li raccoglievi,
tenevi sospesa
fra le belle labbra,
come una promessa,
appena rimandata,
che dopo poco
ti avrei baciata.
E che ora terrò per me,
ladro amoroso,
per gelosia, per dispetto,
come un dono per errore,
come un ricordo rubato.
Mi piace pensare
che non ti starà più su,
quella tenda tenebrosa!
Fino a quando una risposta
– un saluto almeno –,
non avrai mandato
– o crudele ingrata! –,
al tuo folle innamorato,
a un tuo caro amico almeno.
I conti non tornano
Dopo avermi dato tutto, quella sera,
tutto mi hai tolto, all’improvviso,
scavando in me un gran vuoto
dove vuoto, il cuore mio non era.
E ora se m’arrischio,
e a quel viso e ai dolci occhi
e ai baci tuoi ripenso,
sento che a mancarmi,
oltre a te,
viene anche il respiro.
Ma che strana matematica
è dunque mai l’amore,
dove mille tolto a mille
può alla fine fare meno?
Fatiche d’Ercole
Tu mi chiedi
di spostare le montagne;
e per amor tuo lo farò.
Tu mi chiedi
di deviare
il corso delle stelle;
e per amor tuo lo farò.
Ma ora tu mi chiedi,
angelo mio,
per il nostro bene,
di dimenticare quegli occhi.
E… Perdonami.
Ma nel cuore
una forza d’Ercole
così non ce l’ho.
Odio d’amore
Mi guardavi
con degli occhi
che se nella bella mano
avessi avuto un pugnale,
credevo mi avresti ucciso.
E invece,
dall’arco delizioso
della tua bocca,
come unico strale,
è scoccato
un innocuo bacio.
Una maglietta
Quando mi voltai, per trovarla,
“Scusami, avevo freddo!”,
ti sei difesa, sorridendo
di quella onesta colpa,
mentre ho visto, con sorpresa,
proprio la mia maglietta,
o bella bruna,
come per magia,
che su di te era già infilata.
E mi sembrò giusto,
perché anch’io
stavo diventando
un po’ geloso,
di saperti lì,
bellezza nuda,
e sentire l’aria fresca
sulla fronte, che soffiava,
appena ha smesso
un passeggero temporale.
Anche se, chissà perché,
al tuo sorriso
– che magnifica meraviglia! –
troppo felice e contento,
a te abbracciata a te,
con le tue stesse braccia stretta,
come un gomitolo amoroso
– e poi, solo quella? –,
molto molto, angelo mio,
non potevo credere.
E se quella volta
che per noia l’ho comprata
nello specchio mi ero visto,
indeciso o meno se poi mi piacesse,
caspita, però,
o musa sdraiata,
che differenza
tra te e me!
Azzurra, la credevo,
e troppo scura,
per i miei gusti.
E… Com’era strano,
sembrava quasi bianca!
Al confronto
dei tuoi capelli neri,
lunghi come un Lete,
e della bella e morbida pelle,
dalla neve dell’inverno,
come dal sole di luglio
abbronzata.
E ora, eccola qua,
vuota e stropicciata,
appesa davanti a me.
Me l’ero dimenticata.
Credo
che non la metterò più,
né che la laverò più
– e chi ne ha il coraggio? –.
Tanto ne ho tante,
ahimè, che non metto,
nell’armadio.
Faccia in fretta, il tempo,
a guarire certe piaghe,
perché l’amore consuma,
e la morte non aspetta.
[continua]