Angeli senza pretese

di

Sonia Della Libera


Sonia Della Libera - Angeli senza pretese
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 148 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-2413

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In copertina: «Una preghiera» dipinto di Fabio Nardin


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2012


Chi saranno mai, gli angeli senza pretese? Carol, la giovane americana protagonista di questa storia, li descrive come “persone speciali […] che si sono materializzate al momento giusto e mi hanno dato chi affetto, chi una mano e basta. Secondo me, sono degli angeli… diciamo terrestri, solo che loro non se ne rendono conto e se glielo dicessi si metterebbero a ridere.” Li definisce angeli poiché “fanno del bene in silenzio, come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza andarlo a dire in TV o rilasciare interviste. I piccoli gesti di tutti i giorni hanno una grandissima importanza. Sono quelli che illuminano le giornate, no?”
Da straniera che vive in Italia, Carol apprezza maggiormente l’aiuto pulito e sincero che le viene offerto mentre si confronta con le prime sfide davvero importanti dell’età adulta e scopre l’importanza dell’amicizia e della solidarietà.


Introduzione

Questo libro è un viaggio nell’universo dell’amicizia con la A maiuscola che vede come protagonista una ragazza americana di circa trent’anni, Carol, che vive in Italia. Come ci sia arrivata e perché, il lettore lo scoprirà nelle pagine che seguono, compiendo un viaggio di circa due anni insieme a lei, tra regioni e realtà diverse, mentre si confronta con alcune stagioni dell’amore e da ragazza si trasforma in donna.
Arrivare alla soglia dei trent’anni significa misurarsi con scelte e decisioni importanti nonché compiere svolte talvolta radicali, ma la nostra protagonista è rassicurata dal fatto di non essere sola, nonostante la sua famiglia abiti distante: crede fermamente di essere aiutata e sostenuta da esseri speciali, che compaiono puntualmente sul suo cammino al momento del bisogno. Li chiama angeli terrestri perché sono esseri del tutto umani (e squisitamente imperfetti) che fanno del bene con assoluta semplicità, attraverso piccoli gesti, azioni concrete o parole di conforto che siano, e sottovoce, senza desiderare le luci della ribalta o chiedere medaglie al merito. Ovviamente, non tutte le persone che Carol incontra posseggono queste caratteristiche, altrimenti loro non si meriterebbero l’appellativo di angeli e noi non avremmo una storia.
Al lettore spetta la libertà di decidere se Carol sia una inguaribile ottimista oppure se, a suo modo, abbia colto nel segno. Da parte mia, posso solo dire che nel creare il suo personaggio le ho dato i miei occhi per vedere.
Bon voyage!

Sonia Della Libera


Angeli senza pretese


A tutti gli angeli in incognito
che ho incontrato
sulla mia strada
e a tutti quelli
che ancora
incontrerò.


Parte prima:

Milano sud


Nuovi colori per dipingere il cielo

“Buonasera. Tiene per caso colori acrilici?”

L’uomo dietro al bancone era assorto nei conti di fine giornata e la domanda sembrò cadere nel vuoto. In attesa di una risposta, Carol si guardò attorno, passando in rassegna quel curioso negozio. Raramente in vita sua aveva visto un posto tanto disordinato. All’esterno non c’era alcuna insegna ed era un vero peccato: quel caos mancava di un titolo. Si era decisa ad entrare solo per i cavalletti in bella mostra in vetrina: doveva per forza trattarsi di un colorificio. In quella sera di nebbia di fine ottobre, a fungere da richiamo per potenziali avventori era soltanto la forte luce a neon posta al centro del soffitto. Era un enorme quadrato abbagliante che tuttavia non riusciva ad irradiare la sua potenza fino alle pareti, contornate da scaffali su cui troneggiavano vasetti vuoti, cartoncini sparsi, bottigliette di olio di lino, risme di fogli e qualche tubetto di colore solitario: la logica della disposizione delle cose era davvero… creativa.

“Cusa alè che te di?”
“Volevo sapere se ha colori acrilici.”

L’uomo scrutò la giovane attraverso gli spessi occhiali che gli contornavano gli occhi, ma non le prospicienti sopracciglia. Lei indossava un maglione arancione chiaro, messo per far risaltare il color mogano dei morbidi ricci che le incorniciavano il viso. Aveva un collo elegante e modi raffinati che il suo abbigliamento sportivo non riusciva a celare.

“A che cosa ti servono?”
“Per tirare fuori quello che ho dentro. Se non trovo un canale di sfogo penso che salterò in aria con un gran boato”, pensò lei, limitandosi invece a rispondere: “Beh… per dipingere.”
“Allora vieni con me. Quei colori li tengo al piano di sotto.”

L’uomo le fece cenno di seguirlo giù per una stretta scala a chiocciola. Scendendo, borbottò “Attenta alla testa” e, una volta raggiunta l’angusta stanzetta posta al piano di sotto, puntò dritto su una scatola sepolta sotto decine di altre assolutamente uguali, incolonnate su una sorta di davanzale, ed estrasse un tubetto.

“Te va ben in si?”

Carol annuì e chiese i colori primari, che l’uomo scelse e racchiuse in una mano, levandola poi dinanzi a sé come per mostrarle il suo prezioso bottino, e dopo averla fermata a mezz’aria, si mise a studiare il suo viso ed i suoi occhi verde smeraldo. La stanza era piccola e la distanza tra loro era di poche decine di centimetri. In quel momento, Carol si chiese se scendere lì sotto con quello sconosciuto fosse stata una buona idea.

“Beh? Che aspetti? Devi risalire prima tu, non posso mica scavalcarti! Preocupeten no, non ti guardo il didietro. Nanò, potrei essere tuo padre. E di figlie ne ho già tre.”

L’uomo accompagnò tanta saggezza con una risata sardonica. Una volta di sopra, Carol ebbe un solo pensiero: pagare ed uscire in fretta. Lui però aveva deciso di fare conversazione.

“Non ti ho mai visto. Sei nuova?”
“Vivo qui da quasi un anno.”
“E come mai non ti ho visto prima? Sai, una come te la ricorderei.”

Quella frase venne subito ripresa da un uomo sulla cinquantina che si era improvvisamente materializzato dentro il negozio. I due si guardarono ghignando, con la complicità di chi si conosce da sempre.

“Hai detto che dipingi, no? Allora perché non vieni al corso serale che si tiene qui in paese?”
“Mah, non saprei. Che corso è?”
“Tu vieni e vedrai che ti piacerà. Si dipinge, si scherza, si ascolta musica… Ci si diverte”.
“Ci penserò. Grazie. Arrivederci.”

Carol guadagnò l’uscita con passo deciso, ma continuò a percepire le chiacchiere e le risate di quei due sconosciuti finché non fu lontana.
Rientrando a casa, decise che avrebbe verificato se il corso di pittura esisteva davvero. Poteva essere un bel diversivo serale con cui arricchire quel freddo autunno milanese costellato di nebbia. Certo, quel tipo bizzarro lo era, ma aveva già imparato che la vita usa spesso strani messaggeri per indicare la via.
A casa l’attendeva il suo ragazzo, intento a preparare la cena, e Carol decise di prospettargli subito l’opzione serale di pittura in modo da guadagnare tempo: con lui occorreva prendere le cose alla lontana, specie quando la sua approvazione era dubbia. Quella sera, passando mentalmente in rassegna gli avvenimenti della giornata prima di addormentarsi, Carol rivide la scena del negozio e nel visualizzare il volto di quell’uomo dai modi un po’ spicci si trovò a sorridere: era tanto burbero da risultare simpatico. Chissà, magari era davvero un pittore.


Te capì, nanò?

Il laboratorio di pittura si svolgeva nel piano interrato di una vecchia scuola ormai dedicata soltanto alle mostre. I muri erano scrostati ed impregnati dei colori più diversi a causa dei vecchi cavalletti e dei numerosi barattoli pieni di pennelli disposti lungo le pareti. Quella sala non conosceva riscaldamento, ma in compenso c’era sempre musica in sottofondo, rigorosamente degli anni ‘50 e ‘60. Il corso coinvolgeva una decina di persone, le più diverse: casalinghe, ex bancari, pensionati e oramai anche Carol.
Le indicazioni del maestro di pittura erano poche, ma chiare: riprodurre l’immagine che disponeva su un cavalletto e che cambiava di settimana in settimana. Dopo aver presentato l’immagine a cui rifarsi, diceva semplicemente “Ora fate voi” e andava ad accendere un vecchio mangiacassette su cui metteva la musica che aveva amato da ragazzo e al cui ritmo ancora ballava, indisturbato dalla presenza dei suoi alunni, che anzi esortava ad unirsi a lui.
Il signor Giovanni, che tutti però chiamavano Gianni, aveva il modo di fare di chi ha molto visto e vissuto e per questo non conosce né imbarazzo né vergogna. I suoi anni gli davano la saggezza di chi ha sperimentato, costruito, demolito, cambiato e di chi non ha paura di dare il giusto nome alle cose. Durante il corso serale di pittura era felice: sapeva che quella gente andava lì per essere libera di esprimersi, ma anche per stare lontano dalla propria routine familiare per qualche ora, prima di tornare ad assumere i panni di un ruolo scelto magari tanti anni prima in totale inconsapevolezza e di cui adesso si sarebbe liberata ben volentieri, potendo. Vederli intenti a lavorare davanti ai loro cavalletti gli dava felicità: loro non lo sapevano, ma sembravano bambini gioiosi che avevano trovato un sottoscala in cui nascondersi a giocare.

Gianni la sapeva lunga. Si era rallegrato nel vedere che «la ragazza dei colori acrilici» gli aveva dato ascolto e che si era aggiunta al gruppo. Lei era particolare e il suo occhio di artista lo aveva visto subito. Aveva studiato il suo profilo ed il suo sguardo per capire di che animo era e vi aveva trovato dolcezza, delicatezza ed una punta di fragilità. Sapeva che il suo piglio asciutto l’aveva intimorita e il fatto che si fosse iscritta al corso dimostrava carattere e coraggio. Chissà come riuscivano a convivere in una sola persona aspetti tanto contraddittori.
La sera in cui Carol si era unita per la prima volta al gruppo, Gianni si era messo a fianco del suo cavalletto e le aveva chiesto se le piaceva l’immagine che dovevano riprodurre su tela. Lei aveva mormorato che quello non era il suo genere e lui, senza indugio, le aveva detto: “E allora dipingi quello che senti dentro. Esprimiti come vuoi tu.” Gli altri partecipanti si erano lamentati del fatto che «quella nuova» non stava dipingendo il ponte sul ruscello, come toccava fare a loro, ma lui aveva fatto orecchie da mercante. L’aveva lasciata lavorare in pace per un po’ e poi le si era avvicinato fingendo di studiare il suo dipinto, mentre con grande nonchalance gettava l’amo per fare conoscenza.

“Hai lasciato a casa tuo marito da solo, stasera?”
“Non è mio marito… Conviviamo.”
“Le stess. Devi sempre lavargli e stirargli e sopportarlo quando brontola.”
“No, io non gli lavo e non gli stiro: abbiamo una domestica. Sopportarlo quando brontola, invece, quello sì…”

Era stato il primo sorriso che gli aveva regalato, un primo cenno di apertura e di amicizia. Carol stava dipingendo la sagoma di una donna in volo sopra la terra in una notte di luna piena; l’aveva vestita del suo maglione arancione chiaro e dotata di un palloncino da cui si faceva portare.

“Dove va quella donna lì?”
“Non lo so… lontano…”
“Dov’è che vorresti andare, tu?”
“Bella domanda.”
“Sognare è importante, sennò si vive come le bestie, e poi mi sa che sognano anche loro, ma non so bene cosa, forse un osso o un campo su cui correre… Sognare mantiene vivi. Guai se smettiamo di immaginarci di fare cose nuove o di cambiare il modo in cui viviamo. Tu, poi, nanò, non avrai neanche trent’anni. Sai quante cose ti riserva ancora la vita?! La puoi cambiare di 360 gradi, se vuoi. Sei una ragazza bella, intelligente, capace… Ma chi ti ferma a te?! Te capì, nanò?”

Carol era colpita dall’immediatezza di quell’uomo. Non sapeva esattamente se era dettata da un bicchiere di troppo o da un modo di fare che gli era connaturato; comunque fosse, la sua spontaneità gli piaceva davvero. Proprio burbero, alla fine, non era: i conti su cui era riverso quando lo aveva conosciuto dovevano essere stati davvero deprimenti.

Il suo modo di fare, tra l’aperto e l’invadente, era caratteristico anche del cinquantenne che aveva intravisto al negozio, Edoardo, in cui si era imbattuta nuovamente nelle settimane seguenti al loro incontro, mentre faceva commissioni al rientro dal lavoro. Le aveva rivolto un cenno di saluto a gran voce, da distante, e le era andato incontro per salutarla, come se si conoscessero da sempre. Di fatto, non si erano neanche presentati.

“Ué, chi si vede!!”
“Buonasera.”
“Buonasera a te. Come va?”
“Bene, grazie. E Lei?”
“Adesso che ti vedo, va molto meglio. Torni dal lavoro?”

Edoardo non aveva mollato Carol finché non ebbe scoperto dove lavorava, dove viveva e se era contenta del corso di pittura. Gianni, ovviamente, gli aveva raccontato tutto. Congedarsi da Edoardo e dalle sue domande in modo asciutto sarebbe stato possibile, ma avrebbe richiesto una freddezza che Carol davvero non possedeva. Certo, quei due erano tipi strani, ma anche molto simpatici, ed era chiaro che erano mossi soltanto dal piacere di fare quattro chiacchiere: risultavano quasi irresistibili. Carol non vide nulla di male nel trattenersi a fare confidenza con quel signore simpatico; il suo ragazzo, invece, fu di tutt’altro avviso: la sottopose ad un interrogatorio e ad una lista di consigli su come trattare gli sconosciuti.

“Ma insomma, che c’è di male se mi fermo a parlare con Edoardo? Prima di tutto, è amico del mio maestro di pittura, quindi non è un perfetto sconosciuto, poi è sposato e sa che io vivo con te. In fondo sono venuta a vivere qui a Milano per starti vicino. Dovresti essere contento che faccio amicizia con gente nuova. Non posso mica frequentare solo amici tuoi.”

Già, ma lui era geloso. Quel suo tesoro se lo voleva tenere ben stretto e qualche volta se lo sentiva sfuggire di mano. Che quel tipo volesse fare amicizia con lei, lo capiva, ma temeva l’esistenza di intenti nascosti che lei non era proprio bravissima a vedere.

Dal canto suo, Carol pensava che Davide, essendo nato e cresciuto praticamente nello stesso posto (fatta eccezione per il trasferimento all’altro capo della città, evento che però non aveva cambiato in alcun modo le sue abitudini, perlomeno fino all’inizio della loro convivenza), non capisse che trasferirsi in un’altra città o, peggio ancora, in un’altra nazione, non è come andarci per un periodo in vacanza o per lavoro, quando sai che, comunque vada, alla fine torni a casa tua. Trasferirsi significa recidere molti legami ed accettare di entrare in una fase di transizione fra passato e futuro, in un presente in cui ci si può spesso sentire smarriti o sospesi. Implica perdere i propri punti di riferimento, piccoli e grandi: la faccia del panettiere di fiducia, il benzinaio simpatico, la farmacista scrupolosa, gli amici con cui si sono condivisi sogni e burrasche oppure semplici conoscenti con cui si scambiano quattro chiacchiere di tanto in tanto, ma che contribuiscono a dare un senso di appartenenza. Viene meno l’invisibile rete di relazioni che avvolge e delimita l’esistenza e che, proprio come la rete tesa a proteggere gli acrobati, evita brusche cadute: chi resta nel luogo in cui è nato e cresciuto ce l’ha incorporata, mentre chi si trasferisce se la deve ricostruire da zero. O quasi, visto che certi rapporti sfidano e vincono tempo e distanza, giacché sembrano poggiare su ponti mobili resistentissimi che è possibile attivare con una telefonata per sentirsi e condividere una gioia, concedersi uno sfogo o chiedere sostegno. Di rapporti simili Carol ne aveva tanti, a cominciare dal fratello Steve, il suo principale alleato, ma anche se i contatti con quelle persone potevano illuminare le sue giornate, erano pur sempre fugaci, preziosi ma volatili minuti rubati alla dimensione spazio-temporale, mentre lei aveva bisogno di arricchire il proprio quotidiano di interlocutori saldi e sinceri che vivessero a portata di mano.
Carol, a differenza di Davide, era pienamente consapevole di che cosa significasse trasferirsi: Milano non aveva certo rappresentato il suo primo cambiamento di casa, città o nazione. Ciò nonostante, quando durante l’ennesimo week-end insieme il suo ragazzo le aveva detto con semplicità e poesia “Sono stanco di vederti parcheggiare il trolley in casa mia, pronto per essere riempito di nuovo, e di lasciarti ripartire. Resta qui con me”, il suo cuore non aveva esitato a dire sì. Ciò che Carol invece non sapeva ancora è che vedersi per qualche giorno e vivere insieme sono due cose molte diverse. Passare dall’innamoramento all’amore richiede la rinuncia ad una parte del proprio piccolo “io” per abbracciare un “noi” che si costruisce insieme e si rinnova ogni giorno, muovendosi in una direzione comune che incorpora le aspirazioni di entrambi. Per lei, quel processo era cominciato con un radicale cambiamento professionale: da interprete free-lance sempre in viaggio a lavoratrice dipendente in una città pressoché sconosciuta in cui non aveva punti di riferimento né spaziali né umani. La doppia spoliazione di personalità, personale e professionale, si era rivelata difficile da sostenere: le mancavano lo stile di vita stimolante e variopinto di prima, i frequenti arrivi e partenze ed i contatti sempre nuovi che poteva intrecciare. Stabilità significava routine e ciò cozzava con la sua indole nomade e curiosa. D’altronde, Davide l’aveva scelta anche per questo: era affascinato dalle sue esperienze internazionali e dalla sua mentalità aperta. Per aiutarla ad integrarsi senza troppo soffrire, le proponeva spesso di partire per destinazioni ora tropicali, ora europee, e quando erano in viaggio le diceva sempre “sembri un’altra”. Temeva che averle chiesto di radicarsi per lui avesse imbrigliato la sua vitalità e quando la vedeva triste o delusa avrebbe fatto qualunque cosa per restituirle quel suo sorriso unico, ma spesso non sapeva da che parte cominciare.

“E poi suona il banjo… ha detto che fa blue grass; magari qualche volta possiamo andare a sentirlo suonare.”
“Come vuoi.”

Rifugiarsi nel suo orgoglio gli permetteva di eludere la battaglia. Avrebbe voluto renderla felice e basta, invece era così complicato. Davanti a lei si sentiva disarmato. Stava scoprendo che amare qualcuno è lasciarlo entrare dentro di sé e permettergli di vedere ciò che magari non piace neanche a se stessi. Non aveva mai dato a nessuna donna la possibilità di entrare così profondamente nella sua vita e attraverso questo rapporto stava sondando fondali inesplorati in cui talvolta avanzava incerto. Stava scoprendo che l’amore abbatte barriere, ma anche mezze verità e compromessi perché parla una lingua tutta sua che non ti insegnano a scuola. Magari! Spesso Carol proprio non la capiva; misuravano il mondo con parametri diversi ed era così sensibile davanti a tutto! Lei non si sapeva schermare e lui non sapeva come difenderla. Era consapevole di avere fatto alcuni passi falsi nel tentativo di aiutarla ad irrobustirsi, soprattutto nei primi mesi della loro convivenza. Il suo intento era sempre stato costruttivo, ma gli strumenti che aveva a disposizione andavano raffinati e nel frattempo lei ne usciva come un passerotto con le piume arruffate dalle intemperie e con la sensazione che lui le stesse dicendo che non era la situazione ad essere difficile, ma lei ad essere sbagliata.
In fondo al cuore, Davide temeva che lei si potesse stancare di lottare per integrarsi e costruire una vita con lui, insomma che potesse decidere di fare un passo indietro: era un pericolo che avevano già sfiorato. Si ripeteva che sarebbe andato tutto per il meglio, quasi fosse un mantra, ma ci credeva ogni giorno di meno. Vedeva con chiarezza che lei gli chiedeva maggiore spazio e sentiva crescere la sua insofferenza, ma preferiva eludere la questione perché affrontarla, e capire come stavano veramente le cose, avrebbe potuto aprire una crisi vera e propria dall’esito incerto.
A fare da sfondo a questo intreccio domestico segreto c’era la vita professionale di Davide, intensa ed appagante, ma molto impegnativa, che assorbiva gran parte delle energie date per vivere. Forse rendeva così bene proprio per la necessità di ricompensare almeno in parte per quanto toglieva; di fatto, gli restavano poche risorse per la lotta contro le proprie paure o a favore della costruzione di una vita comune. E di manuali sulla perfetta vita di coppia neanche l’ombra.

Davide aveva un ricordo nitido della prima volta che aveva visto Carol. Era stato durante una riunione di lavoro in cui lei fungeva da interprete. Si era unito agli altri ad incontro avviato, ma non era per questo che non capiva niente: era stato come folgorato da quella ragazza in un tailleur verde acqua che trasferiva le affermazioni da una lingua all’altra con grande naturalezza, dal suo portamento elegante e dai suoi occhi. Così, quando gli venne chiesta la propria opinione sul progetto in discussione, lui rimase a bocca aperta e biascicò una risposta che non convinse nessuno. Trovava in lei una grazia delicata; le disse che era così tanta da mettere in ombra chiunque le stesse vicino, esagerando, ma gli innamorati fanno così.
Lo aveva conquistato la sua indole allegra, la sua fantasia. Gli piaceva studiare il suo modo di fare, così diverso dal suo: lei era il sole, lui la luna. Fisicamente, invece, sembrava che si fossero scambiati i ruoli: lei aveva la carnagione chiara, quasi lunare, costellata di lentiggini delicate, mentre lui aveva pelle ed occhi scuri, ravvivati da capelli castano chiaro che i raggi del sole tingevano di biondo. Davide era vicino alla soglia dei quaranta e talvolta il decennio di vita che li separava si faceva sentire: avevano un modo diverso di guardare al futuro. L’aveva presentata in famiglia col fiato sospeso perché per lui quel passo rappresentava la consacrazione della loro storia, anche se sapeva che lei non era per niente tradizionalista né intenzionata ad accettare un fidanzamento ufficiale. Di anelli al dito Carol proprio non voleva sentirne parlare: diceva che era troppo presto per una scelta così impegnativa. L’atteggiamento della sua ragazza lo faceva sentire insicuro, ma Davide sapeva solo di volerla avere accanto a sé e si era detto certo che la vita li avrebbe guidati ed aiutati ad appianare le loro differenze. In realtà, stava scoprendo che la Signora Vita aveva anche altro da fare. Toccava a loro andarsi incontro o sorvolare, cercare di capirsi e perdonare, costruire ogni giorno con slancio e curiosità, ma si trovava sempre più spesso a pensare che avrebbe volentieri passato la mano.

Non era l’unico a sentire il peso della costruzione intrapresa: talvolta Carol la percepiva come un macigno sulle sue esili spalle e la sua tensione interiore non sfuggì a Gianni ed Edoardo. I due amici si vedevano spesso, tra un caffè al bar e due chiacchiere in negozio, e di Carol parlarono più volte. Pur non conoscendolo di persona, convenivano sul fatto che probabilmente il suo ragazzo le stava troppo addosso, ma era una questione che Carol doveva valutare da sola.
Entrambi la stimavano per come si era fatta strada nel lavoro con il merito e l’impegno, impressione che si erano fatti mettendo insieme gli elementi che emergevano dai racconti di Carol. D’altronde, interprete non ti improvvisi di certo. Pur avendo passato la maggior parte della sua vita nel mondo anglosassone, parlava italiano meglio di loro, a parte qualche imperfezione che usciva fuori ogni tanto, ma in fondo chi non proferiva qualche strafalcione? Era stata capace di passare dalla libera professione al lavoro dipendente, trasformando radicalmente il proprio stile di vita, e ora lavorava come traduttrice nella sede milanese di uno studio legale internazionale con uffici in tutto il mondo e clienti di primissimo livello. Meglio di così!
Tra i due amici si era presto formato il tacito accordo di stare vicino a quella ragazza, poiché avrebbe potuto avere bisogno di qualcosa: la sua famiglia era lontana ed era chiaro che con il suo ragazzo qualcosa non andava. Se non altro, l’avrebbero fatta ridere.

“Te capì, nanò? Gli uomini sono egoisti e gli danno fastidio le donne che hanno successo perché li fanno sentire inferiori. È come dire che l’uomo delle caverne torna a casa dalla caccia e scopre che la propria moglie sta cucinando un alce che ha preso da sola. Il maschio fa un colpo. Si sente minacciato nella sua virilità. È così… Vivere insieme non è mica facile, sai. All’inizio c’è il corteggiamento, l’attesa di rivedersi… ma poi, quando vivi insieme, sai che anche lei si siede sul water come te e allora finisce la poesia. E lo stesso vale anche per voi donne.”

Le lezioni di pittura erano arricchite da conversazioni sulla vita condotte principalmente da Gianni; Carol si limitava ad ascoltare e a fare brevi commenti: non avevano ancora una confidenza tale da indurla ad aprirgli il cuore, anche se lui ci aveva già letto dentro. Ormai Carol era molto antipatica agli altri partecipanti del corso per il trattamento spudoratamente privilegiato che il maestro le riservava: parlava con lei buona parte della serata, riservando agli altri qualche scampolo della sua attenzione. E, in cuor suo, Carol sapeva di andare a lezione per stare con Gianni: in lui aveva trovato un prezioso mattone della sua nuova casa in trasferta.

[continua]


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