Sonia Della Libera - Zigzagando verso casa
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa 14x20,5 - pp. 66 - Euro 9,00 ISBN 978-88-6587-0662 Libro esaurito In copertina: «Ciliege» immagine di Niccolò Bottecchia Zigzagando verso casa segna l’esordio come scrittrice di una donna eclettica che non smette mai di cercare nuovi percorsi su cui avventurarsi per esprimere con pienezza la sua interiorità. È stata mia allieva in un corso di pittura e mi ha dato gioia ritrovarla, dopo un decennio, come autrice: è come se fosse riuscita a trasferire le sue emozioni dalla tela alla pagina, attingendo dal proprio vissuto. Giuseppe Beccarini Zigzagando verso casaIl viale dei ciliegi “Secondo te cosa succede dopo la morte?” Sara sgranò i suoi occhioni verdi e rallentò il dondolio dell’altalena, come per concentrarsi meglio. Quel giorno portava il suo vestito preferito, azzurro a pois bianchi, con due piccole maniche rosse a mezza luna. Era il vestito buono della domenica, quello delle occasioni speciali. E qualcosa di speciale quel giorno, in effetti, accadde. “Non lo so.” Un po’ inconsueto, per due bambini intorno ai sei anni, pensare in termini di massimi sistemi. Eppure. “Io ho un’idea.” Sara annuì, limitandosi a rispondere “Anche tu, però.” E poi fu l’ora della merenda. Uno dei loro passatempi serali preferiti era il nascondino, un gioco che coinvolgeva i loro fratelli più grandi, nonché tutti i ragazzi del circondario. Non era ben chiaro chi fosse il vero richiamo, se la sorella di Sara o il fratello di Ivo, ma intanto il gruppo si era costituito e il numero dei suoi componenti continuava a crescere, cambiando spesso composizione. In quelle sere d’estate, i grilli cantavano la colonna sonora, mentre le lucciole decoravano il cielo di piccole stelle. Sara era sei anni più giovane di sua sorella, ma una sera scoprì che a uno dei membri del gruppo non sarebbe dispiaciuto che lei fosse la sua ragazza benché fosse ancora una bambina. Lui disse solo “Beh, piuttosto di un pugno in un occhio…” e tutti ne risero, scambiandosi però sguardi allusivi come a dire “Hai capito…”. Da quel momento lei gli rimase alla larga e quando una sera, durante una fuga, lui le tese una mano per aiutarla a saltare un fosso, lei si guardò bene dal farsi aiutare. Fece un gran salto, più grande di lei. Ogni tanto il gruppo di amici preparava scherzi cretini alle macchine che passavano sullo stradone alla fine del loro borgo: tendevano un filo da un capo all’altro della strada usando i nastri di vecchie cassette. Le macchine percepivano di aver cozzato contro qualcosa e si fermavano, timorose di aver danneggiato qualcosa o qualcuno, mentre loro, stesi o accucciati nei campi, ridevano a crepapelle. Quella sera un guidatore era sceso e si era arrabbiato capendo che era tutto uno scherzo. Aveva cercato di inseguirli, ma li aveva subito persi. E fu allora che quel suo ammiratore più grande le aveva teso la mano da vero gentiluomo, spaventandola. Sara ed Ivo condividevano un sogno: diventare cuochi. Sotto la scala che dava sul giardino avevano creato il loro bar ristorante, dove preparavano cocktail ed intrugli semi-liquidi per potenziali e quantomai fantomatici avventori. In realtà, lì dentro riuscivano ad infilarsi solo loro due: era il loro luogo segreto ed inaccessibile, dove sparivano le arance sottratte di nascosto alle loro madri, che a malapena sbarcavano il lunario. Un giorno decisero di fare una minestra di fango e, quando fu tempo di provarne la cottura, Sara ci infilò dentro un dito e se lo mise elegantemente in bocca per assaggiare. “Ma te la sei mangiata davvero??!!” Si sa: ciò che non uccide, ingrassa. Sara ed Ivo sognavano le grandi cucine degli alberghi in cui avrebbero preparato meravigliose torte alla crema e i cappelli da chef che avrebbero portato. Con l’ironia che solo la vita sa avere, lui finì a lavorare in fabbrica e lei ad insegnare. La sera del biglietto fu fatale. Ad un certo punto della serata, tra una risata e l’altra tra i fratelli grandi, con qualche allusione che ai piccolini sfuggiva, il fratello di Ivo disse: “Io so chi ti piace”. La sorella di Sara si coprì gli occhi con le mani e corse a chiudersi in bagno, da dove chiamò Sara a gran voce, intimandole di farsi dire quel nome. La piccola, fedele e solerte, glielo chiese. Si sentì rispondere: “Te lo scrivo in un biglietto”, un biglietto che diceva: “IL MIO”. Un mistero rivelato, ma non ricambiato. Sara capiva la sorella: lui era proprio bello. Qualche volta lo guardava lei stessa come incantata e lui non tardò ad accorgersene. Un giorno ricambiò il suo sguardo come a dire “Ho capito” e lei si chiuse nella sua timidezza bambina. Fu lui ad insegnarle un trucco per imparare la tabellina del nove e a mostrarle, senza saperlo, che cosa fosse il fascino con quel suo sorriso e il suo fare sicuro. Gli eventi della vita li allontanarono, ma rimase l’affetto pulito e sincero di chi ha condiviso i momenti spensierati dell’infanzia che ancora non conosce né tempo né logica. Fu per nutrire quel sorriso che un giorno, trent’anni dopo, Sara salì su un altare triste a leggere una poesia che nel silenzio della chiesa urlava “La morte non è niente” al suo esordio. Fu per essere vicina a quella famiglia che in un giorno afoso di luglio percorse centinaia di chilometri, chiamò il prete e chiese il permesso di leggere quel testo in chiesa. Dalla posizione privilegiata che le venne assegnata per la lettura poté guardare tutta la famiglia per l’intera durata della messa e abbracciare ciascuno di loro con lo sguardo. A dire il vero, si sentiva in imbarazzo a sedere in bella vista a fianco dell’altare, e per un attimo si chiese se quell’idea di leggere in chiesa non fosse stata davvero troppo bizzarra, ma l’iscrizione sul muro di fronte a lei le confermò che aveva semplicemente risposto ad una spinta dell’anima: diceva che quando si è chiamati a compiere le opere dello Spirito bisogna superare il proprio riserbo. Sara ed Ivo condividevano anche la passione per le ciliege, solo che lei non si sapeva arrampicare sugli alberi e lui invece sì. Ma non era un problema. Si recavano insieme al viale alberato di fronte al grande parco che dava il nome al loro borgo e lui appoggiava la bici all’albero e ci saliva a caccia. Sara aspettava che lui le tendesse le ciliege, che le calava in grandi quantità, talvolta con ramo incorporato. Quella mano tesa rimase per lei il simbolo dell’aiutare con naturalezza, andando incontro a chi qualcosa fare non sa, e del non vergognarsi di non sapere. Pur col passare degli anni, il ricordo di quei giorni gioiosi non venne mai meno, tanto che Sara non mancava mai di girarsi a guardare il suo viale dei ciliegi ogni volta che passava di là. Come dimenticare i clamorosi mal di pancia che facevano seguito alle incursioni sugli alberi? La madre di Ivo raccomandava loro di non bere acqua dopo aver mangiato le ciliege, ma come resistere alla sorgente che sgorgava all’inizio della via? “Basta che non ne beviamo troppa…” ed era la fine. Ivo la portò alla scoperta di tesori nascosti e di luoghi incantati, come l’isola. Essa si formava nell’ansa di un fiume quando era in secca e loro correvano a giocarci, disobbedendo puntualmente alle loro madri che tanto raccomandavano loro di stare alla larga dall’acqua. “Andiamo a vedere se c’è l’isola” e cominciava la nuova avventura. Tra di loro c’era un gioco ricorsivo che però Sara trovava fortemente irritante: l’età. Lui era più piccolo di un anno, ma le diceva spesso: “Io c’ero già prima che tu nascessi e poi sono nato di nuovo” e lei, che non aveva ancora sentito parlare di reincarnazione, si irritava ferocemente di fronte a quella totale mancanza di logica e così un bel giorno, durante una partita a volano, gli diede una sonora racchettata sulla testa con tutta la forza che aveva. Ivo gliela ricordò per anni, ribadendo che gli aveva fatto un gran male, per poi scoppiare a ridere all’idea di quella bambina gracile che dava sfogo alla rabbia sulla sua povera testa. Ad interrompere i loro giochi quasi quotidiani arrivò una brutta notizia, che Sara apprese da sua madre: “Devono andare via”. La piccola aveva sgranato gli occhi in un silenzio arrabbiato. “Ma perché!?” A 12 anni qualche chilometro può essere un viaggio, o perlomeno lo fu per loro, all’inizio. Ivo, socievole com’era, si creò subito nuove amicizie; la bicicletta colmò presto la distanza e col tempo si formò una nuova compagnia di ragazze e ragazzi che andavano a ballare insieme. Gli amici di Ivo vedevano Sara in una luce diversa dalla sua: era cresciuta e trovava seguito. Il contatto tra loro due, invece, si affievolì, anche se rimase un legame speciale che gli altri non capivano e che la loro diversità non spezzò mai: la loro complicità si era trasformata in un eterno prendersi in giro, stile che accomuna coloro che non hanno più bisogno di dirsi “scherzavo” perché è già scontato. Lei era cresciuta più in fretta e qualche volta lo trovava sciocco: non ci potevi fare un ragionamento (lui avrebbe detto: “E chi ha voglia di ragionare?!”). Diceva solo cavolate. Ma era sempre Ivo. E gli voleva bene come ad un fratello. L’antico rituale culinario dell’infanzia rimase in vita, trasformandosi in un invito periodico a cena quando i grandi si toglievano di torno o accettavano di stare alla larga dalla cucina. Sara preparava una cena a base di pizza e macedonia, le sue specialità, e lui portava il gelato. Talvolta ammettevano un terzo amico al loro banchetto. Non era ben chiaro perché lui fosse lì, se per le risate che si faceva con Ivo o per stare vicino a lei. Un giorno quello strano componente del trio le disse “Mi hai deluso”. Sara si era invaghita di un tipo dotato di una bella enduro; questi non mancava di ronzarle attorno durante le feste di paese e tra una chiacchiera ed una risata le andò più vicino. Fu uno dei suoi primi baci, casto e rispettoso, ma la notizia si sparse ed originò quel commento, che Sara registrò senza rispondere. Dal canto suo, Ivo non proferì verbo. Lui non era deluso: continuò a considerarla la sua amica del cuore. Una delle avventure culinarie più truffaldine dei due bimbi, ormai cresciuti, fu una pizza rubata. Erano in un parco divertimenti e all’ora di pranzo si infilarono in una pizzeria. C’era un grande andirivieni di persone, tanto che le cameriere faticavano a star dietro agli ordini. Al momento di saldare il conto, Ivo la guardò con quel sorriso furbo e le disse: “Andiamo via senza pagare?”. Bastò un’occhiata. Dopo un istante erano in strada e correvano, ridendo a crepapelle. Quando, molti anni dopo, la madre di Ivo apprese del malfatto, sollevò gli occhi al cielo sbuffando: “Gesù!”. [continua] Contatore visite dal 18-05-2011: 5352. |
||||||