Il viandante di Colonia (La leggenda di Santo Domingo de la Calzada)

di

Stefano Colnaghi


Stefano Colnaghi - Il viandante di Colonia (La leggenda di Santo Domingo de la Calzada)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 170 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-1874

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In copertina fotografia di Stefano Colnaghi


__Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è segnalato nel concorso letterario Jacques Prévert 2011


Hugonell fu di nuovo sulla balconata. Sotto di lui continuava il silenzio di una notte che ormai non era più una notte qualsiasi, in Plaza del Santo.


RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento dal profondo del cuore a Don Gonzalo Ruiz e a Javier Dìez, archivisti della Cattedrale di Santo Domingo de la Calzada, per avermi messo a disposizione, oltre alla documentazione, la loro cortesia e la loro passione per questa storia.
Un doveroso grazie va a Franco P. e Franco G. che mi hanno convinto a dare alla luce questo lavoro. E a Claudio, per il prezioso supporto e per gli immancabili consigli, dei quali questa storia non avrebbe potuto fare a meno.
Un grazie particolare va a Barbara, per avermi seguito in tutto questo percorso e soprattutto per i suoi fondamentali accorgimenti, che hanno contribuito alla forma definitiva del romanzo.


Postfazione

Il nuovo lavoro proposto da Stefano Colnaghi con questo romanzo breve prende lo spunto da una tradizione ampiamente attestata nel folklore della Spagna settentrionale, legato alla pratica del pellegrinaggio così diffusa nel Medioevo cattolico.
Il celebre miracolo di Santo Domingo de la Calzada è stato più volte narrato, come ricorda l’autore, ma anche più volte interpretato: ora in relazione a una sua evidente valenza politico-sociale, laddove il giudizio frettoloso e disinteressato dei potenti disdegna di curarsi del valore della vita di un uomo qualsiasi; ora invece rispetto a una sua possibile struttura simbolico-religiosa profonda (al ritorno dei genitori pellegrini fino a San Giacomo di Compostela, il morto – nella narrazione originale – rivive, pronto a passare, si immagina, da pellegrino a romeo, protagonista riabilitato di un nuovo viaggio fino a Roma destinato ad assicurare in modo definitivo la salvezza); o ancora rispetto alle pratiche magico-alchemiche a scopo ludico, rese popolari per esempio dal Liber de mirabilibus mundi di Alberto Magno (al cap. XCIV si cita, guarda caso, una pratica ben precisa per far saltare come vivo un pollo in padella…).
E non si può escludere, dati altri elementi antropologico-comportamentali noti sulla tradizione del gallo e della gallina conservati vivi e vispi nella chiesa della cittadina, che il miracolo servisse anche a giustificare la presenza, all’interno del culto cristiano, di elementi di divinazione pagana preesistenti. Sappiamo che la tradizione afferma che cibando gli animali di pane, essi rifiutassero quello dei pellegrini disposti al Cammino di Santiago solo per interesse, o che non offrissero direttamente il pane proprio; e si dice altresì che dal canto degli uccelli all’ingresso dei pellegrini si traessero auspici circostanziati…
All’interno di questo mondo misterioso e lontano, da cui i segnali giungono senza una precisa gerarchia che ne permetta un’interpretazione univoca, Colnaghi ha costruito una narrazione che si muove sostanzialmente nel rispetto della frammentarietà incomprensibile della leggenda.
Come nella certezza che ogni tentativo di organizzare intorno alla trama improbabile del miracolo uno spessore moderno dei personaggi fosse a priori impossibile, ha scelto di dipanare il suo racconto secondo criteri di ragionevole plausibilità delle motivazioni soggettive dei personaggi nello svolgersi dai fatti; al tempo stesso però ha mantenuto la sensibilità individuale e specifica di ciascuno di essi al di qua della soglia moderna della riflessività personale diffusa ed ubiquitaria, dell’autodeterminazione completa di sé e del proprio destino.
Vediamo scorrere e agire persone inserite dentro grandi correnti di valori intersoggettivi, di flussi collettivi di pensiero e di reazioni di massa; assistiamo a scelte personali (seduzione, rifiuto della seduzione, intercessione, attenzione intersoggettiva, pietà) che risulterebbero, se l’economia della vicenda non fosse riabilitata dal miracolo, rovinose proprio in quanto innescano comportamenti a cui il sistema preordinato delle risposte fissate nella mentalità collettiva non può dare soddisfazione. Una vedova è una vedova, ma anche una copula promiscua è solo una copula promiscua, e solo una interpretazione soggettiva della necessità di uscire da quella condizione e di non entrare in quest’ultima impedisce, nella storia ordita da Colnaghi (e non attestata direttamente nella tradizione), che tutta la vicenda si articoli secondo le dinamiche altrimenti comuni di un’umanità lontanissima dalla nostra tormentata necessità di interiorizzazione, di senso e di valore riflessivo per ogni aspetto della nostra esperienza.
Il miracolo serve proprio, nella narrazione che l’autore ha costruito, a restituire valore a quei momenti di modernità soggettiva del sentimento che i principali personaggi vivono, a riscattarli a momenti dotati di funzione della loro esperienza di vita. Impedisce che due turbamenti emotivi si tramutino in condanne (interiore e fisica) e lascia aperto lo spazio per uno sviluppo soggettivo e impronosticabile di Hugonell e della sua potenziale, respinta seduttrice.
L’aspetto ludico-giocoso del miracolo si ritrova nella chiusa lapidaria, non ulteriormente elaborata, dell’intera vicenda, ed è sostenuto come un basso continuo dalla goffaggine dei pellegrini del Nord nel mondo latino-iberico, e dalla statura caricaturale degli esponenti dell’ordine pubblico e della legge.
Al lettore avvezzo alla precedente scrittura di Colnaghi apparirà chiara la costruzione sì organica della vicenda, ma anche la propensione ad aprire e chiudere i capitoli come brevi racconti organici, con sviluppi che non prevedono un enjambement per così dire psicologico tra un segmento e un altro della narrazione, ma risolvono i personaggi nelle loro emozioni del presente, rispetto al rapporto concreto con la situazione in cui sono posti e frequentemente sulla base di tropismi del comportamento ispirati alla mentalità, alla relativa chiusura delle loro coordinate mentali, in una parola alla particolare superficialità della loro percezione di sé condizionata dal tempo storico e dalla miseria, dall’ideologia e dalla concezione popolare del mondo.
Non è possibile decidere in modo univoco se l’autore, che usa prevalentemente una focalizzazione zero, solidarizzi con questo mondo psicologico in fieri della condizione umana, ma è interessante vedere come colga il conflitto tra la propensione soggettiva e le risposte socialmente ovvie ed attese come un punto nodale della condizione umana.
Lo status di pellegrino, d’altronde, non è altro che l’estremizzazione della conditio humana qua talis; e i pellegrini nel loro abbandono fiducioso meritano i miracoli di cui sono oggetto, presi nel viaggio tra altri umani ostili e disattenti. Vogliamo credere che un miracolo lo meriti anche una donna che lascia libere le sue emozioni oltre la sua educazione, solo per rendersi conto che non bastano emozioni forti e sane per essere felici. E lo meritino anche persone caparbie che sono convinte che l’apparenza frettolosamente giudicata dai potenti come verità possa e debba nascondere altri e più veri significati. Le sublimi marionette messe in campo da Colnaghi per articolare tutta la vicenda (astanti e giudici, servi e guardie…) fungono da spalle e quinte in questa storia, la cui morale è offerta per così dire come catacresi dall’inversione del morto con il vivo, che suona come condanna e giudizio su un mondo, e insieme come paradossale giustificazione ad oltranza della sua esistenza.
Stilisticamente Colnaghi ha receduto da alcune complessificazioni che si evidenziavano nella sua seconda raccolta, e ha prescelto forme di manifesta linearità in sintonia con la prevalente rigidità dello scenario e delle motivazioni dei personaggi.
Il lettore non sarà deluso, presumiamo, dall’intreccio di fascinazione per l’arcaico, apprezzamento dell’emergere della soggettività moderna, divertimento per la natura macchiettistica della vita d’altri tempi e sincero amore e incantamento per la terra del Cammino dove molto, se non tutto, appare possibile. L’equilibrio difficile tra questi elementi è in parte lasciato, ci piace pensare, a quel santo trickster che è Santo Domingo de la Calzada…
A chi volesse approfondire la questione lasciamo il compito di scorrere Literatura y milagro en Santo Domingo de la Calzada (Jornadas “El Milagro del Gallo y la Gallina, Patrimonio Cultural”, Santo Domingo de la Calzada, 3 y 4 de diciembre de 2001), Gobierno de La Rioja, Instituto de Estudios Riojanos, 2002 e P.A. Briones, Pícaros y picaresca en el camino de Santiago, Berceo, 1999. Dove si scopriranno molte notizie e interpretazioni, accennate in parte all’inizio, ma non la chiave delle inattese svolte interiori dell’Hugonell di Colnaghi, dalla sua scelta di seguire i genitori, al rifiuto adolescenziale della carne di una donna affascinante, alla compensazione quasi allucinatoria del convincersi di una propria meritata vicinanza al Paradiso per i torti subiti. Ed è un buon motivo di curiosità per leggere questo libro.

Franco Gallo


Il viandante di Colonia (La leggenda di Santo Domingo de la Calzada)


Il valore di un miracolo
non sta nella sua grandezza,
ma in quello che ti lascia nell’anima.


I

Era una luna eterna quella che gli illuminava la metà sinistra del viso. Stava con i gomiti nudi appoggiati sulla balaustra della balconata che si affaccia su Calle Mayor, proprio dove si va ad infilare nella Plaza del Santo. Guardava il silenzio denso di una sera qualunque.
Non c’era nessuno nella piazza. Nemmeno lungo la via. I pellegrini erano ormai tutti a dormire alla Cofradìa, oppure ospiti della carità di alcune delle famiglie del villaggio.
Quella gente di paese, semplice, senza pretese, da tempo immemorabile si occupava di dare assistenza alle donne ed agli uomini che si trovavano a passare per Santo Domingo de la Calzada, sulla via di un cammino infinito.
La brezza fresca aveva spazzato il cielo. La luna piena e un numero incalcolabile di stelle quasi ingannavano. Sembrava che quello potesse essere il cielo di Santiago de Compostela, quando a Santiago invece mancavano ancora troppe settimane di duro cammino.
A lui la frescura non dava noia. Lo aiutava a pensare. Nella sua terra, dove il freddo governa i tempi e le maniere della vita, quell’alito fresco che filtrava fin sulla balconata poteva essere scambiato come l’ambasciata di una primavera docile.
Non aveva sonno Hugonell. Era certamente stanco, ma non gli riusciva ancora di dormire. Assieme agli anziani genitori, aveva trovato alloggio presso una famiglia di buon cuore.
Il padrone di casa era un uomo tarchiato, con i muscoli pronunciati e le sopracciglia gentili. Sua moglie era una donna minuta, che dimostrava un’età differente da quella che realmente aveva. Da sempre si erano dedicati ad ospitare i pellegrini, in cambio solo di una piccola offerta, se c’era. E se non c’era andava bene lo stesso.
L’uomo era contadino. Lavorava un pezzo di terra nella periferia del paese, verso il fiume. Di giorno si dedicava al lavoro nei campi e di sera aiutava la moglie ad assistere gli ospiti. Avevano una figlia, rimasta vedova ancora giovane.
Per Hugonell e i suoi genitori, quella sera, avevano preparato una minestra sostanziosa. Brodo denso e cremoso, manciate generose di fagioli, pezzi di cotenna di maiale grandi come monete e verdura tagliata non troppo fine. La pagnotta sul tavolo era del giorno stesso.
Nel salone dove consumavano quella cena donata dalla carità cristiana c’erano altri tre pellegrini. Erano alloggiati in un’altra stanza, al piano terra, messa a disposizione dalla famiglia. Il profumo della minestra aveva impregnato anche le pareti, oltre ai polmoni e alle membra dei commensali.
Era piaciuta molto ad Hugonell, quella minestra. Gli era piaciuta perché era buona, perché era calda e perché era stanco per i lunghi giorni di cammino e di pasti irregolari, ridotti a qualche pezzo di pane duro e di verdura cruda.
La ragazza, la vedova, gli aveva versato dentro al piatto due, forse tre volte il mestolo pieno di minestra, dall’odore denso e umido. L’aveva fatto con una gentilezza umile e con lo sguardo incurvato da una malinconia lontana. Hugonell aveva cercato di rifiutare, con un timido gesto della mano, neanche troppo convinto.
“Basta, Hugonell!”
Suo padre l’aveva invitato a rifiutare la gentilezza della ragazza. E glielo aveva detto nel suo idioma spigoloso.
“Un piatto è per carità cristiana, di più vuol dire approfittarsi del buon cuore della gente per bene.”
Ma ad Hugonell non era riuscito di resistere alla tenera insistenza di quella ragazza triste, dai capelli scuri, raccolti dietro la nuca. L’avevano vinto la cordialità della donna e l’avidità di uno stomaco giovane, da troppo tempo ignorato.
E probabilmente era troppo quello che ci aveva infilato dentro. Così come abbondante era il vino che aveva bevuto. Vino corposo, dal profumo sicuro, frutto delle viti generose che crescono in quelle terre silenziose, nutrite dalle acque dell’Ebro e del fiume Oja. Forse per questo motivo faticava a prendere sonno.
Suo padre e sua madre già dormivano nella piccola stanza che la vedova e la sua famiglia avevano loro assegnata.
Nei giacigli messi a loro disposizione, i genitori di Hugonell si erano calati in un sonno profondo, fatto di stanchezza, di sazietà insperata e dalla necessità di staccarsi da un corpo indolenzito e maltrattato dalla fatica.
Riposavano in una stanza modesta di una bella casa, che dava su Calle Mayor, all’angolo con la Plaza del Santo. Dormivano nel cuore di un paese remoto, Santo Domingo de la Calzada, lungo le rive del fiume Oja, dove il Sistema Iberico e la Sierra de la Demanda si sono già ammorbiditi in una pianura silenziosa, lungo la via infinita, che dalle fresche alture di Roncisvalle porta fino ai boschi fitti della Galizia.


II

Fu con il rumore dei primi aghi di pioggia sulle persiane della camera da letto che alla moglie venne l’idea.
“Facciamo il Cammino per Santiago!”
“Perché?”
“Per ringraziare qualcuno, visto che ci è stata concessa la grazia di diventare vecchi.”
“E se non fosse stato Santiago?”
“Ci penserà lui a portare i ringraziamenti a chi di dovere.”
Erano sdraiati sul letto e si davano le spalle. Lui guardava la parete della stanza, vecchia un’eternità, con le crepe che disegnavano traiettorie diventate ormai familiari. Lei era rivolta verso la finestra, pizzicata dalle prime gocce di una pioggia tenera, che sarebbe durata fino all’alba.
Vivevano in una casa semplice, nel centro di un paesino tranquillo. Pochi passi più in là c’era il loro negozio di panetteria.
Sarebbe stato un pellegrinaggio senza pretese. Non c’erano grazie urgenti da chiedere o preghiere particolari da implorare al Santo Apostolo. Al Santo Matamoros, come lo chiamavano in quella terra in cui stavano per mettere piede per la prima volta.
Nel cuore sentivano solo il desiderio legittimo, ora che avvertivano il sopraggiungere leggero dell’autunno della vita, di ringraziarlo per aver concesso loro una vita di fatiche quotidiane e di umane soddisfazioni.
Una vita normale, di lavoro onesto e instancabile nel prestino di provincia, che li aveva accompagnati dentro la vecchiaia con un fisico forse un po’ arrugginito ma ancora in salute, e con un figlio quasi adulto, di buoni principi, ragazzo impegnato e lavoratore instancabile.
Sarebbero partiti dal loro paese di case piccole, con i tetti lunghi e rossi, a meno di un’ora di cammino da Colonia. Fino a Saint Jean Pied de Port sarebbero andati un po’ viaggiando a piedi, un po’ chiedendo passaggi alle carovane dei mercanti. Da quel paese silenzioso ai piedi dei Pirenei, sul versante guascone, avrebbero cominciato il loro Cammino per Santiago.
Avevano pensato di intraprendere il pellegrinaggio lungo e pieno di avventura durante quella notte di pioggia intensa. E fu come se l’avessero deciso da sempre.
La sera precedente, quando incominciavano ad arrivare le prime nuvole minacciose, ma non aveva ancora cominciato a piovere, il compratore aveva pagato il saldo per l’acquisto del negozio.
Un’attività ben avviata, il buon nome, un forno di ottima fattura, un mulino ben tenuto e una clientela affezionata avevano permesso di realizzare una buona vendita. Sufficiente per godersi una vecchiaia tranquilla.
Era come se quel viaggio fosse il preludio di una nuova vita. Come se fosse la cerimonia di un nuovo matrimonio. Un matrimonio che non avrebbe richiesto di condividere fatiche e sacrifici per mandare avanti una famiglia solida e felice, ma che avrebbe portato in dote la possibilità di godere insieme dei frutti di una serenità acquisita, che li avrebbe accompagnati fino allo spegnersi morbido delle candele della loro vita.
Quando si alzarono, a mattina già inoltrata, faceva abbastanza freddo e c’era ancora un velo di nebbiolina umida. Hugonell era già uscito per andare a lavorare nella bottega di un conciatore di Colonia.
Avevano dormito a lungo, come per riorganizzare le forze necessarie per il viaggio verso quella meta che non sapevano nemmeno troppo bene dove si trovasse.
Trascorsero la giornata a risistemare la casa e a preparare le borse di pelle per il viaggio. Senza quasi parlarsi. Senza minimamente ripensare ad una decisione che pareva essere stata presa da anni.
“Domani partiremo per il Cammino per Santiago.”
“Mi sembra una buona idea.”
Lo disse con sincerità, Hugonell. Gli occhi grandi e ingenui non tradirono alcun stupore. Era rientrato quando la cena era appena stata messa in tavola e suo padre gli aveva lasciato assaggiare qualche cucchiaio di brodo, prima di confidargli la loro decisione. Si fidavano di lui, ormai era un ragazzo maturo, nonostante avesse solo vent’anni. Si sarebbe saputo arrangiare durante le settimane della loro assenza.
“Partiremo di buon’ora, anche se dovesse continuare a piovere.”
“Sappiate che il Cammino è soprattutto dentro i vostri cuori, e non solo sui sentieri che vi porteranno fino ai confini del mondo.”
I due anziani incrociarono gli sguardi. Stupiti. Ci fu un momento di silenzio imbarazzante. Poi Hugonell scoppiò a ridere.
“Non è mia, l’ho sentita da qualcuno, ma non ricordo chi.”
I cucchiai sbattevano sul fondo delle ciotole. Hugonell raccontò la sua giornata a Colonia. Lo fece con il solito entusiasmo e parlò fino all’ora di andare a dormire. La sera era buia e scendeva una pioggia quasi impercettibile.
L’alba successiva si presentò scura e gelida. La donna e il suo uomo andarono nella camera di Hugonell per salutarlo, per dargli un bacio profondo sulla fronte. Un bacio che gli sarebbe dovuto bastare per molte settimane.
Il ragazzo non era nella stanza. Il letto era ben fatto, come se non avesse dormito lì quella notte.
“Fa freddo, ma non sta piovendo.” Era già fuori dalla porta di casa. Stava gustando il profumo fresco e umido di una notte buia, che non era ancora finita. Con una borsa di pelle di maiale, un mantello sulle spalle e un cappello di paglia sulla testa.
Lo trovarono appoggiato al muro, ad aspettarli, con la faccia fresca dei suoi vent’anni e l’innocenza tenera di una vita ancora tutta da vivere.
Non avevano pensato di portare anche lui. Doveva lavorare, ma se lo trovarono lì. Pronto, con il sorriso innocente e la vita che gli illuminava l’anima da dentro.
Partirono così, tutti e tre assieme, preceduti dalla brezza spessa di umidità, che annunciava una pioggia imminente, dentro un’alba che faticava a farsi largo.


III

Donna Isabel ci viveva in quella bella casa, con una balconata invidiabile, che dava quasi in faccia alla piazza. Nel cuore di Santo Domingo de la Calzada.
Era la casa dei suoi genitori. Era tornata a vivere con loro dopo che la sorte, senza rispetto per il fiore della vita e senza compassione per la brava gente, gli aveva strappato il marito, ancora troppo bello e troppo giovane.
Era una donna graziosa, dai tratti sicuri, con i capelli lunghi e neri, che teneva raccolti dietro la nuca dal giorno della morte del suo sposo. Da quel momento, nessuno più l’aveva vista con i capelli sciolti. Nemmeno sua madre. Li liberava soltanto nella solitudine della sua camera da letto.
Gli occhi erano grandi, tondi e lucidi, incastonati alla perfezione dentro un viso dall’ovale preciso. Erano scuri e profondi, incurvati verso una malinconia che pareva essere eterna. Non era alta Donna Isabel, ma aveva le mani dalle dita lunghe e leggere.
Ancora ragazzina, non appena la natura la sdoganò dalla fanciullezza e le concesse di considerarsi donna, andò in sposa a Don Alfonso. Era un giovane e ricco commerciante di tessuti. Uomo onesto e valoroso, di sangue importante, rampollo di una delle famiglie più ben volute e rispettate d’Aragona. E non fu un matrimonio d’interesse.
La prima volta che la vide, fu passando quasi per caso da Santo Domingo de la Calzada, per affari. Non era una sua meta abituale, ma la sorte lo portò fino alla Plaza del Santo. La vide che stava per entrare in casa, e qualche istante dopo la scoprì sulla balconata a spiarlo con gli occhi maliziosi di ragazzina. Se ne innamorò subito e si mise in testa di sposarla.
A Saragozza c’erano molte donne che avrebbero voluto accasarsi con lui, ma Don Alfonso aveva scelto quell’adolescente che gli aveva rapito il cuore. Non ci furono ragioni di casato o d’affari che lo smossero da una decisione presa in un istante. Sua madre e suo padre, a parte qualche timido tentativo, non cercarono, o non riuscirono, a farlo recedere dal proposito.
Per le nozze dovette attendere che la famiglia ne fosse veramente convinta, ed aspettò con coscienza. La sposò con una cerimonia sobria, seppur officiata dal Vescovo, e se la portò nella sua residenza invidiabile, a Saragozza.
Tutto era come in una favola e la ragazza non ebbe problemi a inserirsi nella nuova realtà di moglie, in una famiglia nobile, conosciuta e benvoluta. Tutti la coccolavano e la aiutavano, e lei si diede subito da fare per non essere scambiata per un’approfittatrice.
Don Alfonso la riempiva di attenzioni e di amore sincero. Tutto come in una favola, appunto, fino ad un caldo ed anonimo pomeriggio di agosto, quando la sorte si girò per un momento dall’altra parte.
Erano due, qualcuno disse anche tre, ma non lo si seppe mai, i ladri idioti e mal attrezzati che quel giorno gli tesero un agguato.
La strada che da Huesca porta fino a Saragozza era deserta e arroventata da un sole bianco, piazzato in fondo all’orizzonte. E Don Alfonso nella sua Saragozza c’era quasi arrivato, con i guadagni dei buoni affari fatti nella città di San Lorenzo.
Lo aggredirono di sorpresa, da dietro. Lo colpirono con un bastone sulla schiena, facendolo cascare da cavallo.
“Bastardi, fatevi sotto!”
Era un uomo valoroso Don Alfonso. Era integro nel fisico, nella morale, nella fede timorosa di Dio, e lo era anche nel coraggio. Rotolò a terra e fu in piedi in un istante, piazzandosi di fronte agli uomini che lo avevano aggredito.
Per niente spaventato, si avventò sugli assalitori sfoderando un vigore inaspettato. Sguainò il coltello che teneva legato alla cintola, deciso fino in fondo a difendere il guadagno dei suoi affari e il suo onore.
Erano impauriti, i predoni. Avevano il volto coperto da un fazzoletto nero legato dietro la nuca, che copriva il naso e la bocca, ma lasciava in piena vista gli occhi grandi e spaventati. Forse fu la reazione inaspettata di un uomo più valoroso di loro, forse lo riconobbero e compresero di essersi imbattuti in uno dei giovani più rispettati di quella terra. Indietreggiarono di un passo e i bastoni che tenevano nelle mani divennero incredibilmente pesanti.
“Avanti!”
Brandì l’arma, dal manico d’argento, non molto grossa, ma di ottima fattura. Suo nonno l’aveva usata nelle battaglie a fianco del re e suo padre l’aveva custodita come un cimelio. Lui la portava sempre con sé durante i suoi viaggi, più come portafortuna che per difesa. Quel pomeriggio anonimo, la dovette utilizzare per quello che era.
La lama con il simbolo del Sacro Cuore luccicò al sole. Sferzò due volte l’aria che la divideva dai predoni impauriti. Don Alfonso lesse nei loro occhi la sorpresa, decise allora di sfruttare il momento, perché sapeva bene che nei fatti di coltello non esistono attimi per pensare.
I malviventi scapparono, lasciando lì i bastoni e la maldestra intenzione di rapinare un uomo più coraggioso di loro, mentre Don Alfonso si lanciava in un altro, un ultimo maledetto balzo in avanti.
Vuoi perché aveva il sole in faccia, vuoi per la concitazione del momento, vuoi perché a volte la fortuna sa essere bastarda, l’ultimo salto si concluse con il piede destro che finì sul bordo irregolare di una grossa pietra.
La caviglia gli si piegò in una torsione violenta, così innaturale che gli lacerò il tendine, e lo stivale.
Don Alfonso rovinò nella polvere. E questa volta non gli riuscì di rialzarsi di scatto. Aveva avvertito una fitta tremenda alla caviglia, e aveva sentito il tendine stracciarsi con lo stesso rumore di quando lui tagliava le stoffe. Il dolore fu talmente improvviso, come un lampo, che per un istante lungo un’eternità non riuscì più nemmeno a vedere. Tutto assunse un colore nero, e poi bianco, e sentiva il sudore freddo corrergli lungo la schiena.
Temeva il ritorno degli aggressori e si sforzò di guardarsi intorno, ma questi erano ormai lontani e voltati di spalle. Non si accorsero di nulla.
Non aveva fatto caso a quel fastidio, simile ad una puntura d’insetto, che gli era parso di avvertire all’altezza della coscia destra, mentre cadeva.
Tolse lo stivale con uno sforzo immane. Strinse fra le mani, con forza, la caviglia deformata, gonfia e livida. Tentò di riprendere il ritmo regolare del respiro, mentre la vista rimaneva appannata.
“Bastardi!”
Imprecò contro quegli imbecilli che non erano stati capaci nemmeno di spaventarlo. Solo allora cominciò a rendersi conto che quello alla coscia non era solo il fastidio per una caduta sbilenca.
Si guardò la gamba e la scoprì fradicia. Quello che pensava fosse soltanto l’umido del sudore era invece sangue caldo, dall’odore acido e appiccicoso.
Il sole picchiava forte, quel pomeriggio. Senza un alito di vento che potesse arrecare un minimo sollievo alla sventura del giovane.
Cercò il pugnale che aveva brandito per impaurire i ladri e non capiva dove gli fosse cascato. Gli bastò un attimo per comprendere che durante la caduta innaturale su quella pietra maledetta, la lama gli si era conficcata nella coscia destra.
Dalla gamba fuoriusciva soltanto il manico. Sembrava un essere immondo, ricoperto di un liquido melmoso, caldo e color granata. Lo afferrò con due mani. Con uno strattone deciso lo estrasse dalle carni, stringendo il labbro inferiore fra i denti, fin quasi a farlo sanguinare.
Il sangue schizzò in un fiotto corposo, dall’odore intenso. Il pugnale aveva reciso l’aorta giugulare e Don Alfonso lo comprese subito.
Era un ragazzo colto, aveva seguito le lezioni di anatomia dell’amico medico Don Carlos De Calatrava. Sapeva che la sua vita stava scivolando lungo un crinale melmoso e solo la sua freddezza di spirito e la pietà del buon Dio potevano concedergli di rimanervi attaccato.
Si dimenticò del dolore alla caviglia, si strappò una manica e se la legò stretta, con tutte le sue forze, sopra la ferita, che sputava sangue ogni volta che il suo cuore pulsava.
Il sole gli dava fastidio, ma non aveva più caldo. Avvertiva solo un forte odore acido e appiccicoso. E l’alito inquietante della morte.
Montò a cavallo dal lato sinistro, senza uno stivale e senza una manica, facendo uno sforzo enorme. Dalle viscere gli salì fino in gola il sapore amaro del dolore. Ma Don Alfonso non voleva morire, aveva ancora troppe cose da fare nella vita e una moglie che lo aspettava.
Spronò il cavallo e gli lasciò il compito di portarlo il più velocemente possibile fino alla sua casa di Saragozza, perché lui ormai stava cominciando a sentirsi mancare.
Quando il cavallo arrivò alla soglia del cancello di casa, Don Alfonso ormai era bianco come una candela. Era riverso in avanti e con un filo di forza si teneva aggrappato alle briglie. Dai polmoni gli usciva solamente un sibilo impercettibile, breve, sottile e metallico. Simile all’ultimo lamento dell’anima. La vista era annebbiata. Riusciva solo ad intravedere i profili delle cose. E li vedeva in bianco e nero. Sentiva le orecchie tappate e il mondo che rimbombava di rumori incomprensibili.
La casa di Don Carlos De Calatrava era dalla parte opposta della strada. Qualcuno trascinò il cavallo fin là, dentro il cortile. Il medico e l’uomo che l’aveva portato lì lo levarono dal cavallo e lo sdraiarono per terra, nel patio. Il dottore cercò di afferrare quel filo sottile che lo teneva ancora attaccato alla vita.
Don Alfonso teneva gli occhi chiusi, ma trovò il fiato e la forza di raccontare il tentativo di rapina. La vita lo stava lasciando, ma la nobiltà del suo spirito era rimasta intatta. Ebbe l’onestà di dire che quei disgraziati non c’entravano nulla con la ferita alla coscia. Poi aprì gli occhi e cercò quelli del vecchio medico.
“Ce la farò?”
“Te lo dirò più tardi.”
“Fammi sapere se dovrò morire.”
Quando Donna Isabel arrivò a casa del medico, Don Alfonso stava sdraiato su un letto. Aveva gli occhi chiusi, una camicia nuova di Don Carlos de Calatrava, i baffi e il pizzetto ben regolati. La pelle era bianca e il corpo non aveva alcun odore.

[continua]


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