Arando il caos

di

Stefano Lovecchio


Stefano Lovecchio - Arando il caos
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14X20,5 - pp. 70 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6037-8583

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In copertina: “Arando il caos” – acrilico su carta di Genny Adessa

pag. 51: “L’olivo” immagine realizzata a pastello da Lucia Cancelliere


Presentazione

Il poeta è un uomo che, pur vivendo nella storia e nella cultura della sua epoca, tende con i suoi versi a superare la realtà concreta per comunicare gli interrogativi degli uomini, la ricerca di sé, lo stupore di fronte alla vita che scorre, il dolore davanti all’approssimarsi della morte.
E non è solo importante il messaggio, ma anche come esso viene comunicato.
Il poeta darà piena forma espressiva a una emozione che forse anche noi proviamo, ma non siamo in grado di trasmettere e il lettore dovrà riuscire a interagire con lui per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda, dovrà ascoltare ciò che il poeta ha da dire cogliendo il sovrasenso che la parola acquista in poesia. Il sovrasenso riguarda sia il significante che il significato. Il significante è l’essenza fonetica, il significato è la capacità di esporre un pensiero con un linguaggio metaforico, connotativo o evocativo. Ecco perché la poesia è anche tensione, continua ricerca della parola, adatta a tradurre l’intensità di un mondo interiore.
In questa raccolta di poesie di Stefano Lovecchio è proprio la parola a far riemergere “…l’agre e fertile/ esistenza/” del poeta (Identità). Attraverso il ricorso alle figure retoriche di significato e a particolari costrutti sintattici, le figure d’ordine, Stefano associa in modo particolare la parola a livello del suo significato con effetti poetici intensi e suggestivi, restituendone dignità ed autenticità.
Nascono così metafore, analogie, sinestesie come “le fisarmoniche/ scultrici d’aria” (Dolcezza), “docili ombre/ sui fianchi delle colline…/ sembrano baci assorti/ sullo splendore di un volto” (Vivermi terra), “il tatto della tua voce” (Crogiuolo), “…scandisti il mio respiro/ come il vomere/ scandisce le zolle/ al seme ignudo” (Regalità), “cammino il tuo grembo/ come un’ombra appena/ della tua gaia figura” (Camminare in te), “… grano/ gravido di sole” (Primizie di noi), “una clessidra filata/ da cui fugga il tempo” (Qual bacio vuoi?).
Non mancano anastrofi ed anafore come “or che mi sei/ strada/ a questo sguardo/ camminerò di te” (A mia moglie), “sei un coriandolo/ sei festa senza uscita/ sei mare che mi attraversa/ sei il bivio che porta/ alla mia vita” (Le tue parole), “è una pozza di stelle nel buio/ è farina che manca/ è il mattino perenne, è il sambuco, / è il sudore che non stanca” (Maternità).
La parola, poi, scelta e collocata in opportune sedi del verso, perché risulti più incisiva e densa di significato, è ripetuta con insistenza e diventa parola-chiave che rinvia ad immagini complesse. E poiché la parola-chiave non sempre è evidente tocca la lettore ricavarla, in base alla organizzazione del lessico, in aree di comune significato, in campi semantici. Ed è così che il termine “aratro” ne richiama altri di significato affine oppure suggerisce l’idea della fatica e, per traslato, l’idea di un mondo agreste semplice e laborioso: pietra-zolla-vomere-seme, ma anche unghia-ruga-lacrima-quiete. La parola “acqua” riveste un’importanza particolare nel definire la circolarità dell’esistenza e l’idea stessa di purificazione: fonte-fiume-foce-approdo, ma anche innocenza-candore-stupore-incanto. Il termine “strada” rimanda all’idea stessa di vita e di scelta esistenziale: bivio-viottolo-sentiero-tragitto, ma anche aria-sole-battito-sogno.

Il linguaggio figurato dilata, dunque, il significato della parola infrangendo il normale codice della comunicazione e consente di dare vita a nuove e soggettive prospettive nella visione della realtà.
Ma di che si nutre la poesia di Stefano?
Si nutre d’amore, di voci e segni della natura, di ricordi, di radici, di paesaggi dell’anima che si aprono alla gioia, speranza, paura, ansia del vivere.
L’amore per il poeta diventa esperienza soggettiva, intima, drammatica e conflittuale, accompagna lo svolgimento della sua vita e ne modifica il corso. L’amore è dipingere un “sorriso per te” e farne “zaffiri di vento/ sussurri di eternità/ raccolti copiosi/ dai tuoi occhi…” (Zaffiri di vento); “i seni/ e ogni ansa del tuo abbraccio/ sono l’approdo e il dunque/ del mio stupore” (Camminare in te); “e il capo chino/ al seno/ è un precipizio/ è abisso/ è viatico a mite cielo/ che pur d’immenso è austero” (Crisalidi le mani); “quale amore vuoi?…/ dove manca il cielo/ inventeremo/ ci basta un po’ d’eterno:/ il nostro incanto” (Quale bacio vuoi?). Ma il possedere è anche sofferenza, amarezza, “è un rantolo/ divenuto altare/ su cui ardere battiti/ di sacro tempio…/… resto in esilio/ qui,/ dove l’abbraccio/ è un sussurro,/ un sogno,/ il grembo del rispetto” (Del fango e delle donne).
Nelle liriche di Stefano l’amore tende dunque ad allargarsi a una riflessione più generale sul senso dell’esistenza. Sembra arrivare da spazi e tempi infiniti portando con sé quell’istante di incanto che illumina la notte del cuore. L’amore è luce improvvisa, dono inaspettato, è “…germoglio/ tra le mani/ del tuo cielo” (Amore). E così il poeta, destinato come tutti gli uomini alla precarietà della conoscenza, intuisce, attraverso l’amore, il battito dell’esistere e quell’“infinitesimo ennesimo” che è il vero senso della vita.
La rappresentazione della natura e del mondo contadino in Stefano diventa lo scenario sul quale proiettare inquietudini personali, stati d’animo, emozioni e smarrimenti di fronte al mistero delle semplici cose. Egli è lontano ormai da quel mondo, ma la sua anima è “anche lì” con l’uomo dal volto straziato da rughe, il bambino che trascina un mulo, le caprette che giocano, briciole di civiltà attorno. Assapora la dolcezza di quelle poche cose, i “rintocchi a festa”, le “viuzze ombrose”, le “voci di uomini carnosi”, le ombre del sole “sui viottoli a pietre vive”. Sa che lì regna l’armonia che fa “bimbi gli uomini/ uomini i bimbi” (Dolcezza); ma è preso comunque dallo smarrimento perche forse quel “vivermi terra” non gli appartiene più.
È un mondo delle radici e del ricordo soltanto.
L’aratro serve ancora ad aprirgli varchi all’esistenza, l’olivo evoca per lui la mitezza “scandito in quel legno/ che chiama a convito di pane/ e d’olio” (L’olivo). La prima quiete gli ricorda sua “madre/ in quel fioccare di rughe” e suo… “padre che fu malta di sudori e sabbia di silenzio fine,/ senza mai osare/ fuochi di paglia” (Prima quiete). E la strada agre e fertile della sua campagna lo rimanda alla sua stessa esistenza.
Ritorniamo allora alla terra “tra madri colline/ che anelano/ solo,/ germogli d’eterno”, grida il poeta.
E la conosce bene Stefano la sua terra, ne descrive una quantità di fiori, arbusti, uccelli: rose, girasoli, mughetti, gigli, ginepri, trifogli, mirti, capperi, allodole, cicogne, nibbi; ne conosce i cieli della vendemmia, della semina, dell’aratura e le valli, le colline, le ombre, le nubi, le stelle. Attraverso il ricordo di questi quadretti campestri lascia filtrare una riflessione profonda, gioiosa e dolorosa sul senso dell’esistenza.

Ed è un passato che si tuffa di continuo nel presente.
La poesia di Stefano nasce proprio da questa distanza tra il ricordo e la vita presente, tra la condizione di esilio cui il poeta si sente destinato e il sogno dell’approdo alla terra natale, alle piccole e semplici cose. Il poeta soffre della lontananza: dotato di una grande sensibilità ricerca, attraverso le parole, l’armonia della sua anima e per questo vive e ama fortemente la vita, perché, come lui stesso dice “noi siamo nati… per commuovere la morte,/ varcare la soglia/ dove ogni esistenza/ nasce finalmente,/ allo sguardo che ci pensò/ così/ così simili all’eternità” (Così simili).
Per il poeta Stefano Lovecchio è una bella occasione questa: far conoscere un animo che s’eleva con la poesia al di sopra del reale e del quotidiano, per diventare un attimo, un attimo soltanto, storia universale di uomini che, pur soffrendo il male di vivere, sanno ancora respirare l’aria fresca dei mattini e contare le stelle lungo la strada delle loro fatiche.
È proprio questo che fa commuovere la morte; essa si allontana e fa spazio alla vita.

Pasquita Pulice


Nota dell’autore e ringraziamenti

L’aratro! Mi ha sempre affascinato questo utensile. Di primo impatto ti suscita l’idea di un oggetto cruento, metallico, per niente in armonia con i colori, i profumi, i sapori della bellezza, della natura. Ma poi ci pensi un attimo. È vero! È di certo cruento, ma dà un fine a quell’armonia; dà la possibilità di un frutto che altrimenti un terreno incolto e non curato, non potrebbe sperare di dare.
L’ascolto è dunque l’aratro, la terra dell’ascolto è il pensiero, il seme nella zolla è la poesia. Ma questa nostra terra; questo nostro esistere in cui il pensiero sembra quasi indomabile perché se anche non hai voglia di pensare ti ritrovi già a pensare di… non voler pensare; questa terra spesso incolta, magari solo per incuria, a volte sembra puro caos: una compresenza indefinita e non ordinata di miriadi di sensazioni, riflessioni, immagini. Questa terra che ha sete di vedersi germogliare, a pelo del nulla, ha bisogno dell’ascolto, a volte cruento, per farsi seminare dalla poesia del vivere. Certo, la poesia può nascere spontanea anche dove non sia arato, ma resta sempre quella sensazione di caos.
“Arando il caos”, invece, la poesia ha una zolla feconda in cui poter essere accudita per portare frutto; magari solo un attimo di riflessione, magari “solo” una sensazione di dover condividere l’un l’altro il proprio mondo. Forse è solo per questo che la poesia, in fondo, è un po’ come abbracciarsi, senza nulla chiedere.
Ringrazio di vivo cuore la Prof.ssa Pasquita Pulice per la dedizione e l’entusiasmo profusi nel redigere la prefazione a questa raccolta. Ringrazio parimenti la Prof.ssa Genny Adessa per aver realizzato la copertina del libro e Lucia Cancelliere per l’illustrazione all’interno del libro.
Un ringraziamento particolare ad Antonio Acito e Mauro Scala per aver contribuito, con generosità, affinché questa raccolta potesse essere realizzata.


Arando il caos

A mia madre e mio padre.

Ad ogni maternità e paternità che accudiscono, tra il mistero e la ragione, il candore e il pensiero, lo slancio e la prudenza, il dolore e la gioia: la vita.


Dolcezza

Antichi rintocchi a festa
si rincorrono
per viuzze ombrose;
s’incontrano gli echi appassionati
di voci d’uomini carnosi
fanciulli navigati d’innocenza

Il sole resta.

Cosparso sui tetti
spiega e sussurra
quelle ombre regine
su viottoli a pietre vive.
E come è sera
quell’imbrunire assorto
tra chiome stanche
accarezzate
da un’intuizione di quiète!

Le fisarmoniche
scultrici d’aria
plasmano silenzi
d’affettuoso scambio fra tristi mani
e mani in cerca disegnate a rughe.
Io non penso
allo slancio di stelle
oltre le stelle,
vedo sfuggirmi l’anima inerme
a una dolcezza di poche cose
dove l’armonia, timida,
fa gli occhi pensosi,
bimbi gli uomini,
uomini i bimbi!

Montemurro, agosto 1982


Così simili!

Non sono nato,
amore,
per mietere stelle
e negarci l’immenso,
non sono nato
per depredare
le valli
dove fiorisce immemore
il candore
tra le zolle
agri di dolore.

Non sono nato
per impigliarmi ai rovi
del nulla
o lastricare
di cenci di felicità
il manto di Gioia
che mi accudì dal primo vagito.

Noi siamo nati
amore…
per commuovere la morte,
varcare la soglia
dove ogni esistenza
nasce finalmente,
allo sguardo che ci pensò
così
così simili all’eternità!


Vivermi terra

Docili ombre
sui fianchi delle colline
acerbi
danzano lievi,
sembrano baci assorti
sullo splendore di un volto
o sulle rugose ansie
protese a divenir ricordi.

Vedo i ciuffi d’erba
come schizzi di gioia
esplosi nell’asfalto.
Odo la mano che mi accompagna
allo stupore…
Questo vivermi terra!

Danzami
appena giorno
il ritmo dell’incanto
di poche
sanguigne cose,
io che non cerco
l’arroventarmi
nei futili fuochi di mani

noi spine…
Noi
sussurri del domani.


Ascoltando

Ovunque
mi ritorna il canto
dello sguardo basso
oltre il collasso dei cieli!

Odo
il dimenare cupo
del latrato
tra le valli
inerti:
dove il dubbio
si accanisce
in un morso.

Odora di freddo
questo brivido
lasciato arrancare
sulle nostre pene:
qualcosa trasuda
dall’incesto tra il fango
e i bagliori:
è il mantello
sul riposo di legno
umido
di rancori senza meta.

Ovunque
mi si abbracciano gli occhi
allo sguardo:
ché tutto rimane
inerme
e tutto mi scruta!


Anche lì

Verde!
Tutt’intorno è verde!
Anche gli occhi di quell’uomo
dal volto straziato da rughe
(ci si sorprende a guardarli quei volti!).

Vedo un uomo
attaccato alla coda
di un cavallo in passo
e un bambino trascinare un mulo:
verrebbe da dire…
Ma non c’è niente da dire
E poi le case arrampicate
su colli introversi
di una bellezza assurda
e le caprette
(si vede che giocano).
Qua e là
briciole di civiltà
quasi un ironico progresso
il resto è smarrimento!

Sentirsi a disagio
con gli abiti lindi e la mente colta.

Mi sembra di vederli i miei occhi:
c’è anche paura
che San Chirico diventi melanconia,
poi vado via.
Ma ora, è anche lì l’anima mia!


Pastelli

Aspettavo
che il tuo sguardo
sollevasse le mie palpebre,
che le tue mani
scagliassero la luce
nei miei occhi
e il tuo pensiero
mi trascinasse
alla fonte.

Di questo sì
a questo incredulo
e atroce nulla,
di questo sgorgare
non osavo dissetare
il mio cammino
ero io l’orizzonte
eunuco di sentieri!

Senza percorsi
senza rimorsi
ho ammirato il nulla
ne ho bevuto i dolcissimi colori
ne ho masticato la gloria.

Ma l’acre odore di me
era un urlo
ne ho respirato il pianto
e la voce…
Eri tu
mio Dio!

In mano
i miei pastelli di bimbo
ancora tutti
da riversare nell’orizzonte.


Conforto

Prenderò il taglio
della lama di buio
con le mani nude,
ascolterò le ferite
come il respiro
non può indugiare
a inspirare il tuo nome.

E non è sangue,
non temere,
è un rivolo
di commozione
color di te.
È un tragitto
tra gli umori di stoppia
nel grembo fecondo,
tra cime solenni
di nulla.


Avviene

Avviene,
che l’impossibile
si fa servo del grido;
lava i piedi dell’assurdo,
e il passo chino
diviene danza.

Avviene
che cessano le lacrime
scalfire,
sanguinando perché;
si spezzano le unghie dell’angoscia,
si squarciano gli orizzonti
avvinti.

Avviene
che il respiro si slanci
all’orizzonte
e nel buio
pulsare come luce
che si fissa nell’eterno
e non si trae al dolore:
alla speranza
muta e sacra
di ogni sguardo.


Crogiuolo

A memoria
il tuo sorriso
s’inerpica nel brullo fruire
di ogni notte:
le tue mani
mi forgiano nell’istante,
fanno presa
sugli spuntoni amorfi
di silenzio.

Lacerano le carezze
l’assenza
dando voce al sangue
e accudiscono il vagito di luce
dove
l’indifferenza ostenta
una quiete già satura di orizzonti.

Il tatto della tua voce
mi disegna cieco
ed io nasco
dove il bagliore del nulla
muore!


Mi fidanzai al meriggio

Mi fidanzai al meriggio
dello sguardo
che la sera lambiva appena…

Mi fidanzai al sorriso
che silente arde
sotto uno strale di avarizia;
e come un giullare,
a me le pietre dell’urlo
per arrivare
al fondo delle stelle
ancora intatte.

E mi ricordo
le lacrime ravvivare
il fuoco
e aizzare la gioia
nonostante gli insulti
di chi ostentava vita
come un podere
da recintare;
e mi ricordo
che sognavo
di passeggiare con essi
lungo il silenzio
mentre il senso delle cose
verdeggiava.

Mi fidanzai al meriggio
quando il sole è a picco
e le ombre tacciono,
quando mi bastava
socchiudere gli occhi
e m’acclamava preghiera.


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